Una scena significativa del film di Alessandro Angelini "L‘aria
salata" ci mostra Fabio, giovane uomo da sempre privato dell’amore
paterno, esternare con intensità proferendo le parole "mi sono mancate
le sue mani". Lui invoca le mani, le braccia di quel padre che avrebbero
potuto abbracciarlo, assisterlo nel duro percorso dell’esistenza.
Angelini, senza cadere nella trappola del patetico, attraverso un
soggetto ad alta intensità drammatica che affronta tematiche non
semplici, ci mostra il nascere faticoso di un rapporto padre-figlio, al
di là di una oggettiva impossibilità di risoluzione dei problemi
esistenziali.
Fabio, un giovane sulla trentina, fa l’educatore in un carcere. A lui il
delicato compito di esprimere pareri sulla possibilità di concedere
permessi a detenuti condannati a molti anni di carcere. Il suo lavoro lo
svolge con rigore ma anche con umanità attento alle implicazioni
familiari di chi soffre quelle situazioni. Un giorno gli si presenta
dinanzi il detenuto Sparti, un uomo dal carattere difficile. In galera
da 20 anni per omicidio, deve scontarne ancora 10. L’uomo evidenzia
atteggiamenti volutamente provocatori, eppure la lunga detenzione lo ha
marchiato a fuoco al punto ad essere soggetto a frequenti crisi
epilettiche. Il dramma scoppia allorché Fabio scopre che quel detenuto è
suo padre che non ha più visto da bambino a causa della detenzione.
Eccoli di fronte. Il figlio,ancora offeso dal fatto che il padre
vent’anni prima aveva disconosciuto lui e la sorella maggiore lasciando
ogni incombenza alla moglie, quasi opprime quell’uomo ignaro di tutto,
gli stà addosso, vuole indagare su cosa sia nel profondo. Il padre, non
comprendendo quell’atteggiamento dell’educatore, lo contrasta con
durezza mista a pesante ironia. La sorella di Fabio, informata, vuole
che il fratello si tiri fuori da quella situazione anche perché
terrorizzata da un possibile confronto con il padre. Sparti stressato si
ribella ed a quel punto Fabio gli svela di essere suo figlio. Il
detenuto, pur fingendo indifferenza, sente la colpa della paternità
negata e la sua salute ne risente, l’epilessia si accentua. Il figlio
Fabio ascolta perplesso il padre che gli spiega che la sua scelta di
negata paternità fu originata dalla sua situazione senza via di uscita
eppure non riesce a sottrarsi dal provare un’umana pietà per quell’uomo
sofferente. Fabio opera decisamente per far concedere al padre il
permesso per un giorno di libertà e ci riesce. Ora Sparti, accompagnato
dal figlio. gira frastornato in quel mondo a lui sconosciuto. Il figlio
lo fa visitare e la diagnosi non è positiva, poi lo accompagna a
conoscere di soppiatto la sorella. L’incontro ad alta tensione provoca
nella donna e nel padre una forte tensione senza sbocchi positivi.
Fabio, sempre più avvinto da quel padre, arriva al punto da aiutarlo,
sia pure a malincuore, a compiere un reato. Ora il padre ha sciolto la
sua corazza di indifferenza, confida al figlio lo sconforto per una vita
fallita, di aver ucciso per paura, per non essere ammazzato da quell’altro.
Le 24 ore sono quasi trascorse, il genitore chiede al figlio di essere
portato con l’auto in un posto di mare, vicino a quell’acqua salata che
per lui è simbolo di quella libertà tanto voluta. Giunti in quel luogo,
allontana il figlio con una scusa, si pone alla guida dell’auto ed a
forte velocità pone termine alla sua vita lanciandosi nel mare. I due
figli sono sulla banchina di quel porticciolo, comprendono quanto il
loro padre abbia sofferto. Senza esitazioni Fabio dichiara agli agenti
di polizia che quel suicida è suo padre.
Il film segna un esordio molto confortante del giovane regista
Alessandro Angelini. La direzione è sicura, il ritmo cinematografico,
con il supporto di un montaggio eccellente, è di qualità, gli
avvenimenti della storia si susseguono incalzanti, nonostante molte
scene siano girate nei luoghi carcerari. La sceneggiatura, scritta dal
regista e da Angelo Carboni , è quasi esemplare. Sarebbe stato facile
scivolare tra i canoni delle telenovele ma lo script sorvola con
destrezza e preferisce puntare la sua attenzione sui risvolti
psicologici dei due protagonisti e dei personaggi di contorno (vedasi
la descrizione intensa di alcune figure di detenuti) nonchè su una
ricostruzione attenta, senza fronzoli ,della vita del carcere. Vi sono
alcune incongruenze, alcuni avvenimenti non spiegati ma la storia scorre
senza intoppi. La fotografia è un poco oscura, ma adeguata all’ordito
drammatico.
Volto segnato,un’espressione tra il furbesco e il torvo che si
ammorbidisce nel finale del film, un modo di incedere solido quasi
spavaldo, una voce che dà tono al personaggio del padre. Questo il
profilo dell’interpretazione magnifica di Giorgio Colangeli. Proveniente
dal teatro, ecco un attore da utilizzare senza riserve e che è stato
giustamente premiato per questa interpretazione al Festival del cinema
di Roma del 2006. Giorgio Pasotti è Fabio, personaggio tormentato, forse
fin troppo positivo. Da lodare l’impegno e la resa drammatica. Ha tanta
voglia quest’attore di migliorare, forse la sua maschera deve essere più
variegata per potere rendere al massimo. Adeguati gli altri interpreti.
Un film da vedere con partecipazione,
lo merita
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