Alla
commemorazione dei morti , il due novembre era tradizione nella mia città
natale che questi risorgessero nella notte antecedente per recarsi a
portare regali ai bambini e
rimanere così nei loro ricordi.
Alla vigilia, i genitori raccomandavano ai figli di non mettere la testa
fuori dalle coperte perché in tal caso i morti potevano arrabbiarsi
solleticando i piedi.
Ciascun bambino, prima di coricarsi, metteva sopra la tavola un bicchiere
d’acqua affinché i defunti potessero dissetarsi per riprendersi dalla
stanchezza del viaggio e, al mattino,
se il bicchiere d’acqua era pieno stava a significare che i morti erano
passati ma non avevano ritenuto opportuno ne bere ne lasciare regali.
I defunti, capricciosi e bizzarri, erano soliti nascondere i doni nei
luoghi più strani e reconditi della casa quindi i poveri bambini al
risveglio dovevano affannarsi a cercarli
nei posti più impensati ed erano grida di gioia ad ogni
ritrovamento di giocattoli o di dolci.
Per quel giorno, in tutte le case non si sentivano altro che suoni
assordanti di trombette, tamburini, pifferi, zufoli e pulcinella che
battevano piattini, mentre i carillon suonavano musiche varie e palle e
palline colorate venivano lanciate con gioia, rimbalzando a terra o sulle
pareti.
Per le bambine abbondavano bambole di tutti i tipi: di celluloide, di
gomma parlanti, di stoffa ripiene di crine con la testa di porcellana e
con il loro minuscolo guardaroba e altrettanti piccoli utensili persino le
tazzine “mignon” per il caffè.
La ricorrenza era anche l’occasione per il giovane fidanzato di
fare un dono alla propria amata, se non c’era stata ancora l’occasione
per regalarle l’anello e gli orecchini a pendant.
Questo era il momento più indicato per offrili!
Il pacchetto prezioso veniva presentato contornato di cioccolatini nel
mezzo di un cestino molto fine di vimini o di cotone fatto ad uncinetto e
bagnato con acqua zuccherata e poi stirato col ferro caldo in modo da
renderlo consistente.
Come ringraziamento il donatore riceveva solamente un languido e dolce
sguardo della fidanzata e una calda e furtiva stretta di mano sotto il
severo e vigile sguardo di mamma e papà che, come due carabinieri,
guardavano la coppia di fidanzati.
Sul tardi, nell’intimità familiare, seguivano i commenti e le
valutazioni sul dono che passava da una mano all’altra, fino ad avere un
consenso generale.
Nella confusione, poteva accadere che l’oggetto finisse a terra con
grande grida e precipitazione di tutti per riprenderlo, mentre, la
cameriera con varie scuse, faceva capolino alla porta per sentire e
curiosare … quasi a volere dire anche la sua.
Finalmente, dopo aver ascoltati tutti i commenti, si chiudeva la
discussione con il verdetto: “…Avrebbe potuto fare anche meglio”!
Grande era la mortificazione della innamorata alla quale
poco interessava il valore intrinseco dell’oggetto perché per
lei aveva valore soltanto il pensiero.
Anche qualche marito si sbizzarriva nel fare regali alla moglie; qualcuno
donava una bambola di porcellana vestita di seta trine e merletti e con
tanto di grande cappello e, meraviglia delle meraviglie, con gli occhi che
si aprivano e chiudevano.
Se la bambola si faceva trovare in
mezzo ai cuscini del letto stava ad indicare il desiderio di avere un
altro figlio perché, in altri tempi, era un piacere ed un orgoglio
possedere una famiglia numerosa.
Anche mio padre e mia madre all’avvicinarsi della commemorazione dei
morti si vestivano di tutto punto con gli abiti migliori dicendo che
andavano a parlare con i morti, invitando noi figli comportarci bene, ché
in caso contrario non avremmo avuto nessun dono.
In verità i miei genitori non andavano a parlare con i morti, ma bensì
con i vivi e, precisamente, con le zie monache che in tali ricorrenze
avevano piacere di riempirci di regali.
Per noi bambini, era una gran
festa ricca di giocattoli, cotognate
a pezzi, biscotti di diverso tipo, frutta di martorana ( deliziosi dolcini
di pasta di mandorle), pupazzi di puro zucchero che riproducevano i
paladini di Francia cioè i cavalieri dell’esercito di Carlo Magno.
Tutte queste ghiottonerie che odoravano di cannella e vaniglia, uscivano
dalle cucine del convento, fatte dalle mani operose e meticolose delle
monache cuciniere che già da qualche mese avevano preparato i vari
ingredienti.
Oltre i vari giocattoli e dolci le zie aggiungevano qualche vestitino
cucito con grande amore e pazienza da una di loro che, ricordando i
modelli del suo tempo, riusciva a realizzare creazioni vecchie di mezzo
secolo.
La zia, sarta, era nota per le sue mani d’oro poiché specializzata a
cucire tonache e scapolari e gigli per l’altare. Così i nostri
vestitini venivano cuciti tra un salmo, una giaculatoria e un rosario e
messi insieme al pacco dei giocattoli.
Al momento d’indossarli, però, rimanevamo incerti e sconcertati se
fosse il giorno dei morti o carnevale per le stranezza del modello.
Comunque, andava a finire che nostra madre con qualche ritocco e variante
di pieghe o di orli oppure con una cintura di nastro sistemata in vita con
un grande nodo davanti o dietro, cercava di rimodernare i modelli per
farceli indossare quando si giocava o
, come vestagliette per casa.
Nel pomeriggio della festa dei morti
era usanza vestirsi a nuovo ed andare al cimitero a trovare i cari che
riposavano nelle loro tombe per pregare e per ringraziarli
dei regali ricevuti.
Prima di varcare il cancello del cimitero si compravano dei grandi mazzi
di fiori, che venivano
affidati a noi bambini e che,
noi , ci premuravamo di tenere ben stretti
al petto, ma coi loro lunghi gambi, i fiori c’impedivano la vista e
dovevamo camminare alla cieca sbattendo contro chi ci stava davanti.
Dopo i rimbrotti di chi era stato urtato seguivano,
a stretto giro, dei grandi scapaccioni da parte di nostro padre che
ci sgridava esortandoci a stare più attenti e non andare addosso ai
passanti.
Finalmente arrivati alle tombe degli zii e nonne, non senza qualche
titubanza per l’esatta ubicazione delle stesse, venivano sistemati i
fiori nei vasi e, dopo una brevissima preghiera, si prendeva la via del
ritorno, tutti molto stanchi: i grandi esausti per essere stati vicini a noi nella grande folla e noi per
aver portati i fiori.
Nel riprendere la via di casa si faceva un giro più lungo per
vedere la fiera dei morti.
Si passava per le strade piene di bancarelle colme di tutti i tipi di
giocattoli e dolciumi e se un bambino, non avendo ricevuto il regalo
preferito o mancante di quello che i defunti avevano dimenticato ( cosa
che poteva accadere perché i morti di
solito sono anziani e quindi
di poca memoria) si poteva assistere ad un vero e proprio spettacolo.
Infatti, il bambino i questione, incurante di essere in mezzo alla
strada cominciava a gridare pestando i piedi e facendo un gran putiferio,
sotto lo sguardo incuriosito dei passanti, si lamentava a gran voce che
pur essendo stato buono dentro e fuori casa e avere avuto ottimi voti a
scuola, non era stato accontentato e minacciando grandi rappresaglie
diceva che sarebbe diventato cattivo e non avrebbe più studiato.
Al genitore in questo caso non rimaneva altra alternativa che
accontentarlo per sopperire alla manchevolezza dei morti altrimenti
il ritorno a casa darebbe diventata una
terribile via crucis con il figlio riottoso che, puntando i piedi
non voleva più camminare facendo una specie di tira e molla con il
braccio del padre.
Così terminava la giornata dedicata ai morti,
in letizia per chi era stato soddisfatto e, con amarezza, per chi
era rimasto deluso.
In capo a qualche settimana nel
ripulire la casa i giocattoli, quasi tutti distrutti
e resi inservibili, sarebbero finiti nella pattumiera insieme agli
altri rottami e alle cose
inutili.
Dal canto loro i bambini stavano già desiderando i nuovi futuri
regali più costosi e complicati e, per essere più precisi, alcuni
iniziavano a scrivere biglietti e letterine per non andare incontro a
varie confusioni, disguidi e
dimenticanze per la futura festa dei morti. |