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IL CAMPO |
Ritornare nei luoghi dell’infanzia e della prima giovinezza è come andare ad un monumento del proprio passato a cui si è legati da istanti di affetti inestinguibili custoditi sempre come qualcosa di sacro nel profondo del cuore. In tutti questi anni, il ricordo costante della dimora paterna non mi ha mai abbandonata anzi mi ha seguito costantemente in maniera assillante. Rimembrare i diversi angoli di ogni stanza sono ricordi rimarchevoli; uno in particolare mi è rimasto incancellabile: il sito della veranda perché era là che passavo gran parte della mia giornata un po’ per giocare un po’ per fare i compiti di scuola e leggere. Quell’ambiente mi attirava , era anche il mio osservatorio; di là i miei occhi spaziavano guardando le tante e varie scene di vita campestre; perché davanti a quella veranda si stendeva un immenso campo che finiva ai piedi di una montagna che aveva un colore particolare, d’un bleu grigio con la forma di faccia piatta, che con la mia fantasia avevo fatto corrispondere ipoteticamente alle varie sporgenze e rientranze gli occhi il naso e la bocca. Quel viso mi fissava sempre, anzi mi ha seguito per tutta la vita. Ora mi pareva che mi sorridesse incoraggiandomi ad andare avanti, talaltra vedevo quella faccia triste, forse interpretava i miei sentimenti e i miei vari stati d’animo. In quel grande campo c’erano solo quattro alberi d’olivo molto antichi e quando le olive erano mature vedevo dei contadini che mettevano dei grandi lenzuoli sotto gli alberi e con una lunga canna scuotevano i rami per la raccolta dei frutti. Il resto del campo era libero; a tal uopo un anno veniva adibito alla coltivazione del grano, e il successivo al pascolo delle pecore. Nell’anno in cui era adibito al foraggio vedevo di buon mattino due pastori che con il cappello in testa e la giacca sulle spalle e un sacco in mano uscendo dall’ovile spronavano il gregge a camminare e con un bastone gridavano dei versi caratteristici incitandoli. Le pecorelle tranquille sparse qua e la brucavano nel campo l’erba tenera e rigogliosa, a volte si chiamavano tra loro con dolci e sommessi belati. A questo si aggiungeva il grave suono di un campanaccio che qualche pecora teneva appeso al collo. Così rimanevano tutto il giorno, fin quando giungeva il tramonto. Allora le pecore si avviavano satolle all’ovile pronte per la mungitura. Nel frattempo, in fondo all’ampia distesa, su per la collinetta, in lontananza si vedevano i comignoli della fattoria che cominciavano a fumare per la cena dei contadini. Poi le ombre della sera si infittivano, si cominciava a sentire l’abbaiare di un cane ed un altro rispondeva, a volte seguitavano entrambi simultaneamente per molto tempo. Mentre lassù, nel cielo, cominciavano ad apparire le prime stelle e poi ancora la luna a volte con una faccia tonda tal altra con uno spicchio, illuminando tutto con la sua luce pallida e bianca. Guardando in basso a terra, invece, si intravedeva un balletto di luci, erano le lucciole che emettevano bagliori ad intervalli regolari, rincorrendosi per manifestare chiaramente la loro vita amorosa. Così, passava sempre tutto l’anno, con lo stesso ritmo, quando il campo era adibito al pascolo. L’anno successivo, la scena cambiava e al posto
del gregge vedevo dei contadini con fazzoletti legati alla testa,
altri con cappellacci di paglia che con l’aratro cominciavano ad
aprire il terreno facendo profondi solchi. Andavano da un punto
all’altro del campo come se tessessero una grande tela di cui
l’aratro era la spola. A questi seguivano altri contadini con a
tracolla un sacco ripieno di semi di grano che, a passi lenti e
cadenzati con un ritmo uniforme, come una cerimonia solenne,
buttavano sulla terra un ventaglio di piccole perle dicendo una
formula quasi magica: “il seme a te, il pane a me”. L’ombra li
seguiva per tutta la giornata ora davanti ora dietro fino a quando
il sole non scompariva dietro la montagna e mentre le ombre della
sera cominciavano a scendere lentamente alcuni uccelli volavano
inseguendosi ora da una parte ora dall’altra alzandosi e
abbassandosi gracchiando. Passando i mesi subentrava il freddo e
spuntavano le prime gemme e poi alternando i giorni di pioggia a
quelli di sole i germogli si irrobustivano e crescevano rigogliosi
elevandosi in alto fin quando tutto il campo diventava un gran mare
verde. E le piantine toccate da un dolce venticello s’increspavano
dando la sensazione di vedere le onde del mare. Poi, subentrando la
primavera, lentamente il mare verde cambiava colore e diventava
tutto d’oro con delle belle spighe turgide e dritte piene di
chicchi. Ora qua e là si vedevano dei papaveri come se un pittore in
quel mare d’oro si fosse divertito a dare delle pennellate rosse. In
questo periodo vedevo i contadini che mettevano in mezzo al grano
dei fantocci di stracci imbottiti di paglia issati su dei bastoni
per spaventare ed allontanare gli uccelli granivori.
“Amore amore cosa mi hai fatto fare Il canto mi sembrava sincronizzato al rumore
delle ruote del carro che rotolavano sull’acciottolato della strada
per poi adagio adagio allontanarsi e perdere in una dolce carezza
sonora nella notte. Ricordi …. Ricordi struggenti che mi inseguono con grande e lacerante nostalgia. Mimma Anello
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