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Ricordi
Squilla il telefono
La tempesta

 di Mimma Anello

 La Nonna

Nonna Marianna era una donna alta longilinea con un viso ovale bellissimo con poche rughe, incorniciato da una massa enorme di capelli  bianchi sempre coperti da una civettuola cuffietta di merletto nero.

Indossava vestiti lunghi molto accollati di colore scuro o viola, ornati al petto con voilà, pizzi e trine. Portava al collo una collana lunga d’oro con un occhialetto dal manico di tartaruga e camminava appoggiandosi ad un bastone di ebano dall’impugnatura argentata. Purtroppo era affetta da un tremolio continuo che le faceva abbassare la testa in un perenne cenno di assenso come se dicesse sempre si a tutte le cose, essendo lucida e presente.

Quando il tempo era buono si sedeva sovente in una poltroncina nella veranda della sua villa circondata da un grande rampicante di gelsomino che profumava tutta l’aria.

Davanti la veranda si stendeva un grande giardino con vialetti che si incrociavano, tutti convergenti al centro dove si trovava una vasca con dei pesciolini rossi.

In quel giardino realizzavamo tutto un mondo di giochi che io assieme ai cuginetti riuscivamo ad inventare.

A volte giocavamo con la palla o spingevamo un cerchio con un bastoncino oppure ci lasciavamo cullare dal dondolio dell’altalena che finiva per diventare una gara a chi aveva il coraggio di andare più su. Altre volte ancora ci nascondevamo dietro i grandi vasi ornamentali o alle siepi odorose di mirto o agli alberi di oleandro per sorprendere e spaventarci a vicenda.

Mi viene in mente un episodio buffo: un giorno mentre eravamo attorno alla vasca giocando con mia cugina Leda, questa per provocarci si sedette sull’orlo della vasca facendo boccacce ma improvvisamente perdette l’equilibrio e cadde nell’acqua noi subito accorremmo e l’aiutammo ad uscire.

 Leda venne fuori gridando che il cuore gli stava scappando per la grande paura. In verità dentro il vestito qualcosa le si muoveva, infatti levandosi i panni gli scappò dal petto un pesciolino che si contorceva per la mancanza d’acqua.

 La nonna da lontano si era alzata per vedere meglio la scena e abbassando la testa assentendo diceva si…si..si ai nostri giochi.

Chinando il capo tremolante  diceva si ..anche ai suoi ricordi passati, che cullavano la sua memoria. Le veniva in mente l’immagine di lei giovanissima a quindici anni vestita di seta e di merletto bianco che andava in chiesa accompagnata dai genitori mentre lo sposo l’attendeva davanti all’altare e poi il pranzo di nozze e la musica che seguì accompagnando tutta la festa.

Ricordava la nascita del primo figlio e la gioia del nonno perché era nato il primogenito,quello che avrebbe continuato la sua discendenza.

 Poi vennero altri figli e figlie e ogni nascita era accompagnata da grandi festeggiamenti, il nonno felice della sua numerosa famiglia diceva sempre: “sono grazia di Dio, siano i benvenuti ! Il Signore vuole onorare la mia casa."

E così i figli furono dodici.

La nonna ricordava il tempo in cui i figlioli crescevano; i più grandi andavano a scuola e i più piccoli erano accuditi dalla tata. La sera finalmente all’ora di cena si riunivano tutti: allora era un vero piacere guardare la tavola imbandita attorniata dalla numerosa figliolanza così ciarliera per le esperienze quotidiane che raccontavano tra un boccone e l’altro.

 Alla fine della cena i più grandi aiutavano a rassettare le stoviglie della cucina dopodiché si passava nel soggiorno dove il nonno iniziava la recita del Santo Rosario a questo seguivano molte Ave Maria per grazie ricevute o da ricevere.

In particolare ai santi protettori della famiglia.

Ricordava sempre una battuta poco felice del figlio più grande che un giorno,

durante la recita del Rosario,consigliò di aggiungere un’altra Ave Maria, perché quella mattina doveva essere interrogato in matematica.

Ma essendosi raccomandato al Signore aveva ricevuto la grazia di non essere chiamato a rispondere.

Quella volta il nonno molto duramente rimproverò il figlio perché queste non erano grazie da chiedere; dopodiché fu castigato e mandato a letto senza benedizione.

Finite le preghiere serali i figli si mettevano in fila per dare la buonanotte ai genitori: il rito consisteva nel baciare la mano e chiedere la santa benedizione per una buona notte;seguiva l’imposizione del segno della croce sulla fronte da parte del padre e della madre così terminava la giornata.

Purtroppo dovette dire si anche ai ricordi dolorosi, alle sventure quando prematuramente morì il nonno lasciandola vedova a soli trent’anni; allora con l’animo straziato e con molta fatica prese in mano anche l’azienda del marito e portò avanti finanziariamente la famiglia con grande oculatezza e saggia amministrazione.

Durante un’epidemia di colera si ammalarono tre figli non ancora decenni e sebbene circondati da cure ed affetto la malattia ebbe il sopravvento portandosene via due.

La terza fu risparmiata forse perché si era rifiutata di prendere le medicine, a suo dire. In seguito dovette dire si ai due figli più grandi che vollero trasferirsi in America.  Ella avrebbe preferito che il secondogenito accettasse una chiamata di Dio, infatti già lo aveva messo in seminario, ma questo non aveva nessuna vocazione religiosa e,anzi,fuggì dal seminario e lasciò perfino la sua terra raggiungendo il fratello maggiore. 

In compenso fu consolata dalle figlie perché due di loro si fecero suore con suo sommo gradimento tanto che,ricordava ripetutamente abbassando il capo,quando dopo il noviziato furono accolte nell’ordine monastico con delle fastose cerimonie accompagnate da regali e congratulazioni.

Le vocazioni femminili,comunque,si dimostrarono più abbondanti del previsto infatti dopo un’ pò di tempo un’altra figlia presa da fede e grazia divina manifestò il desiderio di seguire anche lei le sorelle monache; stavolta la nonna aveva deciso altrimenti in quanto si era presentato un giovane, ottimo partito sotto tutti i punti di vista. Ma la figlia non volle sentire ragioni, e andando ogni giorno a messa con l’aiuto del padre spirituale andò via di casa ritirandosi in un convento di clausura di un paese vicino.

Convento che dopo qualche anno chiuse per mancanza di fondi di sostentamento. Allora ritornò a casa e manifestò di nuovo alla nonna di entrare in collegio dove erano le altre due sorelle. La nonna dovette chinare il capo e ancora una volta dire di…si.    

Gli altri figli in seguito si sposarono tutti, rendendola nonna parecchie volte.

E lei,  fu il fulcro della nostra famiglia.

Il punto di riferimento per tutti noi, anche anziana,era lei ad incoraggiare indicando le strade che bisognava seguire con i suoi saggi consigli.

Fu una stella che guidò i passi dei figli influenzando persino la vita dei suoi discendenti, le sue azioni ci indicarono sempre di non arrenderci mai nelle avversità e di lottare ed andare sempre avanti nella vita a costo di qualsiasi sacrificio.

Un giorno d’autunno mentre era seduta nella veranda e le foglie degli alberi cominciarono a ingiallire e cadere le si presentò la morte e lei tentennando la testa disse si…e reclinò il capo sul petto.

La trovammo col  dorso delle mani posate sulle ginocchia come a raccogliere gli ultimi odorosi gelsomini che un dolce venticello aveva posato sul suo grembo.

Fuori il sole tramontava tingendo il cielo di un violaceo cupo rosso e , poco a poco, le prime ombre della sera scesero dolcemente... subentrò la notte e tutto fu buio attorno a noi.  Sovente nelle notti solitarie ed insonni ricordo i versi della lirica struggente e nostalgica di Carducci: 

“O nonna o nonna dè com’era bella

………..ditemela ancora la novella

…………………………………..

di lei che cerca il suo perduto amor

 

sette paia di scarpe ho consumato

di tutto ferro per te ritrovare,

sette verghe di ferro ho logorate

per appoggiarmi nel fatal andare,

 

…………………………………..

…………………………………...

tu dormi a le mie grida disperate

il gallo canta e tu non ti vuoi svegliare”

 

 

 

RICORDI

Avevo diciotto anni quando, con il suo raggio fatato, l'amore mi aprì gli occhi e, per la prima volta, sfiorò la mia anima con le sue dita di fuoco.
Ero in casa di zia Mirta nel salotto dove riceveva, ogni giovedì, amici e parenti  per il consueto thè e, al pianoforte, il Maestro Geremia sempre suonava.
Quel giorno c'era anche un nuovo ospite che si esibì nel cantare il "Sacro canto indù" di Rimski Korsakov e la sua voce fece subito breccia nel mio cuore.
M'informai con la zia per sapere qualcosa di quel giovane e seppi che si chiamava Lucio S. e che studiava canto. Rivelai a zia Mirta che quella persona non mi era indifferente e si offrì di aiutarmi ad incontrarlo. Studiavo pianoforte anch'io e questo poteva essere un buon motivo per aver argomenti in comune.
Durante i the successivi, cercavo di farmi notare da Lucio e, la zia complice, si adoperava a metterci  sempre vicini agevolando tra noi un fitto scambio d'idee in particolare sulla musica.
Iniziai lo studio di brani d'opera tra i più noti così da poter accompagnare al piano Lucio quando cantava.
Finalmente, grazie alla mediazione diplomatica della zia, ci fidanzammo.
Nel frattempo Lucio, terminati gli studi, stava partecipando a qualche Concorso e, per mezzo di un cugino residente in America, riuscì  ad avere una scrittura oltreoceano.
Partì con la promessa do scrivermi ogni giorno e che sarebbe presto ritornato in Patria.
Purtroppo, dopo il primo anno, le lettere cominciarono a diradarsi e poi...non scrisse più.
Un giorno, proprio zia Mirta, ebbe la comunicazione che Lucio si era sposato con una americana.
Io ne rimasi distrutta. I miei sogni si erano infranti.
Superai l'amarezza dell'abbandono, incontrai altri uomini, ma non mi volli più legare ad alcuno e dopo alquanti anni, un giorno squillò il telefono...alzai la cornetta e una calda voce che conoscevo mi disse: " Sono Lucio S. avevo nostalgia  della mia città e sono tornato per sempre anche perché sono rimasto vedovo e solo".
Quella intensa voce, per un attimo  mi fece rivivere tempi lontani  mentre lui continuò a dire: "Vogliamo vederci?"  Con slancio dissi subito "Si" e lo invitai a prendere un the l'indomani.
Durante la notte, però, cominciai a pensare a come sarebbe stato l'incontro a distanza di anni.
Mi guardai allo specchio e vidi il mio viso pieno di rughe, contornato da capelli grigi...purtroppo, troppi anni erano passati e della mia giovinezza e della mia bella chioma nulla restava più.
Conclusi che fosse meglio non rivederci! Molto meglio che lui mi ricordasse come mi aveva       lasciata ed io preferii rimanere sola coi miei ricordi.
Il giorno seguente ciondolai per la casa facendo cose inutili, convincendo  me stessa che fossero importanti e improrogabili, fino a che giunse l'ora dell'appuntamento che avevo dato.
Il campanello suonò timidamente, ma io non mi mossi, fermamente decisa a non aprire.
Poco dopo un secondo squillo, più deciso e più insistente, mi fece sobbalzare  e dovetti farmi forza per non aprire, ma non cedetti alla tentazione.
Mi avvicinai alla finestra, quando capii che stava scendendo le scale e mi avvicinai alla finestra.
Si, ecco, era in strada e si avviava curvo appoggiandosi a un bastone, forse sotto il peso dei ricordi e, chissà... forse con un po' di rimorso...
Rimasi così dietro le tendine finché non sparì dalla mia vista, mentre cocenti lacrime scendevano sul mio viso. Non so per quanto tempo rimasi così.
Mi riscosse il riscosse il suono delle campane del vicino Convento dei Cappuccini, era l'ora dell'Ave Maria!
Mi allontanai dalla finestra e mi sedetti alla mia solita poltrona ove mi assopii.
Sognai di trovarmi in chiesa  e Lucio era lì davanti all'altare, preso da un sacro sentimento religioso intonava l'Ave Maria di Schubert: " Ave Maria- vergin del ciel- la prece mia ascolta- pertanto ti chiedo mercé- si, ti chiedo mercé- Ave Marì...


 


SQUILLA IL TELEFONO

Sono a letto.. Ho l'influenza e mi sento accaldata e insofferente.
Questo malessere mi costringe a stare al chiuso, in casa, per non peggiorare né complicare la situazione, già abbastanza precaria.
Non ho nessuno con cui scambiare due paroline né per farmi comprare medicine o qualcosa da mangiare. Pazienza! Mi arrangerò con quel poco che c'è in casa... poca roba: latte e fette biscottate.
Delle pochissime amiche, alcune sono in villeggiatura, altre hanno improrogabili impegni, le rimanenti si sono, opportunamente, eclissate.
Osservando tutto questo mi chiudo a riccio in me stessa e preferisco non farmi sentire da nessuno.
Ad un tratto i miei tristi pensieri vengono interrotti da uno squillo di telefono che ho poggiato sul comodino.
Prendo la cornetta e dico: Pronto!... Una virile e calda voce giovanile mi risponde dall'altro capo: "Sono Fabrizio!" Io non dico nulla perché ho ancora il cervello annebbiato dall'amarezza dei miei pensieri e poi, aspettavo la telefonata della mia commercialista.
La voce, intanto, continua: "Devo dirti una cosa molto importante... sono innamoratissimo di te!"
A questo punto, finalmente, entra vivamente in funzione il mio cervello e focalizzo la situazione incresciosa e imbarazzante che si è venuta a creare e rispondo: - Ma lei ha sbagliato numero telefonico ? - Ora la voce calda del giovane è piuttosto trepidante e impacciata: " Ma... non sei Giovanna?"  No, non sono Giovanna e riattacco il microfono.
Quella voce intensa e calda, con una intonazione gradevolissima, mi fa galoppare la fantasia e mi fa rivivere tempi lontani quando, liceale, alla fine delle lezioni il fidanzatino mi aspettava nel piazzale fuori la scuola tenendosi lontano e trepidante mentre con lo sguardo mi dichiarava il suo amore e, più raramente, con la testa e gli occhi accennava che aveva messo un bigliettino in mezzo alle palme nane dello spiazzo...
Ai miei tempi, tali mezzi, erano molto praticati e pericolosi perché erano guai seri se la missiva andava a finire nelle mani di professori o di familiari... Rimproveri e castighi molto forti ne sarebbero derivati, e, non facilmente da dimenticare.
Cercai di fugare, mettendoli da parte, i miei ricordi, ma istintivamente, quella voce suadente e nitida ritornava nelle mie orecchie! Una voce ardente e giovanile che, delusa e accorata mi chiedeva:: "Ma non sei Giovanna?" No, non sono Giovanna... io sono Vilma!
Mentre rimugino tutto questo mi viene in mente Romeo quando dice alla sua Giulietta: " Ma che cos'è un nome?" Romeo invita la sua diletta a rinunciare al suo nome per rendere il loro amore più accessibile e facile e, incalza: ".....Tanto, la vera essenza di te, il tuo essere, la tua giovinezza, la tua bellezza, la tua allegria, il tuo brio non muta, se cambia il nome!"
Purtroppo, io, non posso cambiar nome perché ormai molti decenni e lustri e, molteplici primavere, sono passate dalla mia verde giovinezza e di questa, ahimè, non ne rimane nulla.
Ora, permane solo un tramonto grigio di triste solitudine pieno di ricordi più amari che dolci.
Rimembranze del tempo passato e di quello perduto dietro vane speranze e disperati desideri.
Resto sola coi miei sogni di ciò che poteva essere e non è stato...né lo sarà mai più.


 

 

LA TEMPESTA

Era una notte terribile, un violento temporale si stava abbattendo sulla città e si udiva lo scrosciare della pioggia che martellava incessantemente sui tetti e il vento che s'insinuava tra le fessure delle imposte.
Anche i vetri tremavano sotto l'infuriare della tempesta. Ad un tratto, un tuono più forte, fece tremare la casa dalle fondamenta e, contemporaneamente la luce elettrica si spense e Giuseppa restò al buio. Brancolando raggiunse la mensola dove si trovava il candeliere, lo prese e, a tentoni, trovò pure i fiammiferi.
Una fiamma tremolante rischiarò l'ambiente proiettando sui muri le ombre dei mobili e la donna, con in mano il candeliere raggiunse la scrivania e si sedette.
Al fioco e tremolante chiarore, cercò di continuare a correggere i compiti d'italiano dei suoi alunni, ma non vi riuscì ; era stanca e gli occhi le si chiudevano giacché anche la fievole luce le conciliava il sonno. Decise quindi di andare a dormire poiché l'indomani doveva alzarsi prestissimo per poter prendere il primo autobus che, lungo un tragitto di due ore e mezza, l'avrebbe portata a Miracelli, il paese dove insegnava.
Alle prime ore del mattino Giuseppa si alzò e aprì le imposte con la speranza di trovare un tempo migliore, ma pioveva sempre a dirotto e la giornata non prometteva nulla di buono; si fece coraggio perché doveva andare.
Si coprì bene ed uscì di casa, cercando di camminare rasente ai muri per ripararsi un poco dalla pioggia e, specialmente, dal vento che era sempre più insistente e che, ad ogni nuova raffica, sembrava volergli strappare l'ombrello dalle mani.
Ma lei, forte e tenace, continuò il suo cammino, stringendosi forte al petto lo striminzito cappottino.
Arrivò al capolinea dell'auto infreddolita e un po' bagnata, salì sul mezzo dove c'erano già altri compagni di viaggio anch'essi pendolari che ogni giorno facevano la spola tra la città e i paesi dove lavoravano.
Cominciarono gli usuali saluti coi conoscenti e, a stretto giro, seguirono i commenti sul cattivo tempo che aveva imperversato per tutta la notte.
L'amica Rosa disse che proprio sulla sua strada la furia del tempo aveva divelto un albero e, fortunatamente, in quel momento non vi erano passanti.
La Maria Teresa, raccontò l'allagamento di un'altra via che aveva richiesto l'intervento dei pompieri a causa delle fogne intasate; un' altra donna, quasi togliendole la parola di bocca intervenne dicendo di essere stata costretta al viaggio per andare a trovare sua madre che era stata ricoverata in ospedale col femore rotto a causa di una brutta scivolata sul bagnato.

 Era dovuta partire così in fretta da dover lasciare la sua bambina a letto sola e con la febbre con la speranza che la vicina di casa, alla quale aveva lasciate le chiavi, se ne prendesse cura.
Un poco discosti, due giovani studenti dell'Istituto Tecnico Agrario di Fileto, si stavano confrontando i compiti ed uno dei due, costernato si accorse di aver sbagliato completamente l'elaborato di matematica.
Dopo aver manifestato il suo disappunto perchè, per lui, era proprio il giorno dell'interrogazione mensile, decise di copiare precipitosamente, col quaderno sulle ginocchia, il compito del compagno.
Intanto era salito frettolosamente sull'autocorriera il Professore di matematica Giurlanda tutto trasandato il cui volto bianco e disfatto, era incorniciato da una rada barbetta sale e pepe che gli finiva a punta sotto il mento. Dopo salito, si levò il berretto bagnato, lasciando comparire la sua testa quasi calva che era sempre oggetto di frizzi e lazzi da parte dei suoi alunni e, per questo, gli avevano affibbiato il soprannome di " Zucca pelata".
Il professore, si sedette e aprì la borsa che recava sempre seco, tirò fuori un libro e si sprofondò nella lettura, incurante del resto della compagnia.
Quando l'auto stava per partire giunsero trafelate due suore che salirono frettolosamente sistemandosi nelle ultime file, poi, aprirono i loro breviari e iniziarono le meditazioni.
Con uno scossone, l'autobus si mosse e la pioggia persistente impediva all'autista di vedere bene pur avendo messo in funzione il tergicristallo e dall'interno, ripetutamente passava una straccio sul vetro e qualche volta, spazientito, ne toglieva l'appannatura con le cinque dita della mano nuda. Era un vero problema proseguire in quella condizione, ma il viaggio doveva proseguire.
Uscirono dalla città e cominciarono a percorrere una strada che rasentava un grande campo pieno di alberi di olivo i cui rami si piegavano ripetutamente, ora a destra ora a sinistra, raddrizzandosi di colpo in una lotta continua sotto l'incalzare dell'acqua a vento. E ad ogni, sferzata, sembravano chiedere pietà all'inclemenza del tempo.
I viaggiatori scrutavano spesso attraverso i finestrini, sperando nel cessare della pioggia, ma l'acqua continuava a scrosciare mentre l'auto cominciò a salire sempre più in alto lungo la collina finché giunse al paese di Fileto fermandosi sulla piazza centrale.
I due studenti furono i primi a scendere e, aperti gli ombrelli, corsero verso la loro scuola mentre l'autista invitava gli altri ad andare a prendere qualcosa di caldo al vicino bar, ma nessuno si sentì d'affrontare l'uragano.
Ripreso il viaggio, ben presto l'auto si allontanò dal paese affrontando una salita mozzafiato poiché da una lato c'era uno strapiombo minaccioso e dall'altro un costone rustico con pericolo di "caduta massi " come indicava un cartello bene in vista.
I viaggiatori tenevano il fiato sospeso finché con un sospiro di sollievo sì cominciò a intravedere il paesino di Viraci: prossima fermata.
Traballando a causa del fondo stradale dissestato e alluvionato il mezzo si arrestò per prendere i passeggeri in attesa. Lamentandosi per il ritardo, salirono due giovani contadini con il capo coperto da tele cerate e con in mano due borse ricolme Si affrettarono a sedersi negli ultimi posti mentre borbottavano contro il maltempo.
Lasciato il paese l'autobus prese a scendere lungo una strada non asfaltata che piena di pietrisco e buche lo faceva sobbalzare di continuo, mettendo a dura prova la maestria dell'autista che con un gioco continuo di frizione e freni riuscì a mantenerlo in equilibrio ad andatura moderata.
Con sollievo si giunse in pianura e l'andatura fu più veloce al fine di recuperare il ritardo e ciò comportava schizzi di fango che raggiungevano i finestrini.
La corsa rapida fu di breve durata perché a un tratto una strada molto stretta costrinse la corriera a rasentare un costone da dove scendeva un torrentello d'acqua che avrebbe dovuto confluire in un fiume vicino che, essendo straripato, non poteva più assorbirla.
Nello stesso momento giunsero ai viaggiatori grida di aiuto e, a malapena, videro un contadino e il suo asino che sulla sponda del fiume cercavano di resistere alla piena che li stava per sopraffare.
Bisognava assolutamente prestare soccorso allo sventurato e ogni viaggiatore disse la sua finché si giunse alla soluzione di gettargli una corda. Febbrilmente si cercò la fune e trovatala fu buttata verso il malcapitato urlandogli di prenderne un capo, ma l'uomo non riusciva a farlo perché era aggrappato alle redini del suo asino che si dibatteva sguazzando nell'acqua fangosa.
Uno dell'autobus ad un tratto riconobbe l'uomo e disse; " Ma è don Peppino !" e cominciò così a gridargli: "Afferrate la corda, salvatevi !" Ma quello urlò: " Non voglio essere salvato io solo, dovete salvare anche il mio asino che per me è tutto" Quello che lo conosceva spiegò: E' vero, quella bestia per don Peppino è il lavoro... tutta la sua vita."
Le voci che si levarono dalla corriera furono molte e tutte lo incitavano a prendere la corda e a salvarsi: " Lasciate l'asino al suo destino"...."Pensate a voi, alla vostra famiglia"..." Ricordatevi che i vostri figli aspettano a casa".
Le suore che, dal Mattutino erano passate a un Rosario di 15 poste, visto l'incombente pericolo e paventando il peggio, senza staccare gli occhi dalla terribile visione, iniziarono, con voce tremante e con mani strettamente congiunte a recitare le Litanie dei Santi, preghiera assai più efficace in certi momenti.
Alla fine don Peppino si persuase a lasciare l'asino al suo destino mollando le redini e afferrando la corda e la povera bestia con le zampe all' aria fu trascinato e inghiottito dalla corrente fangosa.
Don Peppino, grondante acqua, fu issato sull'auto dalle forze congiunte dei passeggeri che lo accomodarono in un cantuccio dopo avergli strizzati alla meglio i panni addosso.
Si riprese la corsa con difficoltà lungo la strada allagata che solo dopo qualche chilometro cominciò ad essere asciutta e cominciò ad intravedersi il campanile della chiesa e i tetti scuri di Miracelli. Vicini alla meta tutti tirarono il fiato : Finalmente si arrivava!
La pioggia, come per incanto, stava diminuendo e le nuvole, lentamente cominciavano a diradarsi Nello scendere sulla piazza i viaggiatori trovarono un capannello di paesani che erano in loro attesa per sapere le ultime notizie sul maltempo.per poi continuare a commentarle a modo loro.
Don Peppino fu accompagnato a casa da due conoscenti.
Giuseppa, Rosa e Maria Teresa si affrettarono verso la scuola ove avrebbero giustificato il loro ritardo col racconto del disastroso viaggio e del salvataggio.
Il professore Giurlanda, più cupo che mai, entrò nel bar per riscaldarsi con un ponce visto che le sue lezioni iniziavano più tardi. La figlia della donna infortunata, si affrettò verso l'ospedale.
Le suore s'inerpicarono su per la salita del Convento e i loro veli neri, mossi dal vento,sembrarono ali di rondini che, finalmente, passata la tempesta, si libravano, volteggiando e garrendo su, su per l'infinito cielo.