GADDA,UN
NUOVO LINGUAGGIO
di
Giuseppe Trabace
Il pubblico non finisce mai di sorprendere. Nonostante le iniezioni
di ovvietà e banalità che giornalmente le TV pubbliche e private
ci propinano, venerdì 18 gennaio la platea del teatro Vittoria
seguiva con attenta partecipazione –sottolineando con applausi i
punti più interessanti - la lettura di alcuni passi del romanzo di
Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”.
L’occasione era quella della manifestazione “Tè letterari”
curata dal critico Marcello Teodonio e con l’apporto recitativo
dell’attore Gianni Bonagura.
Quale la sorpresa? Gadda è ritenuto anche dalla critica un autore
difficile ed ostico da interpretare ma forse in molti si sbagliano.
Teodonio con lucida semplicità ha illustrato il mondo certamente
complesso di questo autore e ha chiarito che questo romanzo si
contraddistingue per la frantumazione linguistica con cui è
scritto. Nell’opera confluiscono l’italiano colto, i dialetti più
diversi da quello veneto a quello romanesco a quello molisano. La
ragione è nella convinzione di Gadda che ”non è possibile
scrivere un unico e a tutti leggibile italiano. La colpa è
d’ognuno e di tutti, scriventi o leggenti italiani. Ognuno
d’essi, come un passante distratto, urta quello che incontra”.
Questa babele di linguaggio è anche la sostanza di un romanzo del
tutto originale.
La trama è quella di un giallo, sia pure non tradizionale,
ambientato nella Roma retorica e fascista del 1927.I toni sono
quelli del grottesco, anche se non vengono sottese amare
considerazioni su come va questo benedetto mondo. Nel palazzo di via
Merulana,219 accade un delitto per rapina di una agiata signora
romana senza figli. Incaricato delle indagini è l’astuto e
concreto commissario Ingravallo, duramente colpito dal delitto per
la sua amicizia, che sfiora la passione amorosa, con la vittima. Il
commissario va alla caccia dell’assassino con grande
determinazione. Nel corso dell’inchiesta Gadda descrive con acida
ironia la meschina umanità piccolo borghese dell’epoca e quindi dare un senso, una
razionalità a quel mondo sconvolto.
La forza
di questo romanzo, pubblicato dopo lunga elaborazione nel 1957, va
ritrovata, oltre alla commistione dei linguaggi, nella folla di
personaggi di varia estrazione sociale che si affastellano e che lo
popolano. La lettura di alcune pagine significative dei
“Pasticciaccio” sono un impegno non facile. C’è riuscito
Gianni Bonagura che ha dato fondo a tutte le sue qualità di attore
di razza per dare voce e anima ai dialetti coloriti in cui si
esprimono i protagonisti ed i comprimari della storia. Applausi
meritati alla fine a Teodonio, a Bonagura ma anche all’autore del
“Pasticciaccio” di cui tra le pieghe della complessa trama può
rilevarsi un forte impegno morale e la voglia di liberarsi dai lacci
di una società arida e claustrofobica.
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don Giovanni
all'Argentina
NAPOLI CELEBRA DON GIOVANNI
di Giuseppe Trabace
Ai
primi di novembre il teatro Argentina di Roma ha aperto la stagione
con lo spettacolo “Don Giovanni”, basato sul testo seicentesco
del drammaturgo spagnolo Tirso De Molina intitolato
“el burlador de Sevilla y convidado de piedra”.
Il nobile spagnolo don Juan, libertino privo di scrupoli,
passa inappagato di conquista in conquista di donne nobili e plebee
incurante degli ammonimenti che gli sono rivolti dal fido servitore
Catalinon. Il nobile di Siviglia giungerà al punto, dopo avere
rapito la giovane Ana de Ulloa, di ferire a morte il padre della
fanciulla don Gonzalo. Il suo istinto dissacratorio lo porterà a
sfidare la morte. Don Juan, entrato in una chiesa di Siviglia, vede
la tomba con la statua di pietra di don Gonzalo e con boria
sacrilega lo invita a cena per quella sera stessa. La statua si reca
all’appuntamento ed a sua volta invita il nobile seduttore a cena
per la sera successiva nella cappella dove è sepolto. Don Juan si
reca coraggiosamente, con il suo fedele servitore, alla cena ma ad
un tratto la statua lo ghermisce con il braccio e lo fa sprofondare
nell’inferno, negandogli il conforto, implorato dal nobile, della
confessione.
Il
regista Maurizio Scaparro,
partendo da questo dramma,
ha costruito uno spettacolo che viene presentato come fosse
raccontato e cantato da comici napoletani della commedia
dell’arte. L’originale adattamento si sviluppa attraverso un
dialogo di stampo popolaresco, intramezzato da balli e canti che si
rifanno alla tradizione del seicento napoletano. Il fedele servo di
don Juan si trasforma in un affamato e spiritoso Pulcinella senza
maschera, sorretto dalla sua filosofica saggezza di popolano
ed invano proteso a convincere il padrone di abbandonare la
pericolosa strada del seduttore. La conclusione è tragica e il
volto dello scherzoso Pulcinella si scioglie in una maschera di
intenso dolore dinanzi alla orribile fine di don Juan.
Spettacolo originale condotto con mano sicura da Scaparro ed
allietato dalle azzeccate musiche di Nicola Piovani, vincitore due
anni or sono dell’Oscar per la colonna sonora del film “La vita
è bella”. Si nota a volte qualche pausa o incertezza ma lo
spettacolo regge anche per la grande vitalità di
quell’attore-cantante di gloriosa tradizione napoletana che è
Peppe Barra, calatosi con naturalezza nei panni dell’umanissimo
Pulcinella.
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DELL’ARCO
CANTORE ERMETICO DI ROMA
DIALETTO
CHE DILETTO!
di Giuseppe Trabace
La
platea
del teatro “Vittoria” venerdì 30 novembre, nell’ambito
dell’incontro culturale “The letterari”, assisteva ammirata
alla lettura sapiente e partecipativa dell’attore Gianni Bonagura
di alcune belle poesie in dialetto romanesco di Mario Dell’Arco.
Si sentiva il bisogno di ascoltare la voce romana di un artista
originale che alla professione di architetto alternò quella di
cantore ermetico della sua città. Lo studioso Marcello Teodonio,
con semplicità mista a chiarezza, illustrò agli spettatori del
“Vittoria” la vita artistica di Dell’Arco che attraversò
quasi tutto il 900 inventando poesie
da cui erano assenti ogni segno di bozzettismo o di richiamo
ridanciano alla più scontata tradizione romana. Questo artista
certamente negli anni giovanili studiò ed approfondì le rime del
sommo Belli e del “borghese” ed abile favolista Trilussa ma poi,
nella seconda parte degli anni 40, se ne allontanò fortemente
influenzato da quella Roma popolare
e vera felicemente descritta da letterati come Patti e
Moravia e da grandi uomini di cinema come Rossellini e De Sica. Sulla
poesia di questo autore forte influenza ebbero le correnti
dell’ermetismo anche se la sua cifra stilistica mostra una
delicata sensibilità condita di un’ironia spesso amara, con
venature di surreale. Il dialetto cui ricorre non è “volgare”,
non ha caratteri immediatamente popolareschi, piuttosto è un vero
mezzo di espressione, spesso più raffinato della lingua italiana.
Le sue poesie sono brevi e concise, ogni retorica è abbandonata, vi
è coinvolgente partecipazione e solidarietà con l’uguale
soffrire di altri uomini ed il rifugio spesso il poeta lo trova
nella contemplazione della natura e degli animali.
La prima raccolta di poesie fu pubblicata nel 1946 con il titolo
“Taja ch’è rosso”, seguita nel 1947 da “La stella de
carta”.
La
redazione ha trovato nel suo archivio questa poesia poco
conosciuta, scritta il 24 aprile 1977 nell’occasione della
morte del popolare cantante romano.
ROMOLO
BALZANI
Un
rosignolo a pollo ar Cuppolone,
er becco pieno zeppo de canzone.
Un giorno pija er volo
E in celo cherubbini e serafini
S'armeno de chitarre e mannolini.
Squilla l' Eco der core
E sfuma dar giardino
Pino, cipresso, alloro:
sfuma er fiore.
Qua
spunta er Colosseo;
là. Dietro a la Colonna
Antonina, s'affaccia la Rotonna.
Una fettuccia d’oro
Er fiume lega ar marmo e travertino.
Sparito er paradiso,
libberi da la soma
dell'anni sur groppone,
Pietro e Paolo
s'aritroveno a Roma.
Mario
Dell'Arco
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Quasi
subito la sua opera ebbe ampi apprezzamenti da critici e letterati
di qualità quali Baldini,
Pasolini e Sciascia. Proseguì pubblicando negli anni fino a tarda
età molte raccolte di poemi. In questa produzione si distinsero
“Tor Marancio”, che descrive la
consapevolezza del poeta sul dramma della miseria nelle
borgate romane, e “Una striscia de sole”con cui Dell’Arco cantò
con estremo pudore la prematura morte di un suo figlioletto.
La serata trascorse veloce ad ascoltare quei versi così autentici
letti da Bonagura, ora con scanzonata ironia ora con intenso pathos,
e c’era da chiedersi come mai quei poemi fossero così poco
diffusi e conosciuti.
Teodosio rispose a quegli interrogativi precisando che al successo
di critica non fosse seguito per il poeta un corrispondente
riconoscimento da parte dei lettori. Un motivo per stimolarci a
rileggere un artista la cui poetica appare attuale ed interessante
nei contenuti e nella forma.
In chiusura la platea applaudiva
a lungo questa rievocazione di un intellettuale che si pone
anch’egli, sia pure con diversi accenti, come punto di riferimento
della poesia dialettale del 900. |
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