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INDICE: Giliola della Valle - La piccola narratrice - L'amico uccellino - La pietra della felicità |
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Marilena stava stirando una vestaglia di seta della padrona e intanto la sua mente riandava al tempo in cui anche la sua giovane madre indossava vestaglie di seta. Non era una famiglia ricca la sua, ma la mamma aveva mani abili che sapevano confezionare ogni cosa vista nelle vetrine, perciò ne aveva più di una di vestaglie simili. Lei stessa, quando era bambina, aveva avuto sempre tanti bei vestiti di ogni colore e tutt'infiocchettati. Con la capacità della mamma e l'impiego comunale del babbo, la sua famiglia poteva considerarsi benestante e Marilena aveva avuto una infanzia felice. Ma solo fino agli otto anni che, dopo, una tragedia aveva sconvolta la famiglia e i particolari si scolpirono per sempre nel suo animo. Ricordava tutto di quella tragica giornata anche a distanza di dieci anni: L'arrivo del Maresciallo dei Carabinieri a casa della nonna dove lei piccina si trovava quel giorno con la madre e il fratello Anselmo, maggiore di soli due anni. Erano lì perché il babbo si era recato a Milano per questioni di ufficio. Il Maresciallo, conoscente del babbo, era venuto conl triste incarico di notificare l'avvenuto decesso del marito, vittima di un deragliamento ferroviario che aveva causato una decina di morti. Marilena ricordava il pianto accorato della mamma e della nonna e poi, la sua permanenza nella casa di una vicina amica, insieme a suo fratello Anselmo, per il tempo necessario alle pratiche di riconoscimento della salma e, quindi il ritorno mesto e sconsolato. E, dopo i funerali, la depressione di sua madre che in poco tempo pareva invecchiata di anni. In seguito, momenti di estrema indigenza che incitarono la povera vedova a mettersi a lavorare manualmente per provvedere a sé stessa e ai suoi due bimbi. E le scuole dell'obbligo e poi il lavoro anche per i due adolescenti. Il più grande in una panetteria e la minore in una merceria con lunghe ore di lavoro e misere paghe. Suo fratello era stato un buon esempio per la giovinetta, ché,studiando alla sera, riuscì dopo qualche anno a prendere il diploma di ragioniere e, in seguito, ad occupare il posto del padre al Comune. Marilena, ragazza fantasiose e sensibile, rimase soltanto con la licenza elementare, ma a lei piaceva scrivere ed ogni momento libero era buono per riempire quaderni su quaderni di pensieri e racconti. Ora aveva diciotto anni ed era entrata come guardarobiera nella signorile dimora dell'avvocato Danieli. I suoi non avrebbero voluto che la ragazza lavorasse in casa di estranei, ma da quando il fratello si era sposato e la mamma si era trasferita nella casa degli sposi, a Marinella sembrò più opportuno trovarsi un lavoro decoroso che le offrisse anche vitto e alloggio. Già da sei mesi si trovava nella casa dell'avvocato e ci stava bene perché non era una casa ristretta, ma un villino spazioso dove la servitù aveva uno spazio proprio e, come guardarobiera, poteva disporre di una stanza fornita anche di toletta. Non poteva essere più fortunata! Lei era felice e contenta giacché era come avere un appartamentino privato e dove poteva anche appartarsi a scrivere a lavoro compiuto. Aveva ereditata dal padre un'anima sensibile e poetica e sentiva impellente il bisogno di riversare sulla carta ogni sensazione e ogni riflessione. Nella sua stanza aveva un capace armadio con un grande cassetto da basso che si stava riempiendo dei suoi scritti,e questo era il suo segreto. Scriveva di tutto Marilena con grafia minuta e poche cancellature giacché le frasi le si formavano ben corrette mentre le pensava e pure sbrigando i lavori e, non appena poteva, rapidamente, metteva nero su bianco e venivano fuori racconti, poesie e canzoni. Non dava molta importanza ai suoi scritti non ritenendoli degni di nota. Era uno sfogo della sua anima intristita nel formarsi ed era anche un conforto alle sue ore di solitudine. Scrivendo non contava le ore dando sfogo alla sua fantasia e preferiva questo svago all'uscire o all'andare al cinema. Tuttavia Marilena, lavorava diligentemente e spesso riceveva le lodi della sua Signora, ma non si entusiasmava troppo per una stiratura perfetta o per un rammendo invisibile. Eseguiva tutto bene, ma solo per dovere, la sua vera passione era scrivere! Trovava appagamento anche nella lettura e i libri dei grandi autori li aveva gustati molto, ma lei aveva un suo stile personale che non si rifaceva a nessuno. Osservatrice della natura e delle persone, scriveva in modo semplice e conciso senza tanti fronzoli e abbellimenti inutili, anche per questione di tempo,che non ne aveva molto a disposizione e, quindi pensava molto per poter poi scrivere rapidamente. Le piacevano anche i libri di viaggi e si sognava di poter compiere, in un domani, qualche bel viaggio. Per adesso, nello scrivere doveva accontentarsi di fare come Salgari: descrivere luoghi, senza averli mai visti. Ed era bello pure così... sforzandosi d'immaginare mondi e culture diverse, basandosi solo su quanto aveva studiato o su quello che leggeva. Dopo aver stirata la vestaglia, ultimo indumento della giornata da riporre e che aveva risvegliato in lei tanti ricordi, passò nella immensa cucina per consumarvi la sua cena insieme agli altri dipendenti della villa che erano già assisi attorno alla grande tavola centrale. Era avvezza mangiare in silenzio per poi ritirarsi in camera sua mentre gli altri, a volte, terminavano la serata giocando a carte. Lei aveva un impegno inderogabile con le cartelle da riempire e aveva già in mente il soggetto su cui abbozzare il racconto i cui protagonisti dovevano essere i due nipotini dei padroni di casa che si trovavano in villa per alcuni giorni di allegra vacanza. Erano due bellissimi bambini di quattro e sei anni e lei, dalla sua finestra li aveva visti più volte giocare nel parco che era il luogo preferito per le loro scorribande infantili. Le aveva sorriso e loro avevano risposto chiamandola a gran voce perché giocasse con loro. Ma la ragazza non era lì per trastullare i piccoli, aveva altre mansioni. Si vede però che i bambini avevano espressa alla nonna la loro simpatia per quella signorina " tanto carina" vista alla finestra che un giorno, dovendo assentarsi, pensò di potersi fidare lasciandoli alla sua custodia per un paio d'ore. Marilena onorata da tanta fiducia fu ben lieta di farlo e occupò quel tempo a narrare alcune favole...del suo repertorio, quindi,inedite e graditissime dai piccoli che entusiasti,ne parlarono per giorni e giorni ai nonni. Ebbene, proprio di questi deliziosi bimbi, Marilena scrisse quella sera tre pagine fitte fitte e, scrivendo di loro, si ritrovò a pensare se il suo destino le riserbava di averne che,lei, amava molto i bambini. Persino, le sarebbe piaciuto che un suo probabile figlio rassomigliasse a suo padre. Chissà invece che,chiusa come una reclusa,non fosse destinata a restare zitella e sola? Con la testa arrovesciata sullo schienale della sedia, finì per addormentarsi e così la trovò la sua signora quando scese a cercarla perché doveva avvisarla di approntarle un determinato abbigliamento per il mattino seguente dovendo uscire molto presto. Aveva bussato,la signora, vedendo filtrare la luce da sotto la porta e, non ricevendo risposta, era entrata. Nel vederla ancora vestita e con la testa abbandonata pensò a un malessere e, premurosamente le si avvicinò e non poté fare a meno di leggere i fogli davanti a lei ancora freschi d'inchiostro e s'intenerì nel leggere le espressioni sincere e gentili verso i suoi nipotini tanto vivaci e irrequieti. Se ne commosse persino, trattandosi di una affettuosa descrizione che lasciava trasparire la gentilezza d'animo di quella ragazza, così giovane e così sensata in quelle descrizioni come poteva percepire da quanto vedeva scritto. La guardò un attimo prima di svegliarla: sotto la fioca luce del paralume sembrava un'immagine di altri tempi. Ora capiva perché non chiedesse mai la libera uscita e se ne stava chiusa in camera nelle ore di riposo! Le si rivelava in pieno l'indole di quella cara ragazza che lavorava con impegno e assiduità e, pur sembrando tanto delicata, aveva un intenso mondo interiore che la ripagava delle avversità della vita: se non fosse rimasta orfana in tenera età, avrebbe forse potuto proseguire negli studi perché ne avrebbe avute le attitudini. La signora mentalmente faceva queste riflessioni mentre le aveva preso la mano che accarezzava dolcemente cercando di svegliarla. E aprì gli occhi Marilena, confusa e vergognosa, balzando subito in piedi per riordinare gli scritti mentre ascoltava le gentili parole che le venivano indirizzate dimostrandole in quale considerazione fosse tenuta. La signora,infatti,le stava dicendo che non doveva vergognarsi della sua vocazione, lei stessa avrebbe fatto in modo che potesse continuare a scrivere senza averne difficoltà. Per cominciare avrebbe avuto il permesso di accedere alla fornitissima biblioteca del marito quando avesse avuto desiderio di erudirsi su qualche argomento particolare. E per le favole che aveva raccontate ai suoi nipotini, visto che essi l'avevano tanto apprezzate, s'impegnava a farne stampare delle copie che vendute avrebbero dato inizio alla sua carriera di vera scrittrice. Da quel momento Marilena sentì scomparire il senso d'inferiorità che l'aveva caratterizzata fino allora. Cominciò ad avere più fiducia nell'avvenire e, il segreto che custodiva da tempo gelosamente, divenne di dominio pubblico allorché un Editore stampò il suo primo libro di favole che venne pubblicizzato attraverso la stampa. E giunse il giorno che non ebbe più bisogno di un lavoro dipendente e dovette accomiatarsi dalla buona signora che le restò amica, per dedicarsi completamente a scrivere libri. Ma non più in segreto.
FINE
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Giorgio era lo scolaro più povero di quella contrada di pescatori e, come figlio, anche lui, di pescatori gli si prospettava un avvenire di onesta miseria. Il ragazzo aveva dimostrato fin dalle prime classi, un forte attaccamento allo studio perché aveva sete di sapere tante cose. Nonostante la povertà la sua vita scorreva serena coi genitori e i piccoli fratellini Sandro e Luca. Lo studio lo attirava enormemente lo si vedeva da come divorava libri su libri di ogni genere e argomento ed aveva anche una buona memoria. Per questo era il primo della classe! Le sue letture non erano un modo semplice per passare il tempo, ma il mezzo per continuare ad apprendere cose nuove che non avrebbe dimenticato. Quando era preso da ciò che leggeva, dimenticava pure di fare merenda. Era quasi scontato, però, che al finire della scuola media avrebbe seguito il padre in barca perché amava il mare ed era ancora troppo piccolo per fare altri progetti. Fortunatamente c'è sempre la Divina Provvidenza che sa come intervenire per rendere felici le persone. Nella vita di Giorgio, volle predisporre alcuni fatti straordinari che avrebbero cambiato le sue sorti. Avvenne che un giorno i ragazzi della terza media furono convocati dal Preside della scuola per una importante comunicazione. Il discorso che egli fece agli allievi fece molto commentare i piccoli ascoltatori perché ognuno di loro avrebbe potuto esserne protagonista. Si trattava di partecipare ad un importante Concorso lanciato dal Ministero della Istruzione rivolto ai ragazzi dell'ultimo anno di scuola media. Ebbene dopo l'esame obbligatorio per la licenza, vi era la possibilità di conseguire una borsa di studio per proseguire gli studi a Bologna.andare a Bologna Perciò chi voleva parteciparvi doveva iscriversi al Concorso per andare, appunto a Bologna per essere esaminato da una giuria di professori. Dopo questa comunicazione, tutti gli occhi si rivolsero a Giorgio, perché era sempre stato il più bravo. Fu così che il povero figlio di pescatore, fu invitato da tutti a prepararsi nel miglior modo per sostenere questo importante esame, non solo per sé stesso, ma per fare onore alla sua scuola e a tutto il loro paese. Giorgio fu intimorito dai tanti solleciti che gli vennero da compagni e maestri e fu tentato di rifiutare perché non si sentiva pronto per un compito così grande. Confidò ai compagni le sue perplessità che consistevano nel non possedere enciclopedie e atlanti così completi da fornirgli una preparazione adeguata e poi l'esame si sarebbe dovuto svolgere a Bologna e avrebbe dovuto avere un abito più idoneo e non il giubbetto e pantaloni cuciti da sua madre. Un altro timore per lo studente era andare a Bologna, la città de gli studi per eccellenza. Lo diceva il vecchio adagio di sua nonna: "A Bologna gran dottori!" Il ragazzo era titubante e non si lasciava convincere all'iscrizione dei partecipanti. Non che ce ne fossero molti nel loro paese, solo tre o quattro e nella sua scuola, lui soltanto. Questa responsabilità gli pesava. La voce si sparse e tutti vollero fare qualcosa per aiutarlo. E fu una grande gara di solidarietà affinché il ragazzo avesse la possibilità di prepararsi bene e senza avere problemi economici. Persino il Sindaco vi partecipò, permettendogli di consultare la grande enciclopedia che stava nella biblioteca comunale e il Maresciallo dei carabinieri gli regalò il biglietto viaggio/ritorno per il treno di Bologna. I compagni fecero una colletta per un paio di scarpe nuove e il Parroco gli regalò una cartella "da impiegato" di pelle marrone. L'esame era diventato un punto d'orgoglio per tutto il circondario. Di fronte a tante manifestazioni di affetto Giorgio ce la mise tutta per non tradire la fiducia che si riponeva in lui. Studiò notte e giorno e al momento della partenza fu accompagnato alla stazione che si trovava nel paese vicino, da tutti i compagni in bicicletta che fecero un lungo corteo che tifava per lui. E fra un grande sventolio di fazzoletti il treno partì. Giorgio superò ogni aspettativa, in particolare colpì la giuria, la sua prodigiosa memoria perché seppe rispondere anche a domande che esulavano dal programma scolastico, dimostrando che le sue cognizioni erano più profonde di quanto ci si potesse attendere da un ragazzo di scuola media e che veniva da un paese piuttosto arretrato. Fu quindi con gran soddisfazione che gli fu assegnato il diploma di vincitore che gli assicurava anche la borsa di studio per il prossimo triennio. Era una vera fortuna per il modesto ragazzino che non avrebbe mai preteso dalla sua povera famiglia di mantenerlo agli studi. Il suo rientro a casa fu memorabile perché la notizia della sua vittoria era giunta in paese prima del suo arrivo e ci furono, quindi, molti preparativi per accoglierlo degnamente. Con sua sorpresa Giorgio, scendendo dalla stazione trovò una vera folla ad attenderlo con la fanfara e il Sindaco che lo accolsero come un eroe nazionale. Suo padre che nelle feste, suonava il clarino nella Banda, quel giorno fu dispensato nella eventualità che la commozione gli prosciugasse la gola, impedendogli di suonare. Pure, suo figlio, fra baci e abbracci e congratulazioni, si sentì frastornato, tanto che il Sindaco li fece salire nella sua macchina per condurli dalla mamma che, li attendeva a casa coi bimbi piccoli e nel frattempo, aveva preparato un pranzo coi fiocchi per quel suo figlio eccezionale. Ma Giorgio non credeva poi di essere stato tanto straordinario, giacchè aveva solo dimostrato a tanti fannulloni che ogni cosa va fatta con serietà e senso del dovere, fin dai primi anni di vita.
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Viveva in un paese dell'Umbria un ragazzino di nome Giovanni che tutti chiamavano Giannino perché era minuto ed esile per essere stato colpito dalla poliomielite quando aveva pochi mesi di vita. La terribile malattia lo aveva lasciato con le gambe inerti Era figlio di un infermiere che lo aveva sempre curato con amore e competenza, ma che più di tanto non poté fare al suo bambino bello e intelligente. Fino a che aveva frequentato l'asilo dei piccoli vi era stato accompagnato ogni giorno in braccio dalla sua mamma, ma quando dovette inserirsi nella scuola elementare ci fu il problema della distanza. La scuola che avrebbe dovuto frequentare per cinque anni era situata sopra una collinetta molto lontana dalla casa di Giannino e il ragazzo che era cresciuto in altezza non poteva più essere preso in braccio da sua madre. I genitori si preoccuparono di fornirlo di una carrozzina, ma anche così era difficoltoso perché la strada da percorrere era in salita e poco accessibile per la tortuosità del percorso in terra battuta e poco scorrevole. Fu proprio allora che due piccoli gemelli, vicini di casa, suoi compagni di asilo, proposero di accompagnarlo, spingendo in due la carrozzina.. Il piccolo invalido ne fu felice e ringraziò Filippo e Tarcisio che si erano presi questo incarico e l'unico vantaggio era che Giannino abitava a piano terra e non vi erano scale da fare. I tre bambini da allora divennero inseparabili e pure nel pomeriggio per fare i compiti si tenevano compagnia contenti di studiare insieme e di giocare quando avevano terminato. Anche i genitori erano soddisfatti e la vita scorreva più tranquilla. I due fratelli si adattavano a fare giochi sedentari per agevolare il loro amichetto e ne inventavano sempre di nuovi; talvolta ritagliavano dai vecchi giornali delle fotografie che incollavano sopra dei cartoncini per renderli stabili e li usavano per fare il teatrino, dando voce ai vari personaggi e la mamma con lo zucchero caramellato preparava dei grandi "lecca lecca" che piacevano tanto a tutti e tre. Oltretutto questi dolcetti facevano anche bene alla gola perché erano uguali allo zucchero d'orzo che si acquistava nella farmacia. Spesso poi vi era la sorpresa di piccole crostatine con la marmellata di more che crescevano attorno alla casa e così, con poca spesa la golosità era appagata. I momenti più belli erano quelli della ginnastica perché anche Filippo e Tarcisio facevano gli stessi esercizi che doveva fare Giannino per rinforzare braccia e gambe e, la ginnastica di gruppo, faceva bene a tutti e tre. Partecipare alla vita del compagno infelice, aveva modificato in meglio anche il loro carattere litighino perché, si sa, che i gemelli seppure si vogliano un gran bene bisticciano spesso come tutti i fratelli del mondo.. Illustri professori avevano visitato Giannino e avevano deciso, a un certo, momento di tentare una operazione chirurgica per consentirgli più facilità di movimento giacché il ragazzo aveva voglia di correre, sia pure seduto nella sua carrozzina. Durante la convalescenza che fu lunga e noiosa i tre ragazzi ormai cresciuti non smisero di farsi compagnia e furono tutti felici quando si videro i risultati del difficile intervento perché Giannino si sentì pronto a intraprendere una carriera sportiva adatta al suo stato e iniziò seriamente gli allenamenti per il Campionato Disabili. Figurarsi il tifo che fecero i suoi amici durante la competizione e forse anche per il loro incitamento Giannino ci mise tanto impegno che vinse il Campionato. Proprio la solidarietà e la fiducia dei suoi amici avevano inculcato in lui ia fiducia e il coraggio di tentare quella prova, essi lo avevano sempre sollecitato a non arrendersi di fronte alle prime delusioni, ma proseguire con perseveranza per conseguire la meta che si era proposta. Non solo il giovinetto vinse la gara, ma dimostrò di essere forte e bravo,anzi, il più bravo.
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Dalle nozze di Bianca e Antonio erano trascorsi quattordici anni e la loro vita scorreva serenamente nella loro casetta di montagna. Antonio era montanaro e in quel piccolo paese fra i monti era nato ed era cresciuto; Bianca invece era cittadina e aveva conosciuto colui che sarebbe divenuto il suo sposo in un campeggio che aveva fatto coi colleghi della ditta dov'era impiegata. Il bruno montanaro che fece loro da guida nelle escursioni, l'aveva incantata subito per la semplicità di modi e per la sicurezza che sapeva minimizzare ogni difficoltà Abituata a rintuzzare i corteggiamenti dei ragazzi di città, sempre pronti a infastidire le ragazze, vide in questo giovane serietà e compostezza e ne fu conquistata. Probabilmente proprio quel marcato contrasto di personalità l'aveva ammaliata e il medesimo incantesimo aveva prodotto in lui la vicinanza della bionda fanciulla, inesperta dei sentieri montani che fiduciosa si affidava alla sua esperienza. Colpo di fulmine? Senza dubbio! Anche se la romantica ragazza si era soffermata all'apparenza esteriore di lui, il ragazzo, aveva visto in lei altri elementi da valutare. La comitiva impiegatizia ripeté altre due volte il campeggio in quel luogo che non era ad eccessiva distanza dalla città in cui lavoravano. La bruna guida aveva, individuata Banca fin dalla prima volta ed era stato felice di rivederla ancora e il suo sguardo innamorato finì per colpire anche lei. Antonio la chiese in matrimonio e lei accettò con entusiasmo- Formavano una bellissima coppia. Lui, alto e forte,lei, poco meno alta, ma così diafana e gentile da conquistare tutti. La coppia s'installò nella casa al limitare della Riserva dove da poco tempo, Antonio,era stato assunto come guardiacaccia.. Andavano d'accordo e si volevano un gran bene e la giovane sposa, mai rimpianse di aver lasciata la città, cambiando totalmente genere di vita. Tanto può l'amore! La nascita di due figli a distanza di due anni l'uno dall'altra, non fece che rafforzare la loro unione e le giornate di Bianca furono più piene e laboriose. I due bambini le davano molto da fare, ma il più docile era il biondissimo Manlio con una costituzione non poderosa e col carattere più dolce di Santina che bruna e robusta come il padre era di temperamento irruente e irrequieto. Antonio pur amandoli svisceratamente, avrebbe preferito che la forza della bambina l'avesse avuta il maschietto ché meglio si sarebbe inserito nella vita boschiva che richiede muscoli saldi e occhio deciso. Sarebbe stato contento d'introdurlo alla vita di altura per la quale era più portata Santina. Ma alla natura non si può contestare nulla. Malgrado le apparenze, Manlio amava seguire il padre nelle perlustrazioni mattutine, non così nei turni notturni quando egli, in coppia con un collega vigilava che i bracconieri non entrassero nella Riserva. Il ragazzo apprendeva con gli occhi tutto ciò che la riserva mostrava e sapeva che alcune specie di animali sono protette e non vanno uccise, gli sarebbe anche piaciuto imparare ad usare il fucile, ma su questo punto Antonio fu irremovibile : " Hai solo quattordici anni, è troppo presto! " Senza dubbio suo figlio avrebbe potuto scegliere qualunque altra attività montana, ma non il suo mestiere per il quale non lo vedeva adatto. Manlio però guardava e imparava ogni cosa e sapeva che i cacciatori di frodo non l'intimoriscono le regole e, spesso, riescono a penetrare in Riserva e fare prede proibite ed era capitato che qualche guardiacaccia restasse impallinato, per questo di notte dovevano essere in due. Una sera giunse un dispaccio recante la notizia che il compagno di quella notte non poteva essere presente perché colpito da polmonite e non vi era chi poteva sostituirlo. Antonio con un sospiro capì che la nottata avrebbe comportato maggiore attenzione. Manlio che aveva ricevuto il dispaccio, ne era al corrente e insisté suo padre per accompagnarlo nella baita che fungeva da osservatorio e da sosta. Dapprima Antonio disse un secco "No" poi si lasciò convincere a patto che il ragazzo se ne stesse ben riparato nell'interno per tenergli pronta la caffettiera quelle due o tre volte che ne avesse avuto bisogno, ma fuori non doveva uscire. Solo a questo patto Manlio seguì suo padre. La notte era fredda e senza luna e il ragazzo si era portati dietro due libri, intenzionato a non dormire mentre aspettava suo padre che dopo ogni giro d'ispezione della durata di un'ora, rientrava a riscaldarsi un poco e per poi sortire di nuovo. Durante uno di questi intervalli padre e figlio udirono dei rumori sospetti e il guardiacaccia fu pronto ad imbracciare di nuovo il fucile correndo fuori. I rumori si erano moltiplicati e al suo orecchio esercitato giunse il lamento di un cervo ferito, capì che la povera bestia era stata imprigionata da qualche trappola dei bracconieri e si spinse da quella parte. Antonio capì che sicuramente qualcuno era stato informato che quella notte il suo collega sarebbe stato assente, ma non si sottrasse al suo dovere ben sapendo quanto fosse pericoloso per lui. Istintivamente sentiva delle presenze, che il buio della notte non evidenziava. Proseguì sicuro senza sapere che qualcuno stava attentando alla sua vita. Fu colpito a una gamba e stramazzò al suolo e ruzzolò lungo un pendio... Si risvegliò in ospedale e seppe di essere stato salvato da suo figlio che invece di starsene ben tappato nella baita, l'aveva seguito e standogli dappresso nel momento che precipitava, fu svelto a prendergli il fucile e sparare a sua volta qualche colpo per dare l'allarme. Il suo gesto impulsivo fu provvidenziale perché indusse il bracconiere a fuggire immediatamente mentre il ragazzo provvedeva ad arginare con la sua sciarpa il copioso sangue che sgorgava dalla ferita alla gamba di suo padre. Inoltre la serie delle sue fucilate furono avvertite dal successivo posto di guardia che riuscì a catturare il feritore e, anche, a salvare il cervo intrappolato. Furono necessari molti interventi chirurgici per salvare la gamba di Antonio e anche la convalescenza fu lunga, ma all'orgoglioso genitore fu di conforto la certezza che in suo figlio scorresse il medesimo suo sangue montanaro, generoso e coraggioso. Tanto più quando Manlio fu convocato dal Sindaco per ricevere un importante riconoscimento che lo qualificò:" Eroe dell'anno".
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Valente era un ragazzetto bruno e vivace e fin da piccino aveva dimostrato di essere volenteroso e servizievole, ma una cosa non gli garbava...che lo prendessero in giro a causa del suo nome. Eppure aveva un bellissimo nome, ma si prestava a delle interpretazioni diverse e, capitava, nel dettato che il maestro faceva in classe che ci fosse una frase con questo aggettivo. Eh! Si! proprio l'aggettivo valente con la lettera minuscola dava fastidio al bambino. Ad esempio: il valente medico, il valente scrittore, il valente attore..oppure il giornalista è valente e tanti altri simili. In questi casi era additato dai compagni che scoppiavano a ridere e lui se ne vergognava perché non capiva che è un complimento dire a qualcuno che è valente. Ma al ragazzo quella ilarità dava fastidio gliene veniva un cruccio che lo faceva arrossire. Il motivo però andava ricercato in famiglia perché la madre non si accontentava mai di quello che lui faceva e ogni volta lo rimproverava dicendogli: "Altro che valente... tu sei un buono a nulla". Lo aveva ripetuto tante di quelle volte che suo figlio aveva finito per odiare il proprio nome e diceva: "Perché mi avete messo questo nome? Col calendario pieno di nomi, per me avete scelto il più antipatico..." Diventato più grandicello si metteva a pensare proprio il perché sua madre lo avesse scelto. E anche quì un motivo c'era. La madre era nata in una famiglia poverissima e in più lei stessa non era stata fortunata sposandosi perché suo marito poco dopo il matrimonio aveva cominciato a ubriacarsi perdendo un lavoro dopo l'altro ed era toccato alla povera donna lavorare nei campi sotto la pioggia e sotto il vento per sopperire ai bisogni della famiglia e il suo carattere si era inacidito. Quando nacque il figlio, scelse proprio questo nome affinché gli portasse fortuna. Il povero fanciullo non ricordava di avere mai avuto un bacio da sua madre né una carezza da suo padre e li vedeva sempre litigare ed era cresciuto fra parole brutte e urlacci e per questo sua madre quando gli parlava era sempre arrabbiata e lo trattava male come se di ogni cosa ne avesse lui la colpa ed era un brutto vivere il loro anche per la miseria che c'era in casa. E non si poteva neppure chiamare casa il luogo dove abitavano perché era una specie di cantina umida e fredd, accanto ad altre rimesse, nei pressi del porto dove i venditori del vicino mercato, riponevano le ceste e i loro banchetti quando avevano finito di lavorare. Il solo vantaggio era che il piccolo Valente aveva la possibilità di aiutare questa gente e quelli che portavano le merci con le navi e non era insolito vederlo fin da piccolo caricarsi di ceste e cassette piene di verdure e frutta da portare al mercato prima di andare alla scuola e riportarle nei magazzini e lo si vedeva anche al porto aiutare quelli delle navi che caricavano e scaricavano. Si può dire che Valente avesse sempre lavorato da quando aveva avuta la forza di farlo e qualunque servizio che gli veniva richiesto era pronto a fare e, dei pochi soldi che guadagnava, la madre non lasciava mai nulla nelle sue stanche manine. Valente era quindi cresciuto col complesso dell'inferiorità, come se non fosse capace di guadagnare di più e, se non fosse stato che gli piaceva studiare, avrebbe smesso di andare a scuola per lavorare dalla mattina alla sera. Non sapeva cosa fare per dimostrare che era valente davvero ! Già a 12 anni era stanco di vivere quella vita ingrata cosicché appena presa la licenza elementare si fece ingaggiare come mozzo su di una nave che avrebbe navigato per anni in mari lontani. Gli fu anche facile avere il permesso dei suoi, ben contenti di sbarazzarsi di una bocca in più. Fu un' esperienza dura per il povero ragazzo e mentre lavava i ponti o rammendava le reti da pesca il pensiero correva a coloro che aveva lasciato a casa e, sapendo la loro misera vita, compativa pure il loro comportamento indifferente e niente affatto amoroso nei suoi confronti. Poveri genitori miseri e senza ambizioni! Nei loro caratteri così spigolosi, c'era forse la vergogna di essere così miseri. Li perdonava, pensando che se avessero avuto di più dalla vita sarebbero stati, forse, meno rancorosi verso il mondo e verso il figlio. Lui voleva essere diverso. Il suo sogno era quello di entrare a far parte degli allievi del Corso di tecnica navale perché oramai si era inserito nella vita del mare e amava.vedere posti nuovi e aveva capito che sulle navi ci sono molti lavori da fare e più si è specializzati e più si guadagna e Valente voleva diventare bravissimo. Erano passati sei anni e il mozzo ne aveva compiuti 18, l'età giusta per presentare la sua domanda al Corso che desiderava frequentare e, il suo capitano del quale si era conquistato la stima gli aveva promesso il suo appoggio. Fu l'ufficiale, infatti, che firmò la sua domanda al posto dei genitori lontani e, baldanzosamente, Valente iniziò una carriera che avrebbe fatto onore, finalmente al suo nome. La sua mente giudiziosa lo aveva portato a riflettere su molte cose della vita e aveva fatto suo il motto che dice: "Volere è Potere" e Valente divenne valente davvero, esempio di modestia e buona volontà.
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GILIOLA DELLA VALLE
C'era una volta una bimba bella e buona che viveva felice coi suoi genitori in una vallata fra due grosse montagne. Il luogo era incantevole ed era contornato di boschi di faggio e di abeti e da primavera a estate era tutto un tripudio di fiori di campo e di farfalle che rallegravano la piccola Giliola che si divertiva a correre nei prati cercando di acchiapparle. L'inverno con la neve era pure bello scivolarvi sopra, ma bisognava coprirsi con sciarpe e maglioni e, per non buscarsi raffreddori era meglio rimanere molte più ore rinchiusi in casa. La mamma della bimba era brava a fare i lavori con la lana e la piccola stava imparando. E imparava anche guardando il lavoro di suo padre che era bravissimo ad intagliare nel legno gli oggetti caratteristici che si usano in montagna e quei pupazzi che tutti gli amanti della neve, comprano come souvenir. La bambina passava ore e ore a guardare suo padre che raschiava e incideva fino a che il pezzo di legno prendeva forma nelle sue abili mani. Osservando coi suoi occhi curiosi la bambina stava imparando anche a servirsi di tutti gli strumenti che servivano a lavorare il legno. Ma il suo papà non permetteva che lei li usasse per tema che si ferisse. Le sue manine erano troppo piccole e delicate per simili lavori. Giliola ci moriva dietro e non vedeva l'ora di poter armeggiare anch'essa con limette e punteruoli e scavino per fare i pupazzi come li voleva lei. Il lavoro del papà però non dava un gran guadagno alla famiglia e le spese erano tante, sicché il giovane padre decise di andare a fare il minatore in Germania, magari per qualche anno come vedeva fare da altri paesani che quando ritornavano da questo duro lavoro in terra straniera, riportavano un bel gruzzolo che li metteva tranquilli per l'avvenire. Così decise di partire e ci fu anche un altro motivo che lo spinse a farlo. Sua moglie si era ammalata di una grave anemia ed aveva bisogno di cure costose e di vitto sostanzioso e fu la spinta maggiore per cui fece la valigia e partì, lasciando le sue amate in attesa del suo ritorno. Per fortuna avevano una figlia molto assennata e che, piena di buona volontà sapeva come aiutare la madre, togliendole molta fatica. Giliola aveva imparato fin da piccina a fare le faccende domestiche e anche le monache della scuola le avevano insegnato il cucito e il ricamo, perciò le sue giornate erano molto operose. Vi erano comunque molte ore noiose in cui, ella, mal si adattava all'ozio forzato perchè aveva voglia di fare e avrebbe voluto guadagnare qualcosa per rendere meno monotono il loro pasto che quasi sempre si componeva di latte, patate e polenta. Ci pensò tanto fino a ché inizio col prendere gli arnesi di suo padre accingendosi a intagliare i pezzi di legno già pronti che erano rimasti inutilizzati dalla partenza del capofamiglia. Oramai era una giovanetta e il pericolo di farsi male non c'era più e poi, sarebbe stata attenta per non dare preoccupazione alla sua adorata mamma già avvilita per le sue condizioni che la costringevano a stare spesso sdraiata, in assoluto riposo. Era una brava ragazzetta Giliola e avrebbe voluto che suo padre tornasse per realizzare il sogno che era quello di riaprire la sua bottega artigiana, spazzata via da un'alluvione e dove, oltre i piccoli soprammobili e o souvenir, costruiva solidi mobili in legnami pregiati. Da principio, Gigliola aveva copiato le scherzose immagini, classiche in questo genere d'intaglio, come quelle che faceva il padre, ben presto però si cimentò in nuovi modelli dettati dalla sua fantasia. Ne riempì due grossi scaffali in attesa di mostrarli al suo "maestro" quando fosse tornato,poi li riprese in mano uno ad uno e li dipinse con una vernice laccata che li trasformò rendendoli simili a ceramiche. Solo la mamma si congratulò con lei perché non ebbe coraggio di mostrarli ad altri. In quei due anni l'emigrante aveva inviati a casa i frutti del suo penoso lavoro, ma le due donne non vollero intaccare le sommette che giungevano periodicamente dalla Germania perché avevano avuto l'incarico di eseguire i lavori a maglia per l'unico negozio del paese. Ciò fu sufficiente a migliorare i loro pasti e non cercarono altro. Non avevano molte esigenze madre e figlia e, anzi, erano sempre pronte a lavorare gratis per qualche bambino o vecchietto bisognoso. A maggio ci fu la festa del Patrono e tutti inviarono doni per fare la lotteria, anch'esse inviarono al parroco, due maglioni e un grande scoiattolo intagliato da Giliola. Accadde che fu una sciatrice milanese a vincere il grazioso animale scolpito nel legno e colorato in modo da parere vero. Ne fu entusiasta e siccome era una mercante d'arte, volle conoscere chi avesse eseguito un lavoro così perfetto. Fu un bambino che rispose alla sua domanda: Giliola della valle e il Parroco le diede l'indirizzo della sua modesta abitazione dove la signora si diresse immediatamente. E le sorprese furono molte, per madre e figlia nel ricevere quella inattesa visita e per la visitatrice, che appena entrata vide gli scaffali dell'ingresso colmi di altre belle sculture lignee che sembravano di ceramica. Si fece spiegare dall'autrice il suo modo di lavorare e decise, seduta stante di acquistare tutti i lavori già pronti. Giliola fu un po' restìa nel disfarsene perché lei avrebbe voluto mostrarli prima a suo padre che sarebbe venuto per le ferie natalizie. Accondiscese pensando che si era nel mese di maggio e avrebbe avuto abbastanza tempo per farne di nuove. La gentile signora, entusiasta di aver scoperta una nuova artista da lanciare sul mercato avrebbe voluto anche portare seco la ragazza per farla conoscere in ambienti artistici, ma dovette moderare la sua fretta lombarda perché era necessario attendere il consenso del padre e finché lui era emigrante la mamma non poteva essere lasciata sola. Se ne sarebbe riparlato a Natale e la signora promise di ritornare.. Intanto le creazioni della giovanissima intagliatrice sarebbero stati esposti in una mostra con sopra il nome dell'autrice. Intanto la bella sommetta, giunta quasi per miracolo rallegrò mamma e figlia che la tennero in serbo insieme ai risparmi paterni per fare una bella improvvisata al minatore che non se l'aspettava. Difatti quando egli a Natale scoprì che le sue donne non avevano usato neppure un centesimo,capì che non sarebbe più ritornato a fare quel duro mestiere perché la cifra riposta, sarebbe stata sufficiente a rimettere in piedi la sua attività e per gli oggetti artistici, avrebbe avuto una collaboratrice preziosa e la nuova insegna avrebbe portato quel nome, nato spontaneamente dalle labbra di un bambino: GILIOLA DELLA VALLE - SCULTRICE. E forse, quel nome un giorno sarebbe diventato famoso!
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LA PICCOLA NARRATRICE
A quattordici anni la vita rappresenta un'incognita e la domanda "cosa farai da grande" seppure ricorra spesso nei discorsi dei genitori e dei conoscenti o nei compiti scolastici, lascia gli adolescenti dubbiosi e perplessi. Così era anche per Marina che i genitori avevano lasciata libera di scegliere tra il continuare gli studi o rimanere in casa. Ora la ragazzetta stava godendosi le vacanze dopo aver conseguito la licenza media e il suo tempo scorreva spensierato tra i piccoli aiuti che dava in casa nel disbrigo delle varie faccende che la mamma le assegnava, più per insegnargliele che per la necessità di essere aiutata. Marina era di carattere allegro e, quasi sempre, cantava mentre sbrigava questi suoi lavori, non che avesse una voce bellissima, ma era intonata e tanto bastava per cantare i ritornelli delle canzoni in voga. Anzi, amava parodiarle con parole sue e, in questo, la incitavano anche le sue compagne che si divertivano un mondo ad ascoltarla. Si era fatta una piccola coorte di bambine più piccole di lei che l'attendevano ogni pomeriggio nel piccolo parco pubblico proprio di fronte alla villetta dove abitava. Le piccole amiche l'attendevano con ansia, ma non per giocare soltanto, il loro divertimento principale era ascoltare le meravigliose fiabe che Marina sapeva narrare. Ella le inventava per loro sul momento come la sua fervida fantasia le suggeriva e non si stancava mai di trovare nuovi spunti e idee originali. Le bambine impazienti l'attendevano sotto casa e ingannavano il tempo facendo congetture sull'abito che avrebbe indossato quel giorno Marina. Anche questa era un'altra prerogativa della giovanetta, quella di cambiare abbigliamento quasi ogni giorno, anche se di ciò ella non aveva merito. Era la sua mamma che aveva molto buon gusto e sapeva fare da sola qualunque lavoro di cucito, così che con poca spesa, sapeva far figurare la sua bambina come se fosse vestita da una grande sarta e con molta personalità. Spesso bastava un fiocco diverso, una cintura di un altro colore, una guarnizione originale o un ricamo per trasformare un vestitino già portato; a volte lo tingeva pure d'un altro colore e Marina era sempre nuova. Il babbo se ne commoveva perfino nel vedere l'abilità di sua moglie, ella faceva delle cose che sapevano di miracolo e vedendo uscire da quelle mani prodigiose dei veri capolavori, pensava che, nonostante il passare degli anni, la sua piccola moglie con l'entusiasmo che metteva in tutto ciò che faceva rimaneva giovane e belle eppure lavorava sodo da mane a sera. Non spendeva neppure per le riviste di moda per aggiornarsi che a lei bastava vedere un vestito od una borsa esposta in vetrina per saperla rifare. Marina stava sbocciando come un fiore aveva già sorpassato la mamma in altezza e, diritta e snella, sembrava quasi una signorina, ma il cuore e l'anima erano ancora semplici e puri di bambina. Ella credeva nelle favole che narrava alle sue piccole amiche e quando parlava "del principe azzurro" che sposava la bella principessa dopo averla liberata dalla prigionia, forse sognava che pure per lei sarebbe arrivato un principe simile. Era trascorsa una buona parte dell’estate e di favole ne aveva inventate parecchie per le bambine che facevano circolo attorno a lei e un giorno, nel mezzo di un suo racconto, Teresa , la più piccola delle ascoltatrici la interruppe esclamando: “ Marina ti sei accorta che pure a quel vecchio piacciono le tue favole? Perché io l’ho visto altre volte qui. Sembra un mago! Ma no sciocchina, che dici? Quello non è un mago, è soltanto un vecchio signore forse in pensione che si sta riposando. Vedi fuma tranquillo e beato senza badare a noi". Difatti, guardandolo, tutte le bambine si accorsero che il vecchio signore se ne stava per suo conto assaporando il suo grosso sigaro tenendo il capo arrovesciato all'indietro; sembrava che seguisse il volo delle rondini che volteggiavano in alto mentre con una mano si lisciava la bella barba bianca. Dopo averlo osservato un attimo le bambine tornarono a seguire il racconto di marina fino alla fine, senza più occuparsi del signore, da non accorgersi neppure che a un certo punto se n'era andato. Sia avvicinava il tramonto e le bambine si salutarono e ognuna tornò alla propria casa. Marina però a casa trovò una sorpresa: la mamma in salotto stava conversando proprio con il vecchio dalla barba bianca. La giovanetta ne fu molto sorpresa, ma la madre, prevenendo la sua domanda, la informò che il loro ospite era il Direttore di un giornale per ragazzi che stava attendendo il ritorno del babbo dall'ufficio perchè voleva fargli una proposta che riguardava proprio lei, Marina. La fanciulla non capì bene il discorso e guardava smarrita sia la mamma che il signore. A questo punto fu il signore che ridendo prese la parola: "ti piacerebbe scriverle le storie che racconti tutti i giorni alle tue amiche?" A Marina si imporporò il viso per l'emozione e, in quel momento, lei che parlava con tanta scioltezza e disinvoltura, non trovò le parole adatte per rispondere. Fortunatamente l'arrivo del babbo la tolse dall'imbarazzo e, dopo le presentazioni, si cominciò a parlare del motivo che aveva spinto il signore a visitarli. Egli trovandosi in vacanza in quelle belle giornate aveva preso l'abitudine di recarsi al parco per passarvi un paio d'ore e, curiosando pigramente, aveva notato il gruppo di bambine che ogni pomeriggio si riuniva ad ascoltare colei che parlava. Aveva notato con quanta ansia le bambine l'aspettavano davanti alla villetta e così anche lui si unì all'attesa e, senza farsi notare, ascoltava i suoi racconti che aveva trovato belli e interessanti. Si era accorto poi che la bambina abitava proprio di fronte al parco e aveva deciso di presentarsi ai suoi genitori affinchè accettassero ciò che lui aveva in mente. Espose quindi la sua idea: se la ragazza accettava di scrivere i suoi racconti lui li avrebbe fatti pubblicare sul suo giornale. In questo modo tutti li avrebbero potuti leggere, non solo le piccole amiche . Le favole erano così belle che sarebbe stato un peccato mandarle perdute. Naturalmente ci sarebbe stato un compenso in denaro per la fanciulla che avrebbe dovuto considerarlo un vero lavoro. Naturalmente il contratto fu concluso con soddisfazione per tutti e Marina non stava in se per la gioia e già aveva in mente tante cose da raccontare. La vita si stava incaricando di preparare alla ragazza un magnifico avvenire e, quasi come in una favola, il vecchio signore del parco dimostrò di essere davvero un benefico Mago, come lo aveva definito la piccola Teresa, che permise a Marina di seguire la sua innata vocazione di narratrice, rendendola orgogliosa e felice.
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In una vecchia casa ai piedi di una cava, abitava una famiglia molto numerosa che era composta dal padre, dalla madre, i loro sei figli e dal vecchio nonno. Vivevano sobriamente, ma erano felici e contenti, anche si approssimava il momento in cui la vecchia cava che si andava esaurendo non avrebbe più consentito al capo di casa di estrarre il calcare dal quale ricavava il suo magro guadagno. Su questo argomento si accentravano spesso i discorsi del babbo e del nonno che terminavano sempre col rammaricarsi di abitare in quel luogo così lontano dai centri abitati che rendeva più difficile trovare un altro lavoro. Sarebbe stato difficoltoso anche per i bambini, una volta cresciuti! Per ora i tre più grandicelli si sobbarcavano giornalmente i tre chilometri che li separavano dalla scuola che si trovava al paese più vicino. Gli altri tre erano ancora troppo piccoli per seguirli; lo avrebbero fatto appena raggiunta l'età adatta. Per Domenico, che aveva già compiuto i sei anni, il momento si approssimava. Intanto si ingegnava ad aiutare la mamma specialmente stando dietro agli animali che permettevano loro di avere delle entrate straordinarie con la vendita dei loro prodotti. Infatti la lana e il latte delle pecore e le uova del pollaio davano alla mamma la possibilità, di tanto in tanto, di scambiarli con articoli di varia necessità. La brava mamma aveva anche la capacità di saper moltiplicare le magre entrate della famiglia, giacchè, instancabile com'era, riusciva sempre a sopperire alle esigenze di tutti. L'estate era molto bella lassù e i figlioli godevano dell'aria e del sole, ma l'inverno recava tanti disagi, malgrado ciò, tutti loro amavano quella loro dimora così povera e solitaria, ma sempre linda e ordinata. I pensieri dei grandi non riuscivano ad affliggere quei ragazzini abituati al poco e non desiderosi di altro. Cominciarono a comprendere la situazione allorchè il loro papà dovette desistere dallo scavare altro calcare dal momento che in una giornata di grossa fatica non ne potè mettere insieme nemmeno due sacchi. La cava era arida e non avrebbe dato più nulla. Quella sera tutti i fanciulli, aggiunsero, alle preghiere consuete, l'ardente richiesta che il loro papà potesse trovare al più presto un altro lavoro, più di questo essi non potevano fare. Domenico il più sensibile dei se, quella notte non chiuse occhio rimuginando nel suo cervellino tanti pensieri più grandi di lui. Fu ancora più rattristato nei giorni seguenti nel sentire che le ricerche che il padre andava facendo nei paesi vicini erano sempre infruttuose. Il piccolo ne parlava con i suoi amici animali poichè era lui che accudiva sia le pecore che le galline e le bestiole gli erano sempre accanto come se comprendessero i suoi discorsi solitari. Il bambino aveva una sensibilità speciale per curare le bestie tanto che mesi addietro era riuscito a guarire persino un uccello migratore, che, al ritorno dal suo lungo viaggio, cadde affranto proprio accanto alla loro casa perchè s'era spezzata un'ala. Domenico lo curò così amorevolmente, con l'aiuto del nonno, che in breve l'uccello riprese il suo volo, lasciando il piccolo amico con la speranza di vederlo tornare. A questo scopo gli aveva legato ad uno zampino un minuscolo laccetto rosso per poterlo riconoscere. Ma oramai trascorso tanto di quel tempo, non lo aspettava più! E la vita scorreva senza recare nessuna lieta novella, mentre il babbo non desisteva nelle sue ricerche di lavoro. Un giorno, di ritorno da un paese del circondario, l'uomo recò ai suoi famigliari una notizia curiosa. Aveva letto un bando che offriva un posto ben remunerato a colui che fosse stato pronto a fare un lavoro faticoso presso un grande vivaio di piante pure se non fosse stato molto esperto; doveva però dimostrare il suo amore per la natura ed una predisposizione specialmente per i fiori. A questo proposito fra un mese un incaricato sarebbe passato per tutte le case degli aspiranti per rendersi conto se erano tenute in considerazione piante e fiori. Questa condizione metteva subito fuori gara il pover'uomo giacchè per quanto avessero fatto lui e sua moglie, non erano mai stati capaci di far germogliare qualcosa in quella landa arida e pietrosa. C'era soltanto qualche striscia di terriccio giro giro alla casa che bastava appena a far razzolare le galline; per le pecore pensava il nonno a condurle lontano a pascolare. Come sempre Domenico se ne lamentò con le gallinelle. Ma nel parlare si avvide che un uccellino gli svolazzava attorno e aveva proprio un laccio rosso alla zampina... Era proprio il suo amico uccellino, quello da lui curato e guarito! Sperò di vederlo posarsi nei pressi, invece quello si affrettò a volar via sparendo all'orizzonte. L'indomani alla medesima ora lo vide ritornare, ma questa volta vi si approssimò così tanto da fargli cadere in mano un chiccolino dorato che una volta stropicciato mostrò sotto la pellicola, otto segnini scuri. Per tre giorni l'uccellino ripetè il regalo e i semini divennero ventiquattro. La mamma che li prese in consegna li mise a germogliare in una ciotola d'acqua tiepida al riparo dalla luce. Dopo qualche giorno i semini avevano germogliato mostrando sopra ognuno un puntolino verde e al disotto dei filamenti bianchi, simili a una barbetta. Era il momento di interrarli e madre e figlio lo fecero con molta attenzione distribuendoli uno ad uno intorno alla casa nella poca terra che vi era. Per altri semi forse quella terra sarebbe stata insufficiente, ma per quella specie bastò e, assai rapidamente, dopo solo qualche giorno, le piante presero corpo: lunghi steli si alzavano a ricoprire la casa con tante foglioline a forma di cuore e cominciarono a salire come per abbracciare la facciata della casetta che richiesero dei robusti fili di ferro per farveli abbarbicare. Sembrò veramente un miracolo quello che si stava verificando sotto gli occhi attoniti degli abitanti. Non ci volle molto tempo affinchè la porta, le finestre e il tetto fossero incorniciati da rami leggeri con tante belle foglie. In casa si era creata un'atmosfera di vigile attesa per scoprire quei boccioli lunghi affusolati che si andavano moltiplicando a vista d'occhio finchè giunse la visita dell'ispettore tanto temuto. Quando questi giunse gli si presentò una residenza guarnita di campanelle rigogliose rose e viola che, proprio ai primi raggi del sole di quella mattina, erano sbocciate per dare al visitatore la conferma che l'uomo da assumere era la persona più adatta a ricoprire l'incarico di cui si parlava nel bando. Chi meglio di lui avrebbe saputo curare le piante di un vivaio se in quella landa arida aveva saputo offrire una crescita così attraente e florida? I ventiquattro semi donati dall'uccellino riconoscente avevano portata gioia e tranquillità a quell'amabile famigliola. Per un prodigio, l'amico uccellino, aveva saputo scegliere una pianta splendida che sa donare foglie e fiori in quantità anche se la terra è poca, ma che almeno abbia acqua e sole e la sua riproduzione è assicurata all'infinito: la Cosmea. Come si sa amore porta amore e Domenico fu ripagato a dovizia per le cure affettuose prestate al piccolo uccellino dall'ala spezzata.
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LA PIETRA DELLA FELICITA' La cosa importante era non vergognarsi a fare qualsiasi lavoro poiché quando si lavora onestamente e con gioia , si avrà la fortuna di trovare la pietra della felicità. Fin da quando era piccina Dorina aveva ascoltate queste parole che le si erano impresse nella mente al punto che il suo pensiero fisso fu quello di cercare quella pietra magica che l’avrebbe fatta felice.
Ne aveva fatta la sua
meta, ma era convinta che per trovarla dovesse essere guidata da una
fata. Fece un fagottello delle sue poche cose e cominciò il suo cammino sperando che qualcuno le indicasse il percorso giusto. Camminando camminando però, oltre la stanchezza, accusò anche la fame e poi, avvicinandosi la notte, non poteva dormire all'aperto. Così avvicinandosi ad ogni casa chiedeva se avessero bisogno del suo aiuto in cambio di un po' di minestra e di un posto per dormire. Siccome sapeva fare di tutto riceveva volentieri vitto e alloggio, ma nel sentire che andava alla ricerca della pietra della felicità, ognuno le rideva dietro. Ma lei non si scoraggiava e non voleva credere che la nonna le avesse detto una bugia. Pensava invece che la gente non cercasse la pietra per pigrizia e per indifferenza e, forse per questo, di felicità nel mondo ce n'era così poca. Intanto il tempo passava ed ella continuava a lavorare per gli altri non scoraggiandosi mai nella sua ricerca Anzi era così piena di buona volontà che imparava sempre cose nuove Inoltre tutti si meravigliavano che pure stancandola, quei lavori gravosi, non le facevano perdere il buonumore, perché mentre lavava i panni o puliva le stalle o rigovernava le cucine la fanciulla cantava sempre. Sapeva fare il pane, aiutava a raccogliere la frutta matura e a fare le marmellate, a mungere il latte e a custodire i bimbi che le venivano affidati. Però della pietra che andava cercando nessuno ne sapeva nulla. Un giorno una vecchia signora la mandò a chiamare per farsi raccontare la storia della pietra prodigiosa. Compreso l'insegnamento della sua saggia nonna le domandò se voleva entrare nella sua casa per aiutarla e, se ne fosse stata meritevole, avrebbe avuta la pietra tanto cercata perché era proprio custodita nel suo scrigno. Dorina accettò volentieri di aiutare quella buona signora che rassomigliava tanto alla sua nonna e cominciò a lavorare per lei. Passò del tempo e, finalmente un giorno la signora, aprendo lo scrigno ne tirò fuori un anellino con una piccola pietra rossa e scintillante, facendole credere che fosse quella.
Nel donarla alla
fanciulla le spiegò che doveva continuare ad essere brava, onesta e
giudiziosa come le aveva insegnato la nonna altrimenti la pietra avrebbe
perduta la virtù di renderla felice. |