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Fine di un epoca
Quando ero bambina per ascoltare un po’ di musica si ricorreva al grammofono, ma nelle famiglie della buona borghesia era usanza tenere uno strumento musicale in salotto in particolare un pianoforte, e di conseguenza, farlo studiare ai figli nolenti o volenti. I miei genitori per gli studi mi mandarono a tempo pieno al Collegio “Santa Candida”, e vollero che studiassi, tra le altre materie, anche il piano. Come maestra mi fu assegnata Suor Euristea; ricordo la prima volta che mi portò nella sua stanzetta dove troneggiava il pianoforte e mi spiegò come mettere le mani sulla tastiera. Da principio mi sembrava tutto molto difficile, ma poi dopo molti esercizi mi abituai e cominciai a eseguire le prime suonatine: “Bionda Sirena”, “Piccolo Montanaro” e “L’Ave Maria di Gounoud”. Suor Euristea oltre ad essere la mia maestra di musica, diventò la mia confidente. Era lei che mi confortava quando prendevo qualche cattivo voto, ma nello stesso tempo mi stimolava a impegnarmi di più e fare meglio. Il tempo scorreva e si cominciò a parlare di radio, come una grandissima novità, noi ragazze non facevamo che commentare quest’ultima meraviglia, che girando una semplice manopola come una bacchetta magica lasciava ascoltare musica classica, canzonette e i vari avvenimenti riguardanti il mondo. Pensammo di andare dalla direttrice per avere il permesso di comprare una radio, per ascoltarla nell’ora di ricreazione; cominciammo a raccogliere i soldi, eravamo felici, il pacco stava arrivando! Ma dopo qualche giorno fu proprio la Superiora a convocarci nella sala delle riunioni informandoci che la radio era sul tavolo, ma lei era perplessa perché non ne riteneva opportuno e serio l’ascolto e , di conseguenza, il pacco fu rimandato indietro. La direttrice per indorare la pillola, per noi molto amara, ci promise altri svaghi fra cui quello di studiare recitazione. Per quell’occasione Suor Euristea cominciò ad insegnarmi una suonatina a quattro mani. La suonatina era intitolata “Fuggiamo” e quando fu il momento di esibirmi avrei voluto veramente fuggire, perché, presa da emozione fermai le mani sulla tastiera, senza andare più avanti. Invano la mia compagna mi diceva: “Continua non ti fermare”, mentre dall’altra parte Suor Euristeva con una lunga bacchetta m’indicava la nota, io non capivo più niente che, al posto delle note , i miei occhi vedevano tante piccole mosche che ballavano e la sonata a quattro mani finì a due mani. L’anno successivo le suore,memori della mia figuraccia,pensarono di farmi cantare, dovevo fare da giudice tra un gruppo di bambine di cui una vestita da piccola italiana. Quando toccò a me cantar per dare il giudizio sulla piccola italiana, l’emozione mi bloccò e dalla mia bocca non uscì alcun suono. Dietro le quinte la suora che ci aveva preparato falsando la sua voce terminò la mia esibizione. Altre sonate e canti solevo ascoltare quando quasi tutte le domeniche io e la mia famiglia andavamo a trovare le cugine di papà. Nel loro grande salone non mancava il pianoforte e tra un pasticcino,un the e biscotti si ascoltava della buona musica, eseguita dal maestro Geremia. Questo aveva perduto un occhio durante la guerra del ’15-’18 cosa che non si notava, perché lo aveva sostituito con uno di vetro. Una figura buffa che non mancava mai ai the della domenica era la signorina Giacomina, una donna di mezz’età con una grande crocchia di capelli posti alla sommità del capo a modo di corona. Si presentava sempre con vestiti antiquati con colletti e polsini di pizzo e merletti inamidati. La signorina Giacomina veniva sempre accompagnata da un nipote irruente e sbruffone che si vantava di avere una bella voce e di conseguenza appena arrivava dopo vari vocalizzi, cominciava a cantare qualche pezzo del “Paese dei Campanelli” o della “Vedova Allegra”, ma il suo cavallo di battaglia restava l’aria di “Rigoletto” . Quando intonava “ Si vendetta , tremenda vendetta”,si esibiva a squarciagola con gesti ampollosi volendo imitare i grandi cantanti lirici …tanto, che noi ragazzi, lo avevamo soprannominato: “Vendetta”. Purtroppo,sopraggiunsero i giorni tristi. Ovunque si parlava di una guerra prossima e quindi dovevamo prepararci ad affrontare grandi sacrifici e disagi. Ricordo quel pomeriggio che ero in collegio quando di corsa venne una suora trafelata, con il velo di traverso con le braccia in aria, portando la grave notizia che era scoppiata la guerra. Subito ci riunirono mettendoci in ginocchio a recitare la litania dei santi per scongiurare non so che cosa, perché ormai eravamo in guerra e di conseguenza nei guai. Ben presto iniziarono pure i razionamenti dei generi alimentari e i bombardamenti che da principio furono piuttosto radi, seppure quando suonava la sirena dell’allarme dovunque eravamo si doveva correre ai rifugi. Quando ero in collegio, al primo ululato della sirena d’allarme, tutti scendevamo di corsa nello scantinato: le suore recitavano il Rosario ai santi più miracolosi per allontanare il pericolo di qualche bomba sulle nostre teste, alcune mie compagne incoscienti,invece, con i libri in mano, continuavamo a studiare. A volte si trattava di un falso allarme, perché non si sentiva alcun rumore,ma il più delle volte sentivamo la contraerea in azione per fare da sbarramento agli aerei nemici che ugualmente riuscivano a passare e bombardare la città. All’uscita dei rifugi si vedevano palazzi a terra con gran polvere e calcinacci, dappertutto ambulanze che sfrecciavano per portare via i feriti. Un ricordo particolare fu che uscendo, un giorno, vidi un palazzo ridotto a un cumulo di rovine mentre un uomo gridava: “Là sotto sono mia moglie e i miei figli”. In seguito i bombardamenti diventarono sempre più frequenti fino ad arrivare al clou della situazione e, le scuole dopo il primo trimestre chiusero, mentre quasi tutti sfollarono lasciando la città. Anche la mia famiglia cominciò a prendere in considerazione di andare via, ma prima di allontanarci vollero dare un ultimo the. C’eravamo tutti il maestro Geremia e signorina Giacomina, il nipote cantò a gran voce “vendetta” con più enfasi del solito, forse per la particolare circostanza, i saluti furono dolorosi, perché chissà se ci saremmo rivisti? Lasciai la città, con tutta la mia famiglia, trovammo rifugio nella stanza più alta della torre campanaria di un convento. Ricordo sempre quelle strette scale quando scendevamo, ma ancora più terribile quando le dovevamo salire, mi sembrava che non finissero mai, comunque quella camera ci salvò da tanti bombardamenti. Dalla stanza della torre guardavamo i campi coltivati a grano, per noi significava pasta e pane, quello di cui andavamo sempre in cerca in quanto eravamo sempre affamati perché quello che passava il razionamento era molto esiguo e di brutta qualità. Mi ricordo che una volta in mezzo al pane ci trovammo una poltiglia di semi di lino, un’altra volta delle patate. Dopo un po’ ricominciai a studiare, me ne diedero l’opportunità le suore, quando mi chiamarono a suonare l’organo in chiesa, durante i momenti più salienti della messa, in cambio mi offrirono di potermi unire alle ragazze orfane del collegio che studiavano latino ed italiano con il parroco che diceva messa la mattina. Acconsentii subito anche se saltavo qualche nota che con prontezza riprendevo. Ricordo che era un organo antico, di quelli che dalla parte opposta alla tastiera avevano un mantice, che se non si alzava ed abbassava non avrebbe emesso alcun suono. Il mantice era manovrato da una suora sincronizzata con me quando dalla parte opposta io le davo il via. Così andai avanti per tutto il periodo che rimasi in quel convento, poi ci fu una specie di armistizio e la guerra si trasferì al nord. Ritornammo in città e dovunque era desolazione, un terzo delle case esistenti non c’era più, i palazzi di un certo valore storico erano finiti a terra. Il collegio dove andavo a studiare prima della guerra era stato in parte distrutto. Proprio tutto era cambiato, guardavo e osservavo: la gente non sembrava più la stessa, non riconoscevo più niente, anche il modo di pensare era diverso. La guerra decisamente aveva cambiato tutto, non trovavo più quei valori di riferimento in cui ero cresciuta ed educata. Vi era grande difficoltà per trovare i generi alimentari, in verità si poteva rintracciare qualcosa, ma alla borsa nera, ossia di contrabbando. Spesso vedevo in certi vicoli sporchi, persone che da sacchi di tela prendevano pane portato dalle campagne, che mettevano sulle sedie per venderlo. Comunque a quell’epoca non si andava tanto per il sottile e già era un miracolo avere i soldi per comprarlo. Un giorno cercando di sapere qualcosa sulle suore di un tempo, ne trovai alcune che si erano rifugiate in un altro convento, e li riconobbi quella suora che m’ insegnava matematica. La rividi con molto piacere, anche lei fu contenta di vedermi e mi chiese che propositi avessi, risposi che avevo intenzione di continuare a studiare. Si offrì subito di darmi lezione tre volte la settimana. Tra i tanti argomenti si parlava della difficoltà di trovare da mangiare e la stessa suora mi disse che , fortunatamente, il collegio era stata sovvenzionato dagli Americani attraverso l’UNRRA (Organizzazione Internazionale per il soccorso economico) per potervi allestire una Mensa per i poveri. Di solito davano una minestra, una scatola di carne con patate o con fagioli oppure carne di maiale. Distribuivano anche latte e rosso d’uovo in polvere, che battuto con un po’ d’acqua realizzava una frittata. Tutto questo costituì nutrimento fondamentale per tutta la mia famiglia. L’abbigliamento invece fu un grande problema, qualche vecchio vestito fu rivoltato e rifatto. Una cappa di velluto e un grande scialle della nonna furono adattati e modellati a vestiti, qualche coperta leggerissima di lana diventò cappotto. In quel periodo prendendo la lana dai materassi, con un fuso di legno imparai a filare gomitoli e a tingerli in molti colori, creandoci poi dei golfini , che purtroppo, risultavano molto rigidi e ruvidi, ma non c’era niente da fare, dovemmo adattarci anche a questo per il freddo. In estate, invece,adoperammo le lenzuola di tela di lino del corredo di mamma per realizzare freschi scamiciati. Il sapone veniva fatto cucinando dentro una caldaia grassi animali ed altri ingredienti. La mamma poi con un lungo bastone rimestava continuamente quell’intruglio finché diventava omogeneo e condensato, infine si faceva raffreddare e tagliare a pezzi. Mi sembrava di vivere in una di quelle favole che si raccontano ai bambini per farli stare buoni. Cucinavamo accendendo la segatura,a tal uopo papà costruì un fornello particolare da un grande bidone di latta pesante, perché non c’era più gas ne altri combustibili. La sera,a volte,si stava con un piccolo straccetto acceso che pescava in un po’ d’olio ricavato da grassi animali non ulteriormente utilizzabili. Per le calze non ci fu niente da fare e dovemmo farne a meno, anche se le gambe si arrossavano a tal punto che la pelle diventava squamosa per il gran freddo. Per le scarpe ci adattammo con quelle di legno. Un giorno mio padre si presentò con un pezzo di vilpelle proveniente da un sedile d’una vecchia auto e mi disse: “Ci si possono fare delle tomaie, quindi puoi realizzare un paio di scarpe”. Lo guardai perplessa; avevo studiato piano, italiano, matematica, francese ed altre materie varie, ma non sapevo come si facessero le scarpe. Con garbo glielo feci osservare, ma lui continuò: “Ti ho mandato a scuola…quindi devi sapere fare tutto!” Non risposi perché era un grande giocherellone e forse diceva così per rompere con una battuta spiritosa quell’atmosfera pesante di amare vicissitudini. Comunque con grande tenacia continuai a studiare e contemporaneamente cercai di guadagnare qualche soldo. Mi offrirono di fare il doposcuola a dei bambini, con una remunerazione molto irrisoria, ma lo feci ugualmente per un po’ d’anni, sicura che quel lavoro fosse transitorio; rammento che vicino la scuola c’era un fruttivendolo che vendeva carrube così alla fine delle lezioni ne compravo un po’ per completare il mio magro pranzo, erano coriacee ma dolci e riempivano lo stomaco. Lentamente la gente cominciò a far ritorno in città, ma molti non tornarono più, il maestro Geremia era deceduto dissanguato durante un bombardamento, la signorina Giacomina, morta di polmonite, del nipote si erano perdute le tracce, i cugini di papà ormai vecchi preferirono rimanere in una casa di riposo per anziani. Un giorno per strada incontrai una professoressa di lettere che avevo conosciuto in un rifugio, durante uno dei tanti allarmi aerei e fu proprio quella volta che ce la vedemmo veramente brutta poiché le bombe cadevano così vicine da far tremare il palazzo in maniera preoccupante :d’un tratto sentimmo una grande esplosione, andò via la luce e la terra cadde su di noi, cominciammo a gridare ed io che le ero seduta vicino l’abbracciai convulsamente. Rivederla mi fece capire quale bene prezioso fosse la vita e quale fortuna spesso accomuna le persone: si informò cosa facessi, stavo ancora studiando e mi bisognava una professoressa di lettere: subito mi dette la sua disponibilità disinteressata. Dopo un anno questa si trasferì altrove, lasciandomi il suo ricordo meraviglioso. Per le materie scientifiche trovai un professore anziano di chiara ed illustre fama, un grande studioso che aveva scritto molti libri per le scuole superiori e l’università. Mi fu vicino, mi aiutò sollecitandomi a concludere bene i miei studi dicendomi: “Ricordati bisogna sapere un po’ di tutto, anche se si è specializzati in particolare in una disciplina”. Ho fatto tesoro dei suoi consigli per migliorare sempre di più la mia cultura. Dopo qualche anno conclusi i miei studi e mi resi conto di quanto la società fosse cambiata e io non mi ci ritrovavo più. O forse ero cambiata io? Per questo decisi di partire per scoprire, se quello che avevo studiato mi avrebbe veramente realizzata. Fu allora che per caso incontrai una mia compagna di studi che mi disse di aver ricevuto una proposta d’insegnamento in una città del nord, ma non intendeva accettarla perché stava per sposarsi. Decisi subito! Col consenso della mia famiglia scrissi al Preside della scuola di subentrare alla collega e fortunatamente fui accettata. Cominciai a salutare amici e parenti. Per ultimo il mio vecchio professore che si compiacque della mia decisione, accomiatandosi da me mi regalò l’ultima perla di saggezza: ricordati: “Volere e potere”! Prima di varcare la sua porta, mi voltai per un ultimo sguardo…sentivo che non lo avrei rivisto più. Nel fare la valigia misi più libri che indumenti perché di questi ero sicura di averne un bisogno maggiore. La mamma,comunque,non mancò di munirmi di tre matasse di lana dicendomi: ”Con queste ti puoi fare un maglioncino per proteggerti dal freddo che troverai al nord”. L’indomani con la pesante valigia andai alla stazione accompagnata da mio padre che, prima di abbracciarmi si levò il suo orologio dal polso e disse : ”E’ vecchio, ma preciso, tienilo che ti servirà per essere puntuale nel tuo lavoro”. Ci abbracciammo, salii sul treno cosciente che non sarei più tornata. Mimma Anello
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