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Obama e la cooperazione euro-americana 

di Marcello Palumbo


Eletto dalla maggioranza degli americani presidente degli Stati Uniti, il nero Barack Obama si insedierà alla Casa Bianca, come prevede il dettato costituzionale, il 20 gennaio del prossimo 2009. L’avvenimento, che possiede tutte le carte in regola per essere esaltato come un fatto emblematico di portata storica, viene fortemente condizionato dalla congiuntura economica mondiale e dalle strettoie della politica internazionale dominata dall’andamento degenerativo dei conflitti nelle due aree del mondo, l’Iraq e l’Afghanistan, dove ogni via d’uscita appare al momento pressoché impercorribile.

Vincolato da queste ed altre amare componenti dell’attualità politica mondiale fra cui i rapporti increspati con la Russia di Medvedev-Putin, l’ascesa alla massima carica del Paese più potente del mondo di un personaggio come Obama non finisce di sorprendere anche per un altro motivo. Egli è nato nelle Hawaii nel 1961, appena due anni dopo l’ingresso di questo arcipelago nella Federazione, e come se non bastasse questa sorpresa, anche la candidata repubblicana alla vice presidenza Sarah Pelin aveva a che fare con l’altro Stato ammesso in pari data, 1959, nella galassia Usa, l’Alaska, di cui ella è governatore. Figlio di un keniota e di una madre bianca del Kansas, a 47 anni, il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti arriva alla meta sconfiggendo il mito, o meglio, il tabù racchiuso nella famosa formula WASP (White Anglo-Saxon Protestant), che riservava le massime cariche alla élite bianco-anglo-sassone-protestante, e che fu già scalfita dal cattolico John Kennedy.

Ci sono voluti un secolo e mezzo dalle leggi di emancipazione degli schiavi neri emesse nel 1865, e un’accelerazione verso la parità razziale che ha occupato gli ultimi cinquant’anni perchè un nipotino dello Zio Tom passasse dalla umile capanna alla Casa Bianca. La storia ha tempi lunghi anche presso un popolo che ha tanta fretta di consumare i passi della propria esistenza. Analogamente, occorsero almeno due secoli dallo sbarco dei primi pionieri europei sulle coste d’America tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento, prima che venisse proclamata l’indipendenza delle 13 Colonie, il fatidico 4 luglio 1776.

L’avvento di Obama, oltre che essere affidato agli analisti del futuro prossimo venturo, merita qualche riflessione sulla cornice storica entro la quale si colloca. Ormai non si vive più di solo continente. La dottrina Monroe e l’isolazionismo americano hanno perduto completamente terreno. Semmai il dilemma è tra multilateralismo e unilateralismo, il quale ultimo è più spesso subìto che non voluto dagli americani, soprattutto quando essi si imbarcano in certe (discutibili) imprese.

Anche noi europei, invasi come siamo da prodotti made in China, ma anche intenti da tempo a delocalizzare le nostre attività produttive, ed ora succubi della crisi finanziaria indotta dagli Stati Uniti, ci troviamo esposti a tutte le ondate della globalizzazione che, per altro, abbiamo contribuito a costruire. Ma questo modo di concepire i rapporti tra le nazioni dell’intero pianeta, è proprio della cultura euro-americana. Gli stili di vita, non tutti, per la verità, encomiabili, e gli strumenti di comunicazione che avvolgono il pianeta come un network, persino le mode religiose d’origine asiatica, hanno negli Usa la loro centrale di propagazione.

Così la lingua divenuta franca in tutto il mondo, l’inglese, non va a merito solo dei suoi inventori, grandi semplificatori grammatico-lessicali, ma degli americani che l’hanno veicolata dopo averla adottata ufficialmente nella propria nazione con un solo voto di maggioranza al Congresso, quando fu scelta in competizione con la lingua tedesca. Né si può negare che la prima prova degli Stati Uniti europei ebbe luogo in America sul finire del Settecento. I diritti dell’uomo vennero proclamati per la prima volta dalla Virginia nel 1776, mentre si dovrà attendere il famoso ‘89 perché la Costituente francese accogliesse quasi tutti gli schemi d’oltre Atlantico, tranne il tema della felicità, poiché non sembrò essere compito dello Stato ammannirla ai cittadini. Altre analogie: la Federazione americana ha impiegato 171 anni per passare dai 13 Stati iniziali agli attuali 50 mentre a noi sono occorsi 57 anni per aggregare 27 Stati dai Sei originari del 1951.

Ci siamo scambiati supporti umanistici e tecnologici e non ci siamo risparmiati colpi, anche sotto la cintura. Due volte nel secolo scorso gli Stati Uniti hanno riversato sul Vecchio Continente la loro possente macchina militare per salvare la democrazia europea. Essi ci sono poi stati a fianco nella ricostruzione col Piano Marshall, nella difesa dalla minaccia sovietica con la NATO, ed hanno appoggiato il nostro moto di integrazione, ma ci hanno anche traghettato i cicloni finanziari del ‘29 e quello in corso d’opera. In mezzo millennio noi abbiamo spedito nel Nuovo Continente una cinquantina di milioni di emigranti, modelli culturali, civili, confessionali, scolastici, comunicativi, insieme a bacilli come quelli della tubercolosi e del vaiolo, e da ultimo i contributi essenziali per fabbricare il nucleare e le navicelle spaziali.  

A loro volta gli americani ci hanno trasmesso le colture del pomodoro, del mais, del tabacco, il tacchino, la tolleranza religiosa e il fondamentalismo, le assemblee universali, il fordismo, il thailorismo, il produttivismo, il franchising, l’antipolio, il fitness, la new economy e tante altre tessere del mosaico postmoderno. Ma insieme abbiamo fronteggiato il dopoguerra, la guerra fredda con le istituzioni internazionali che stavano a guardia della vacillante e spesso violata pace sul pianeta. Nel frattempo gli USA sono scesi più volte in campo in imprese sfortunate che a noi sono state risparmiate, o al massimo vi abbiamo preso parte e vi partecipiamo con piccoli contingenti da peacekeeper. Un signore francese inventò le riunioni dei cosiddetti grandi dell’economia mondiale, che gli americani hanno portato a maturazione, e che ora servono più che mai a fronteggiare gli effetti disastrosi della crisi.

Ma oggi miliardi di uomini sono passati da uno stato preindustriale a una fase di risveglio impetuoso e già si parla di questo nostro tempo come di una stagione Asiatica. Può darsi, ma il Secolo XXI ha ancora bisogno della cooperazione euro-americana. E Obama sembra venuto sulla scena per rafforzare questo comune destino.

 

 

 

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