Vita e fantasia

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INDICE:
Come Gesù
- La campionessa - La donatrice - La missione - Le facevamo tanta pena - Un giallo rientrato

Una breve vacanza - Una straniera a RomaUn giorno perduto 


COME  GESU'

 

A poco più di quarant'anni sono diventata nonna.

Questo ha comportato di dovermi occupare di bambini di ogni età e l'ho sempre fatto con grande disponibilità e con smisurato affetto.

Mia madre mi raccontava che, fin da piccola amavo stare con quelli più piccini di me e mi piaceva insegnare loro a parlare e a compitare e il mio desidero era sempre stato quello di fare la "Maestra giardiniera" come si chiamavano allora le insegnanti di scuola materna.

La scuola che avevo iniziato allo scopo di conseguire questo diploma non ebbi modo di portarla a termine perché prima dell'esame e del tirocinio mi sposai.

Però non fu mai vanificato quanto avevo appreso di pedagogia e di puericultura e di questo figli e nipoti se ne sono avvantaggiati.

Amavo più di tutto narrare alle giovani anime le favolette morali che lasciano motivi per meditare sui valori sacri dell'esistenza.

Ricordo con dolcezza le riunioni di festività familiari quando radunavo i piccoli accanto a me nel grande salotto della nostra casa di origine e, mai sazi dei miei racconti, restavano rapiti ad ascoltarmi mentre i loro genitori conversavano o si intrattenevano giocando alle carte o alla tombola. Sono stati quelli, sempre i miei momenti di felicità perché mi permettevano di sentirmi come Gesù quando richiamava i bambini accanto a sé e ognuno reclamava il suo racconto preferito.

Su questa base , poi si passava al giuoco che consisteva nel tirare a sorte un titolo inventato sul quale si costruiva una favola nuova e inedita.  Ed erano storie di animali e di fate che ancora oggi narrano ai loro figli.

Se io davo loro briciole di sapere, essi senza saperlo,mi davano la gioia di assaporare la purezza dei loro occhi ingenui e sinceri.

Ancora oggi quella generazione che è divenuta adulta e responsabile di famiglie proprie mi da la soddisfazione di averle saputo  inculcare quei valori che spesso tanta gente ha dimenticato e che, forse, con le mie favole hanno fatto presa nei loro teneri cuoricini.

 

 

 




LA CAMPIONESSA

Le gambe delle ragazze, allineate sulla corsia di gara vibravano nervose in attesa del via e nulla riusciva a deconcentrarle, neppure l'immensa folla vociante sulle gradinate dello stadio.

Le otto concorrenti, assorte e tese, gareggiavano quel giorno, per il titolo nazionale che avrebbe permesso alla vincitrice di andare alle Olimpiadi.

Il gruppo era formato da atlete non professioniste, ma finaliste di squadre aziendali che dedicavano ogni ora di riposo agli allenamenti.

Una delle più brave era Veronica che si distingueva per l'altezza e per la magrezza eccessiva, era tutta nervi e muscoli.

Lavorava come segretaria nella Ditta paterna che produceva cartoni da imballaggio ed era lei che ne curava anche la pubblicità.

Non potendo disporre di orari regolari, quando si trovava a fare allenamento

restava nelle corsie più a lungo delle colleghe e fin da piccolissima si portava dietro il suo bagaglio di speranze che dandole la carica la portavano sempre in testa alla classifiche e di riconoscimenti ne aveva accumulati parecchi.

Volenti o nolenti, i componenti della sua famiglia avevano dovuto sottostare al suo desiderio di portare avanti il suo hobby perché voleva raggiungere l'ambito traguardo delle Olimpiadi per fregiarsi del titolo di Campionessa perchè sentiva di potercela fare.

Quel giorno si sentiva in gran forma e al via si staccò da terra come per spiccare il volo e, correndo non sentiva neppure il suolo sotto i suoi piedi.

Era quasi certa di avere le ali.

Oltre la capacità che le veniva dall'altissimo grado di preparazione la giovane in questa gara aveva messo un impegno particolare perché voleva ripagare le attenzioni premurose di Marco suo nuovo allenatore che da pochi mesi era subentrato a quello che la seguiva da molti anni e che si era messo in pensione.

Marco aveva subito visto in lei la stoffa della campionessa e seppure bravo e preciso con tutte altre, da Veronica si aspettava grosse soddisfazioni.

Soltanto quattro mesi addietro, il padre della ragazza aveva avuto un grave incidente e la giovane aveva dovuto sostituirlo anche nel lavoro manuale oltre che in quello amministrativo e l'allenamento aveva dovuto, giocoforza, subire

una battuta d'arresto che aveva rischiato l'addio definitivo dello sport.

Rimestare con una pertica, nei grossi calderoni, l'impasto bollente della carta posta a macero e, in seguito, manovrare la pesante pressa e aiutare la confezione delle risme da spedire non era cosa da poco.

E lei, per due mesi, aveva tenuto un ritmo frenetico che, fortunatamente era cessato col ritorno in fabbrica del padre.  Era ancor più dimagrita in quel periodo, rischiando la depressione. Soltanto l'insistenza e la disponibilità del suo allenatore le aveva fatto ritrovare la forma ideale.

Per questo Veronica sentiva per lui molta riconoscenza e ci teneva particolarmente alla vittoria. Ella andava in palestra dopo aver espletato le sue mansioni in fabbrica e avrebbe avuto bisogno di riposo perché non era nelle condizioni ideali per sottoporsi ad ulteriori sforzi e di questo i genitori si dolevano pensando che, la loro figlia, dovesse prendersi più cura di sé stessa. Né lei né il suo allenatore erano d'accordo giacché l'entusiasmo che le attivava l'atletica aveva la forza di galvanizzarla.

La fiducia di Marco nelle sue capacità la inorgogliva, spronandola a fare sempre meglio.

Anche lui era stato campione del salto ad ostacoli ed era un bell'esempio per

le ragazze che erano ligie alla disciplina che aveva imposta.

Dal suo canto, egli imparziale con tutte le allieve era orgoglioso dei risultati ottenuti.

Però faceva affidamento soprattutto sulle lunghe gambe nervose e agili di Veronica che gli lasciavano prevedere la sua idoneità per la partecipazione ai Campionati Mondiali.

Il cuore di Veronica era sgombro da altre passioni oltre quella sportiva e, sempre partecipe nei fidanzamenti e matrimoni di amiche e parentele, ascoltava malvolentieri le esortazioni della madre che l'esortava di lasciare le gare di corsa e correre invece a cercarsi un fidanzato...

Intanto i giri della corsa si susseguivano rapidi e perfetti e le atlete, come angeli volanti, tenevano avvinti gli spettatori che tifavano per l'una o per l'altra, ma la maggioranza scandiva il nome di Veronica, la preferita, che sovrastava le altre in altezza, in stile e in velocità.

Poche briciole di secondi ancora e... con uno spasmo finale, fu proprio lei a tagliare il traguardo e un'ovazione generale la proclamò vincitrice.

Oramai era certa che sarebbe andata alle Olimpiadi!

Inebriata e felice la giovane, col fiato grosso, si comprimeva il seno con le mani,incapace di parlare e la commozione la vinse e pianse lacrime di gioia

cercando con lo sguardo un'unica persona, colui che in parte, era stato l'artefice della sua vittoria e Marco le fu accanto in un abbraccio di congratulazione, sospingendola dolcemente per sottrarla alla pressione di tutti coloro che l'attorniavano...  

 

La Campionessa, circondata dalla folla che l'acclamava,sudata e accaldata, desiderava farsi la doccia e rimettersi in ordine, ma era sospinta, baciata e toccata come un portafortuna mentre numerosi fotoreporter la riprendevano

ridente e sommersa da un gran fascio di fiori.

Era sul bordo della scaletta che conduceva agli spogliatoi e fece per scendere, nel momento che un fotografo le chiedeva un ultimo flash.

Si voltò accondiscendente e, in quell'attimo di distrazione, mise il piede in fallo e... nessuno fu pronto a sorreggerla mentre precipitava lungo la chiocciola della scala.

L'allenatore scese precipitosamente apprestando il primo soccorso, ma l'urlo della infortunata nel rialzarsi l'agghiacciò: Veronica, caduta in malo modo, doveva aver subito un danno serio alla gamba destra dandole un dolore lancinante che le impedì di camminare. Una crisi violenta di pianto sconvolse la povera giovane, incapace di muoversi e che dovette essere ricoverata con urgenza in ospedale.

Purtroppo la diagnosi fu infausta poiché bisognava operare il ginocchio e, dopo, far seguire un lungo periodo di riabilitazione.

La disperazione di colei che aveva messa tutta l'anima per raggiungere quella vittoria fu commovente perché in un solo istante si era distrutto il suo sogno di gloria.

Seguì un lungo periodo dolente e anche noioso durante il quale l'affettuoso Marco le fu vicino consolando la sua pena fisica e morale.

La rincuorava dicendo che, senza bisogno di partecipare alle Olimpiadi, il suo meritato titolo di Campionessa lo avrebbe ricevuto se non su di un podio, nello stesso ospedale con tutti gli onori.

Quell'incidente non fu del tutto malaugurato giacché indirizzò diversamente il futuro della Campionessa perché il suo cuore cominciò a palpitare per un'altra passione e, stavolta, non sportiva allorché fu certa che il trasporto che sentiva per Marco non era solo di riconoscenza dell'allieva verso il maestro, ma qualcosa di più grande e completo che si stava maturando in quel periodo di degenza ospedaliera.

Quotidianamente, infatti, egli le era accanto per confortarla con tante premure e la esortava, soprattutto, a non drammatizzare, accontentandosi del titolo raggiunto e pensando ad un futuro al di fuori dello sport.

Poco a poco, Veronica che sembrava refrattaria alle questioni di cuore, presa com'era sempre stata dal lavoro e dagli allenamenti, sentì una emozione nuova impossessarsi del suo essere e il tumulto che avvertiva ogni qualvolta il suo allenatore la guardava con una certa espressione adorante le rese chiaro che quello era l'uomo del suo destino.

Cominciò a vedere la vita sotto un altro aspetto e si avvide di desiderare ciò che ogni ragazza ricerca: dividere per sempre la propria vita con un essere che l'ama altrettanto e, lei, era certissima che il suo ruolo di moglie lo avrebbe saputo svolgere con lo stesso trasporto e la stessa puntigliosità che aveva messi nel raggiungere il titolo di campionessa.

Per amore di Marco... Campionessa delle mogli voleva essere!

 

FINE

 

 

    

 



LA DONATRICE

 

L'alba stava per sorgere e i lampioni stradali, rendevano lucente l'asfalto intriso di pioggia. il riflesso, sotto quella luce fioca rendeva scivolosa la strada.

Aveva piovuto a dirotto per due giorni e due notti e gli alberi avevano un aspetto desolato e si stavano liberando del loro residuo umido con uno stillicidio continuo che era addirittura piacevole a conclusione della torrida estate.

Lo era, infatti, per la giovane che, a passo svelto, stava percorrendo il viale lungo e solitario mentre respirava a pieni polmoni l'aria mattutina impregnata dell'odore di ozono che il temporale aveva sprigionato.

Le piaceva quel rettilineo che non le era sconosciuto perché abitava nei pressi, ma non lo frequentava spesso dato che costeggiava la strada ferrata e non c'erano abitazioni né negozi ma un susseguirsi di magazzini che a quell'ora avevano le saracinesche serrate.

Vi si riponevano le derrate del vicino mercato e qualche cane ne restava a guardia durante la notte.

I lati della strada, in terra battuta erano ricoperti di erba selvatica e ciuffi di malva e di altea sfioriti rappresentavano l'ultimo spazio campestre della città.

Era prossima al ponte fluviale che immetteva ad un altro quartiere e l'avrebbe raggiunto fra qualche attimo e subito dopo le prime case le avrebbero portato segni di vita.

Non era sua abitudine uscire da sola in ore antelucane, ma quel giorno era stato necessario perché aveva un appuntamento insolito.

Si recava a donare sangue per la prima volta, ma era sua volontà continuare a farlo.

Se l'età glielo avesse consentito, specialmente, dopo la morte accidentale del fratello maggiore, vittima di un incidente stradale, lo avrebbe già fatto spinta dalla consapevolezza che proprio il difficile reperimento di sangue determinò la fine del fratello..

Il tragico avvenimento aveva fatto nascere in lei un acuto desiderio di compiere questo gesto umanitario, ma non poteva farlo ancora essendo minorenne.

Per la verità, non sapeva ancora se il suo sangue fosse idoneo alla donazione perché non aveva fatto gli accertamenti obbligati, ma fra poco anche questo dubbio si sarebbe risolto.

Aveva seguito con particolare interesse le Campagne di Solidarietà che i mass media diffondevano continuamente per sollecitare la cittadinanza a collaborare, ma chi aderiva era ancora un numero esiguo di volontari a fronte della richiesta.

Da quando aveva raggiunta la maggiore età, ci pensava sempre più spesso, ma non riusciva a convincere sua madre diventata iperprotettiva dopo la disgrazia.

Fino a che, due sere prima, un improvviso appello radiofonico, interruppe il programma musicale che stavano ascoltando.

Si richiedeva sangue per un ragazzo in condizioni gravissime, la mamma, ripensando al suo sfortunato figlio che non aveva potuto averlo, non si sentì più di ostacolarla.

Dopo avuti i ragguagli del caso al numero telefonico indicato, Alina ebbe l'appuntamento.

Il suo carattere, gioioso per natura, aveva risentito moltissimo della perdita del fratello al quale era legatissima ed era diventata più riflessiva e meditativa e capiva pure i timori della madre nei suoi riguardi dopo l'accaduto funesto.

Non stava molto bene in quei giorni, la mamma, altrimenti l'avrebbe accompagnata. 

Camminava a passo svelto mentre riassumeva mentalmente gli ultimi anni.

Diplomata maestra, era in graduatoria, da oltre due anni per l'assegnazione di un posto e, qualche supplenza saltuaria non le permetteva di guadagnare abbastanza per iscriversi a qualche corso di specializzazione. Per questo già da un anno aveva cominciato a dare ripetizioni a qualche bambino di famiglie conoscenti sia in casa propria che a domicilio. Le sue lezioni si svolgevano durante il pomeriggio e per qualche materia, nel periodo di esami, anche collettive. Ciò comportava un buon risparmio per le famiglie che, soddisfatte dei risultati si affrettavano a passare parola e, Alina, aveva sempre molti allievi.

Si scosse dai suoi pensieri, intravedendo già l'insegna luminosa del centro trasfusionale, mentre lo stomaco vuoto faceva sentire il suo richiamo non abituato al digiuno forzato.

Una delle abitudini che Alina aveva sempre rispettate era quella di non uscire di casa senza aver fatto colazione, ma, stavolta la consuetudine era stata accantonata.

Avrebbe rimediato appena possibile.

Aveva cominciato a correre per affrettarsi e un cane da dietro una saracinesca, avvertendo il cambio del passo, cominciò a latrare e, come fosse un richiamo, altri cani risposero creando un frastuono che non accennava a smettere, divenendo sempre più rabbioso perché, forse erano incatenati.

Chissà cosa stavano comunicandosi le bestie nel loro linguaggio?

Alina ebbe un brivido di spavento e pensò ad una loro probabile sortita....

Se ciò fosse avvenuto come avrebbe potuto salvarsi dall'aggressione canina?

Sentiva il cuore batterle in gola.. Ma ecco!... era arrivata.

Giunta dinanzi all'ingresso del Centro entrò spavaldamente nel portone spalancato e, da quel momento si sentì pervasa da uno spirito di Donatrice, consapevole di poter avere la possibilità di salvare almeno una vita.

 

FINE


 



LA MISSIONE

 

 

Attraverso l'Opuscolo Missionario a cui sono abbonata ho imparato a conoscere la Missione Cumana dell'Eritrea, ma prima di entrare nello specifico è d'uopo rifarne un poco la storia.

Bisogna parlare del tradimento compiuto dal Capotribù di Dasè di nome Scirfà che insinuatosi nella comunità cattolica con false dimostrazioni di affetto e simpatia ne carpì i favori e la fiducia.

Ma egli, nascostamente si era preventivamente accordato con alcuni sottocapi musulmani, affinché il santone Durnasc che si trovava nel Sudan, fosse richiamato in Ducambia,accanto al villaggio Dasè per invitare tutti i simpatizzanti della Missione a radersi a zero il capo e abbracciare la religione musulmana.

Tuttociò avvenne per ordine governativo e fu imposto ai primi del febbraio 1921.

La popolazione Cumana, formata da gente semplice e primitiva, impaurita dalle continue vessazioni a cui era fatta segno, aderì in buon numero e iniziarono ad ostacolare il lavoro dei Missionari, la cui Opera era stata accolta inizialmente con molto favore e gratitudine,

Trascorsero quindici anni in queste condizioni di contrasto che, per le monache e i frati cappuccini, furono assai difficili e, solo per la loro incrollabile fede continuarono a prodigarsi senza badare alle immense difficoltà.

Documentata sulla situazione chiesi al Segretariato dell'Opera Missionaria il permesso di poter andare in visita in quelle terre, garantendo che mi sarei fatta promotrice di una campagna di assistenza che avrebbe aiutato tangibilmente i religiosi e, specialmente i bambini.più poveri e malati.

Mi diedi da fare presso associazioni e istituti di beneficenza e, anche con l'aiuto di privati, riuscii a raggranellare denaro, medicinali, indumenti e generi di conforto

M'imbarcai con molta emozione e, dopo una ottima traversata, toccai il suolo di quella parte di mondo arida e desolata. Quando giunsi a Ducambia, mi salutò un sole sfolgorante e anche il cielo turchino e limpidissimo parve abbracciarmi.

Senza perdere tempo nella contemplazione della natura, a bordo di una "campagnola" di proprietà dell'albergo ove avevo preso alloggio, mi feci condurre al palazzetto delle autorità per avere i permessi e i mezzi pratici per trasportare i "colli" fino alla Missione.

Dalle autorità, fui accolta con sommaria cordialità, ma qualche sorriso mi fu indirizzato allorché si evidenziò che gli aiuti erano sostanziosi e di varia natura e, soprattutto, gratis.

Si organizzò la Carovana degli imballaggi ben etichettati e riparati dal caldo per non rovinare le derrate alimentari e i medicinali.

Vidi da lungi tre modeste costruzioni bianche e affiancate con un recinto sommario e notai che quella centrale un poco più alta era sormontata da una croce, certamente quella era la chiesa.

L'apertura del recinto non era così grande da far passare i due automezzi carichi e neppure la campagnola cosicché decisi di scendere da sola, precedendo i i doni.

Lo spiazzo disadorno dinanzi alle costruzioni, pure essendo di prima mattina, era già pieno di cumani in attesa: donne con bimbi in braccio soprattutto, ma anche vecchi appoggiati a bastoni e giovani con gli arti fasciati...

Mi diressi verso il portoncino già aperto del fabbricato di destra, di sicuro l'infermeria poiché la fila in attesa era la più numerosa e le bende che vedevo denotavano che avevano bisogno di medicature.

Il cartello che vidi entrando me lo confermò : difatti vidi scritto AMBULATORIO e non solo in italiano, ma in inglese e in lingua locale.. mentre a lato sopra un semplice arco un'altra scritta portava scritto VACCINAZIONI e la fila in attesa era esclusivamente di ragazzini spauriti che che spalancavano i loro profondi occhi dolenti su tutto e su tutti e, in quel momento specialmente sulla mia persona vestita all'europea.

Entrando nell'ambulatorio mi si fecero incontro tre medici in camice bianco una donna e due uomini che salutai a voce essendo le loro mani ricoperte di guanti di lattice. Seppi poi che erano una monaca e due frati che tutti chiamavano Dottori. Altre due suore erano addette alle vaccinazioni

Seppure semplici e disadorni, gli ambienti erano puliti e vi aleggiava odore di creolina.

I Dottori mi avevano indirizzata alla Chiesa dove avrei trovato il religioso responsabile, il Capo Missionario, dissero. Cosa che feci immediatamente e nel frattempo gli uomini dei camion stavano scaricando contenitori e sacchi che ammucchiarono a un angolo dello spiazzo su di un grande tavolo all'ombra di un albero immenso, avrebbero pensato poi le suore a smistare i bagagli secondo i contenuti. Tutto sommato i missionari avevano fatto del loro meglio per rendere quel luogo abbastanza confortevole e protetto e seppi pure che le stesse costruzioni erano state opera delle suore che impastando mattoni e calcina avevano eretto la chiesa, l'ambulatorio e il loro alloggio.

Come primo colpo d'occhio ne fui contenta.
Parlando, poco dopo col Capo Missionario, seppi che la mia visita era stata preannunziata loro con un dispaccio e, profondendosi in ringraziamenti disse che loro vivevano di carità e che la Provvidenza giungeva sempre nel momento che c'era più necessità.Quel giorno ad esempio erano finiti il latte in polvere, la farina e l'alcool denaturato e le bende sterilizzate. Cose che facevano parte dei nuovi arrivi: "Iddio è grande e sa come provvedere alle sue creature" con questa frase ispirata l'anziano Missionario dalla lunga barba bianca mi congedò, dandomi appuntamento al refettorio dove avrei condiviso il loro frugale pasto. Mi guardavo attorno con molta attenzione e mi rendevo conto che i sei Missionari che vivevano in quel luogo facevano miracoli: t re donne e tre uomini eccezionali, votati al sacrificio e alla solidarietà e poiché tutto quello che vi era in quella piccola oasi proveniva da lasciti, doni improvvisi e sporadiche elargizioni della Casa Madre, veniva da pensare che spesso il miracolo dei pani e dei pesci si ripeteva attraverso loro.

Avevo rimandato autisti e mezzi come pure l'accompagnatore dell'albergo che pregai però di tornare a riprendermi nella tarda serata poichè le suore e i bambini mi volevano dedicare una piccola festicciola di ringraziamento ed io non intendevo disertarla.

Semplicità, ordine e disciplina sembrava essere il motto della Missione.

Meno ordine trovai nel visitare l'aula scolastica adiacente alla sacrestia della chiesa perché vi s'insegnava di tutto e senza stacco per età: dalla cultura generale all'artigianato, indifferentemente ai maschi e alle bambine per preparare gli adolescenti a qualche futuro lavoro.

La dentro si studiava e si lavorava in allegria ed era allegro anche il locale che tinteggiato di azzurro, aveva le pareti ricoperte di stampe di tutto il mondo e quadretti con soggetti vari e gli alunni imparavano facilmente nomi di luoghi, di animali e di piante

La piccola suora/ insegnante, artefice di questo metodo didattico, mi disse arrossendo che prima di prendere i voti aveva frequentata una scuola d'arte e poi...amava i bambini ed era, ancora lei, quella che li vaccinava..

La sensazione riportata da quella esauriente giornata in Missione fu di profondo rispetto per l'umiltà che in silenzio e in ombra riesce a produrre cose grandiose e coloro che esplicavano le loro mansioni, scelte e non imposte, rivelavano un senso di cristianità fra i più puri.

Nel tardo pomeriggio, capii dal brusio che veniva dalla "scuola che mi si voleva festeggiare a sorpresa come fa la mamma quando prepara i doni della Befana ed io dovevo fingere di non accorgermi di nulla prima dell'evento.

Che commozione hanno saputo suscitarmi gli sguardi di quella infanzia povera e abbandonata!

Mi stavo informando su tutto poiché nel mio prossimo articolo intendevo informare profani e classe medica su i dati statistici più rilevanti circa l'uso di medicinali più recenti che stentavano ad arrivare in posti remoti come sono le Missioni a causa degli alti costi. Era chiaro che bisognava renderli più contenuti oppure produrli con tariffari diversi ad uso esclusivo del terzo mondo  

Mi ero premurata di portare un forte quantitativo di disinfettante intestinale perché laggiù il colera è sempre in agguato e fui contenta aggiornarmi sulla recente statistica a proposito di questo farmaco che, sperimentato durante l'ultima epidemia di dissenteria era stato in grado di curare tutti alla perfezione e rapidamente e non vi era stato neppure un decesso. Constatai con sorpresa che quasi tutti i frequentatori della Missione parlassero e comprendessero molte lingue e molti dialetti europei e mi fu facile la spiegazione dato che i Missionari vi si alternano per periodi più o meno lunghi e ognuno di essi porta il suo modo di parlare che, specialmente i giovani apprendono e fanno proprio.

Al tramonto, dopo la funzione religiosa con un breve discorso del Capo Missionario, giunse l'ora del "Ricevimento" e fui introdotta nell'aula scolastica che si presentava in un modo completamente diverso da come l'avevo vista al mattino perché era diventata un bellissimo teatrino.

Due tavoli sovrapposti ricoperti con un telo rosso fungevano da palcoscenico, due lenzuoli increspati da sipario e appesi tutt'intorno una quantità di lampioncini cinesi rendevano una visione fiabesca. intanto i bambini di ogni età intonavano le loro canzoncine.

Commossa, mi unii al coro finale distribuendo a tutti caramelle e biscottini.

In tutta coscienza mi sento di dire che quando si familiarizza senza remore e preconcetti ci si dimentica del colore della pelle e si capisce quanto sia effimero il contrasto razziale che l'umanità ha ovunque le stesse necessità e i medesimi sentimenti

Persino quella minuscola comunità ha saputo donarmi quel calore umano di simpatia e di comunicativa che, a volte, è difficile trovare in un consanguineo e quando la semplicità e la schiettezza si esprimono d'impulso si capisce che siamo tutti uguali..

L'oscurità caduta d'improvviso mi spinse ad accomiatarmi e salii nella campagnola che nel frattempo era venuta a prelevarmi

Mentre mi allontanavo mi voltai ancora una volta e,la Missione che si allontanava dal mio sguardo, mi rimandò, come un ultimo saluto, il tremolio luccicante della Croce illuminata in mio onore.     

 

FINE

 

 



LE FACEVAMO TANTA PENA

La conoscevo appena nonostante fossimo dirimpettaie con la differenza che lei abitava un piano più alto in modo che poteva vedere entro il tinello della nostra abitazione dove si svolgeva buona parte della nostra vita familiare e per maggiore visibilità, tenevamo la finestra sempre spalancata.
Lei no invece. Le sue persiane erano sempre accostate.
Era sui quarant'anni e aveva un solo figlio della stessa età del mio primogenito ed entrambi erano nella stessa classe di terza media nell' Istituto dei Salesiani.
Più volte mi ero accorta che dietro le sue persiane accostate guardava dalla nostra parte. Ma io che ero sempre indaffarata non ci badavo troppo e non avevo tempo per fare altrettanto.
A differenza di lei io avevo una famiglia numerosa: quattro figli piccoli, mio marito e mio suocero e tutti i lavori di casa, leggeri e pesanti gravavano su di me e senza aiuto alcuno. La incrociavo talvolta al mercato e mi accorgevo che trattava tutti con molta confidenza e familiarità non trattenendo le sue risate sguaiate.
Fra noi però non vi era mai stato neppure il saluto e non avevamo mai avuto motivo per parlarci.
Un certo giorno ci trovammo a scegliere delle mele fianco a fianco quando mi sentii interpellare a bruciapelo con disinvoltura: "Scusi signora, lei è la madre di Sergio vero?" Prima che avessi tempo di rispondere continuò: "Si si, ne sono sicura perché la vedo sempre dalla finestra accanto a Sergio che fa i compiti".
Interrompendo il suo fiume di parole le risposi sorpresa: Si è vero,siamo di fronte, anch'io la vedo qualche volta e poi Sergio mi ha detto che va a scuola con suo figlio".
Andavo di fretta perché avevo ancora altre cose da acquistare perciò,parlando non interruppi la scelta delle mele.
Lei ne approfittò per proseguire: "Sa cosa volevo dirle... da tanto tempo...".
Dica pure, la incoraggiai, mentre alzavo il capo, avvertendo il suo tono beffardo che non aveva bisogno d'incoraggiamento.
"Vorrei tanto sapere perché lei non fa mai scendere suo figlio a giocare col mio sulla strada? Lei deve essere di quelle madri gelose che vuole tenersi sempre il figlio accanto".
Finì di parlare ridendo fortemente mentre io avvampai alle sue parole e, seppure sorpresa dall'appunto fattomi, non rinunziai a risponderle: " A parte il fatto che i ragazzi hanno sempre molti compiti da svolgere e non hanno mai troppo tempo da perdere, Sergio quando può frequenta l'Oratorio della scuola e poi, tiene un poco a bada i fratellini che sono tre e tutti più piccoli di lui. Caso mai è proprio il suo bambino che non frequenta i compagni di scuola perché Sergio non lo vede altro che in classe."
Nell'ascoltarmi scuoteva la testa poco convinta, riprendendo subito la parola: " Sarà come lei dice, ma io vedo Sergio sempre curvo sul tavolo a scrivere, mentre il mio in quattro e quattr'otto sbriga i compiti e se ne esce a divertirsi.
Come faccio del resto io che appena ho messo a posto la cucina vado con qualche amica a spasso o al cinema o a sedermi al bar. E quando rientro vedo suo figlio come l'ho lasciato sempre a studiare... Mi fa pena ! Io se non esco tutti i giorni mi sento male! E pure lei, scusi, non va mai fuori! Quando la respira un po' d'aria aperta? Lasci perdere la casa e se ne vada a spasso."
Mi stavo innervosendo nell'ascoltare tante idiozie che poi erano intrusioni nella nostra vita.Quel tono commiserevole mi dette fastidio; era vero che facevamo una vita ritirata, ma io non dovevo renderne conto a lei.
Che ne sapeva lei del nostro menage ? Infine c'erano le lunghe traduzioni di latino che i Maestri Salesiani affibbiavano ai ragazzi che richiedevano tempo e Sergio, era diligente e pignolo e fino a che non aveva eseguito tutto non riponeva libri e quaderni. "Ma suo figlio non li fa i compiti?" Non mi trattenni e glielo dissi, però la donna mi rigirò il discorso in modo ironico: "Certo che li fa, ma il mio Angelo con una mano mangia e con l'altra scrive ed è così svelto che se li sbriga in due minuti e fino a sera non lo vedo più... Si vede che il suo è un lumacone!"
Rimasi allibita da tanta impudenza e sbottai: "Lumacone? Se è il primo della classe e il suo nome è sempre sull'Albo d'onore."
Rise ancora una volta e forse per rimediare alla sua gaffe e per rabbonirmi vedendo il mio evidente risentimento, riprese: "Pure lei che è tanto pallida avrebbe bisogno di uscire, non si vede mai a passeggio. Dico la verità, mi fate tutti tanta pena!"
A quel punto mi parve giusto chiarire alcune cose: "Guardi che non c'è da commiserare nulla giacché Sergio si prende più di un intervallo in cui fa merenda coi fratelli o guarda il suo programma in tivù e dato che ha un temperamento più calmo,preferisce questi svaghi che andare a fare il monello per la strada. Come fa lei a stare tranquilla se non sa come suo figlio occupa i pomeriggi? Ma ci pensa che fra poco avranno gli esami? Mio figlio queste cose le pensa da solo e nessuno lo obbliga a fare lo sgobbone...fa solo ciò che deve!"
Dopo essermi sfogata mi sentivo meglio e mi girai verso il fruttivendolo per pagare la frutta credendo che il colloquio fosse terminato,invece,dietro le spalle sentii ancora la sua voce che allontanandosi continuava: "Si si,ma a fine anno saranno tutti promossi e alla salute giova più l'aria pura che quella dei libri".
Rimasi a lungo corrucciata da questo sgradito incontro e senza raccontarlo al mio bambino, feci cadere il discorso sul suoi compagni di classe e finimmo col parlare di Angelo.
Seppi così che non andava affatto bene in alcune materie e quando prendeva un brutto voto, invece di mortificarsi e rimediare, ci rideva sopra senza darsi pena di applicarsi un po' di più.
Lo vedevano tutti che i suoi libri non erano mai stati aperti perché erano sempre nuovi.
Suo padre manovale, s'infuriava solo se non lo trovava in casa a sera quando rientrava dal lavoro. La madre aveva piacere se stava fuori, così la casa era sempre in ordine.
E di ciò che faceva Angelo nessuno si curava granché.
"Pensa mamma che la mattina è il primo ad arrivare a scuola perché deve copiare i compiti e, qualche volta copia pure quelli che sono sbagliati e allora i professori se ne accorgono e i brutti voti fioccano per lui e per quello che glieli ha fatti copiare."
Appresi con raccapriccio quanto fosse abituato male quel povero ragazzino e non era colpa sua se, senza una guida, faceva tutto quello che gli saltava in mente. E sono molti i ragazzetti che prendono strade sbagliate proprio perché nessuno li controlla e li guida.
Persino la società non ha mezzi adeguati per risolvere i gravi problemi di molta gioventù sbandata, sola e disadattata, figurarsi come può entrare in certi ambiti familiari che corrono su binari sbagliati senza che nessuno li segnali?
Nei giorni seguenti il mio pensiero correva spesso verso quella famiglia sbagliata e guardavo spesso verso quella finestra senza vita. Intanto erano giunte le prime giornate calde e gli esami erano vicini.
Un giorno Sergio ritornò da scuola emozionatissimo recandoci una tremenda notizia che ci fece sobbalzare il cuore: la sera avanti il suo compagno Angelo era annegato nel fiume dove si stava bagnando insieme ai compagni di marachelle. Chissà quante altre volte vi si erano recati quei ragazzi che nessuno controllava?
A detta degli amici egli si era spinto troppo al largo ed era sparito in un attimo dinanzi ai loro occhi. Uno di loro aveva riportato a notte le sue scarpe e i suoi indumenti.
I fiumaroli stavano ancora ricercandone il corpo risucchiato da un vortice. La tragica notizia fu riportata dai giornali e l'eco dolorosa rimase a lungo in quanti avevano conosciuto quel ragazzino dallo spavaldo ciuffo nero che con la sua banda scorazzava per la strada fino a tarda sera.
Quanto male aveva impiegato i suoi pochi anni!
La finestra dirimpetto restò a lungo serrata perché i genitori si erano trasferiti momentaneamente presso parenti fuori città.
Intanto mio figlio aveva superati brillantemente gli esami di terza media e una sera, mentre stavo approntando la cena udimmo una scampanellata insolita, mi affrettai ad aprire e, con stupore vidi sulla soglia la madre di Angelo pallida, smagrita e vestita a lutto stentai a riconoscerla e l'abbracciai di slancio mentre la invitavo ad entrare.
Non sembrava più la stessa donna quella che con fare dimesso si sedette nella poltrona che le offrii, non c'era più traccia di trucco sul suo viso e pure la chioma corvina era sbiancata. La presentai a mio marito che dopo averle espresso le condoglianze aggiunse che se avesse avuto bisogno di qualcosa eravamo pronti ad aiutarla. A quelle parole abbozzò un mesto sorriso dicendo che era proprio venuta per una richiesta.
Desiderava la foto di gruppo della classe dell'anno precedente dove sicuramente c'era ritratto anche il suo Angelo perché voleva ricavarne i "Santini ricordo" alla sua memoria.
Intanto diceva; "Non volli comprarla quella foto e lui me lo aveva chiesto, ma mi sembrò una cosa inutile...allora".
Mentre parlava, Sergio si era affrettato a prendere il nostro album di famiglia e nello sfogliarlo per trovare la foto la povera madre disse spontaneamente:" Come siete ordinati voi, io ero sicura di trovarla qui!" Intanto la pagina cercata era dinanzi a noi e ci mostrava il gruppo di bambini e il viso dello scomparso sembrò sorriderci.
Sergio la staccò dall'album e gliela consegnò ed ella ci schioccò sopra un bacio accorato. Fu un momento di commozione intensa che ci accomunò al suo grande dolore e gli occhi di tutti si riempirono di lacrime.
Posi fraternamente un braccio attorno alle sue spalle e lei piangente si rivolse proprio a me con intenzione: "Se avessi fatto come lei, signora, mio figlio sarebbe ancora vivo!"
Non mi uscì la voce per risponderle perché avevo il cuore gonfio per la pena che sentivo. Non potei fare a meno di pensare che solo poco tempo prima era lei a sentire pena per noi.   

FINE

 

 



UN GIALLO RIENTRATO

L'operato di uno zelante poliziotto è alla base di questo racconto.
L'arrivo di un cartoncino delle Poste italiane a mio nome e al mio domicilio con l'invito a presentarmi per accertamenti nel giorno e nell'ora in calce stabiliti, mi mise in grande curiosità...
Come sua abitudine mio marito ci aveva fatto sopra mille congetture mettendo in risalto la mia distrazione che qualche volta mi aveva fatto dimenticare numero civico o cap su qualche missiva. Lui era certo che gli accertamenti riguardavano qualche lettera tornata indietro.
Piuttosto riluttante mi accompagnò all'appuntamento.
All'ufficio Postale, presentammo il biglietto ad un usciere che, data una sbirciatina a ciò che vi era scritto c'invitò ad attendere sulla panca dell'ingresso dove già erano altre persone.
L'attesa fu quella snervante di ogni ufficio pubblico, fatte proprio per innervosire.
Giunto il nostro turno fummo inoltrati in una piccola stanza con tre scrivanie e tre differenti impiegati:Una giovane signora che al momento era al telefono, un giovane apprendista che era alle prese con la fotocopiatrice e un giovanottone biondo in divisa che immediatamente posò i suoi occhi azzurri su di noi scrutandoci attentamente prima di invitarci con un cenno della mano a sedere nelle due seggiole davanti al suo scrittoio.
Prese quindi il nostro cartoncino /invito e lo rigirò più volte fra le mani, lo appoggio quindi sulla cartella che aveva aperta davanti,incrociò le braccia e prese a guardarci alternativamente. Pochi attimi di silenzio,ma io fremevo perché, conoscendo l'impazienza di mio marito, mi aspettavo un suo scatto che giunse puntuale: "Noi siamo qua che c'è da accertare? Che deve chiedere a mia moglie? Da questo preambolo l'ufficiale postale comprese che l'autrice del misfatto ero io e fu verso di me che diresse la sua attenzione.
Forse a causa del mio viso sorridente e pacifico di signora di mezza età, mi parve un pò imbarazzato per quanto doveva dirmi. "Vede cara signora, mi deve perdonare, ma io sono incaricato di far luce sulla sua corrispondenza di tutto il corrente anno".
Pur con aria sorpresa, fui pronta a rispondere: "Si, va bene, ma che c'è da chiarire? Non ho affrancato a dovere le buste? Oppure ho sbagliato numeri civici? O ci sono multe da pagare?"
Mi venne persino da ridere perché la situazione mi sembrava persino comica e dentro di me sapevo il rovello del mio compagno che ancora non sapeva di cosa ero imputata.
Lui sempre sospettoso e pessimista non si divertiva per nulla, subodorando chissà quali catastrofiche irregolarità compiute da sua moglie.
Ma io avevo la coscienza tranquilla e nessun motivo per stare in allarme.
Il giovanotto riprese a parlare: " No no, nulla di ciò che ha detto. Intanto mi dia le sue generalità nel mentre elencavo i miei dati anagrafici, tolsi dalla borsetta la Tessera Postale che per quell'ufficio, era tenuta più in considerazione della Carta d'Identità.
Nel vederla, il giovanotto, si sentì disarmato e n mi guardò con più benevolenza e sembrò cercare le parole giuste per non offendermi: " Sa di questi tempi bisogna diffidare delle cose poco chiare e noi abbiamo l'obbligo d'indagare e chiarire se qualche corrispondenza crea dubbi."
Assentii benevolmente per toglierlo dall'imbarazzo: "Mi rendo perfettamente conto di ciò e, come cittadina, mi compiaccio della vostra solerzia, ma la mia corrispondenza come ha potuto destare sospetti? Fu con un sospirò che cercò di spiegarsi nel mentre consultava alcuni appunti: " Il fatto è che al suo nome e indirizzo si sono associati parecchi grossi plichi in uscita e pochi in entrata con un nome che ci da da pensare: Chi è Edmund Wilson che lei pone nei plichi raccomandati ? Per conto di chi invia?" Con queste ultime parole mi fu chiaro l'equivoco, divenendo persino allegra.
E ridendo diedi uno sguardo circolare alla stanza mentre anche l'aria pareva in attesa della risposta La signora della prima scrivania aveva gli occhi fissi su di me. Il ragazzo altrettanto e aveva sospese pure le fotocopie. Mi dissi che ero stata presa per una spia internazionale e mio marito starà pensando che quello è il nome di un amante... Che ridere! Proprio a me doveva capitare! Io che scrivo racconti, favole e romanzi, mi trovavo protagonista di un giallo che meritava proprio di essere preso in considerazione come trama di un film.
La situazione era stuzzicante, ma non potevo procrastinare oltre la spiegazione del giallo e dissi: "Non sa che gli artisti usano pseudonimi? E si da il caso che io sia una scrittrice e questo è il mio nome d'arte e sono iscritta regolarmente alla Società degli Autori. Si vede però che lo schedario non è stato aggiornato e lo pseudonimo non vi figura ancora e ancor meglio, i vostri accertamenti sulla mia persona, non si sono spinti fin là".
L'ufficiale evidentemente sorpreso non si aspettava la mia spiegazione e mi lasciava parlare cosicché proseguii imperterrita: "Forse è il nome maschile, per di più straniero, che vi ha portato fuori strada? E anche di questa scelta ne spiego la ragione. Oggi per sfondare in campo artistico bisogna circondarsi di un po' di mistero e questo lo saprà anche lei?"
Il mio lungo parlare aveva fatto cambiare più volte espressione al suo volto mentre il suo atteggiamento divenne meno autoritario. Forse subentrava il timore di essere redarguito dai superiori per essere stato superficiale nelle ricerche sulla mia persona e non conosceva ancora le mie intenzioni perché sarebbe stato mio diritto fare rapporto al Ministero circa l'accaduto.
Col viso in fiamme, allungò l'occhio verso i colleghi per cercarvi solidarietà, ma ciascuno aveva ripreso le proprie occupazioni estraniandosi completamente dal nostro dialogo.
Non gli rimase che compiere quanto doveva, mettendomi al corrente che la mia posta incriminata giaceva sequestrata nella stanza accanto e potevo riprendermela.
Fino allora avevo presa la cosa con serenità, ma nel sentire che manoscritti e racconti e poesie non erano stati recapitati dove io li avevo inviati mi fece proprio arrabbiare ed espressi a voce più alta il mio disappunto: "Avete tutto qui ?E vado scrivendo da un anno? Sapete cosa significa questo per me ? Alcuni manoscritti avevano date precise di presentazione presso Concorsi e Editori. Tempo, carta e soldi buttati! Chi mi ripaga tutto questo?"
Per il fatto di aver depositato lo pseudonimo quell'anno avevo deciso d'inviare con quel nome e il mio indirizzo molte mie opere proprio sperando che nome straniero e maschile avesse incuriosito favorevolmente Editori e Giurie. Rabbuiata da questo pensiero volli dire un ultima cosa nel mentre il mio accusatore mi mostrava contrito la mole dei miei scritti che occupavano parecchi scaffali di una stanza adiacente. "Ma non potevate aprirli questi pacchi ? Specie le lettere che contengono poesie e parole di conforto a persone che amano il mio modo di scrivere e che vogliono essere confortate da me. Avete defraudato anche costoro."
Solo dinanzi a quegli scaffali mi resi conto di quanto avessi scritto in quell'anno.
Mio Dio quanta carta sprecata!
Le goffe scuse dell' impiegato non le sentivo neppure, ma capii che, colpito dalle mie ultime parole si sarebbe incaricato di aggiornare almeno le lettere inviandole ai destinatari e, al mio domicilio avrebbe fatto recapitare da un commesso tutto ciò che mi apparteneva.
E prima di congedarmi mi chiese l'autografo con tanto di pseudonimo.
Questo fu per me un ottimo auspicio per la mia carriera di scrittrice.

FINE

 



UNA BREVE VACANZA

 

L'aria fresca e frizzante mi dava un brivido eppure piacevole dopo l'afa asfissiante dei giorni precedenti.

Mi aggiustai sulle spalle, con la mano, il leggero scialle traforato che avevo sferruzzato durante quei giorni mentre con l'altra nano mi richiudevo dietro il portoncino del villino cercando di non fare troppo rumore. 

Dovevo raggiungere mio marito che in macchina ai stava aspettando sul viale oltre il cancello.

Per sbrigarmi avevo infilato un abito leggero, forse troppo leggero, ma  non credevo facesse così fresco; oramai dovevo rassegnarmi, la valigia era già nel  portabagagli ed anche volendo non avrei più potuto cambiarmi. Ero infreddolita e di cattivo umore perché ritenevo che si poteva benissimo partire in un 'ora più comoda, ma le decisioni di mio marito sono irrevocabili. La notte non avevo potuto prendere sonno perché disturbata da un vento violento e afoso di scirocco che scatenatosi come una furia sembrava voler schiantare gli alberi del piccolo giardino intorno alla casa.
Questo pensiero e il sibilare del ciclone mi avevano fatto contare tutte le ore ed ora mi sentivo spossata.   
Appena fuori però mi accorsi che i robusti abeti marini avevano saputo

resistere alle sferzate e pur grondanti acqua erano ancora in piedi.

In quel momento di depressione pensai che l'estate poteva dirsi finita, eppure i girasoli, i gerani, le canne indiche e i campanelli non erano ancora sbocciati anche se le loro corolle turgide sembravano prossime a schiudersi; ora,senza sole, col vento furioso che si era aggiunto all'acqua che per quattro notti consecutive l'avevano intrisi, rischiavano di marcire prima di aprirsi. Sarebbe stato un vero peccato!
Li avevo piantati proprio io quei fiori nei prima giorni di primavera... ed  ora quel risultato mi avviliva. Con queste idee nella testa percorsi il breve vialetto che conduceva al cancello sulla strada, la copertura di edera e madreselva lo rendevano piuttosto buio e nella fioca luce del mattino gli alberi intorno facevano tristezza. Sentivo il motore della Simca già avviato e la voce nervosa di mio marito che mi sollecitava:"Fa presto che se ricomincia a piovere ci vorrà il doppio del tempo ad arrivare a casa... avremmo dovuto partire un'ora prima, adesso troveremo la strada ingombra da tutte le macchine dei pendolari... e  poi la macchina che è stata quattro giorni ferma sotto l'acqua chissà che non mi combini qualche brutto scherzo...".
Sospirai mentre mi accomodavo al mio posto.  Le conoscevo le previsioni catastrofiche che mi  elencava ogni volta che si prendeva la macchina, ma fortunatamente si rivelavano sempre errate. 

Preferii non ribattere e, mentre partivamo rapidamente, chiusi il vetro dalla mia parte e, rannicchiandomi tutta, cercai di riscaldarmi un poco.

Avevamo avuta la sfortuna di scontrarci con un tempo pessimo che alternava continuamente pioggia, vento e afa tanto da costringerci ad interrompere il soggiorno presso nostra figlia dopo una sola settimana,

Quella era una temperatura più autunnale che estiva e il mare non avevamo potuto goderlo affatto giacché la spiaggia era impraticabile.

Per me questo problema non esisteva  che, anzi, non avendo l'obbligo della vita di spiaggia, potevo dedicarmi esclusivamente ai nipotini.

Avevo fatto così per tutta la settimana di maltempo e, se fossi dovuta restare ancora,avrei continuato nello stesso modo.

Amo molto il mare, finché resta una distesa azzurra, calma e solitaria e pur quando si trasforma in mostro infuriato scosso da marosi, ma solo per ammirarne la maestosità.

Ma l'essere costretta a dividere la spiaggia con una moltitudine di bagnanti nudi, sudati, schiamazzanti e invadenti, m'innervosisce al punto di arrivare ad odiarlo unitamente alla sabbia che ti arriva da tutte le parti.

Molto meglio godere in riposo l'aria marina dal vasto capanno eretto a mo' di "tucul" africano al centro del grande giardino che circonda la villetta a due piani bianca e ridente.

Veramente distensivo, starsene a conversare con parenti e amici seduti sui tronchetti di legno all'intorno del grande tavolo di quercia e respirando il caratteristico odore di abeti e pitosfori, che l'attorniano come in un abbraccio protettivo riparando anche dagli sguardi estranei.

Il periodo dedicato a questa vacanza era, quasi sempre, di una ventina di giorni estivi, ma questa volta il clima non propizio ci cacciava anzitempo.

Me ne dispiacevo parecchio pensando alle cose che avevo in mente di fare e che mi ero programmata da tempo.

Innanzitutto godermi mia figlia e i suoi due piccoli figli che in città non avevo modo di vedere spesso e poi avevo dei lavori a maglia per loro da concludere che mi sarebbe stato più agevole compiere con i bambini accanto.

Difatti i piccoli mi erano sempre vicini mentre lavoravo perché,nel contempo, li tenevo buoni raccontando favole e storie che divertivano anche i loro amichetti che via via ingrossavano il gruppo.

Tutti i bambini erano contenti della parentesi di pioggia giacché si erano già stancati dei troppi bagni e dei giochi con la sabbia che duravano oramai da circa due mesi.

In quella settimana con la nonna, avevano riscoperto favole e indovinelli, giochi da tavolo e merendine. Eh già! Le merendine!

Questa nonna che qualcuno prendeva in giro per l'importanza che dava alle cose infantili perché non disdegnava di unirsi ai loro passatempi, anzi, ne inventava sempre di nuovi per tenerli buoni, allegri e contenti.

Così, per le merendine, appunto!

Ogni giorno le mie modeste imprese dolciarie, riscuotevano applausi non solo dei nipoti, ma anche da bimbi nuovi ...assaggiatori prima e, poi, abituali frequentatori del nostro giardino poiché l'odore di vaniglia e cannella che usavo, uniti a quello delle fresche bibite con la menta del prato, attiravano pure quei piccoli che invece del sole della  spiaggia preferivano dirottare verso il profumo del nostro capanno.

Ed io, lì, a preparare vassoi di tortelli e frittelle che li rendevano felici  specie quelli che avevano contribuito alla cerca di pinoli ed erbette profumate nel bosco accanto.

In quei giorni è sembrato più d'essere in montagna che al mare seppure giungeva fino a noi il suo rumoreggiare.

Ed era proprio questo ad amareggiare il nonno, fanatico del nuoto e della  elioterapia e che non sapeva occupare il tempo altro che nella lettura dei quotidiani, diventando nervosissimo per la forzata inattività.

L'alzataccia mattutina era derivata dalla fretta di ritornarsene in città vista la inutilità, per lui, di rimanere colà se non poteva stare sulla spiaggia e tutti quei ragazzini nel capanno, lo infastidivano e non condivideva affatto il mio benessere.

Ed eccoci così in viaggio verso Roma.

 

Prima di svoltare l'angolo del vialetto gettai un ultimo sguardo verso le serrande abbassate a proteggere il sonno di coloro che restavano e che avevamo trascorso una notte insonne per il fragore del temporale, unito al dispiacere del nostro distacco. Solo adesso,forse, dormivano sodo pertanto ci eravamo salutati la sera prima ed eravamo usciti senza far troppo rumore.

Mi accomodai ancora meglio nel sedile rovesciando il capo sulla spalliera, lasciando vagare i pensieri che tornarono alla sera precedente e rividi tutti noi attorno al tavolo  del tinello per una cena che fu più lunga del solito per mitigare il disappunto dei bambini nell'apprendere che i nonni erano decisi a partire. Il maschietto avrebbe voluto addirittura venire con noi e si calmò  soltanto alla promessa che saremmo ritornati al più presto, mentre fuori tuoni e lampi si susseguivano incessantemente.            

Con un sospiro deviai le mie fantasticherie verso il lavoro che mi aspettava una volta giunta a casa:- chissà se anche sul nostro terrazzo la  pioggia aveva fatto danni? E seppure avessi sistemato ben le mie piante, chissà se vento e pioggia fossero arrivati fino a loro. Ve ne erano alcune sul punto di sbocciare forse, il ritorno improvviso mi avrebbe permesso di godermi queste fioriture. 

Giungemmo al passaggio a livello nel momento stesso che si stavano lentamente abbassando le sbarre e la brusca frenata del nervoso mio autista fece spegnere il motore della macchina costringendoci ad una pausa di attesa un pò più lunga.

Ciò contribuì ad innescare altri rimbrotti maritali: "Te lo avevo detto che bisognava partire prima...anche il treno ci mancava!"

Interloquii, cercando di calmare la sua insofferenza: "Stai calmo, non ti agitare per ogni cosa... tanto se partivamo prima, avremmo incontrato un altro treno ché questa è una linea molto frequentata!"

Ma l'effetto pacificatore che speravo non avvenne e lui ricominciò:

"Non è tanto per il treno, ma per il motore che si è spento . Tu non sai - perché non puoi saperlo - cosa significa per un motore, fermarsi di colpo poco dopo avviato! Specialmente dopo essere stato fermo per giorni sotto l'acqua di questa settimana infernale! Benzina e olio ... un disastro."

Era vero che non sapevo nulla di motori e le sue parole mi fecero balenare la visione di una casseruola dove benzina e olio si frullavano insieme all'acqua piovana.

Fu solo un attimo, ma mi diede un brivido come accadeva ogni volta che le parole allarmanti di mio marito mi causavano angoscia e facevano il vuoto nel mio cervello disperdendo le idee sensate che spesso contiene.

Mi feci forza per rasserenarmi e presi a scherzare: "Ma quale disastro paventi se la macchina, dal momento che siamo entrati in villa è rimasta al riparo della tettoia ben coperta dal suo tendone? Non fare l'esagerato!

"Di' piuttosto, che sei infuriato contro il tempo che ti ha impedito di mostrare il tuo torso nudo insieme alla valentìa delle tue esibizioni nell'acqua da offrire all'ammirazione delle belle sirene. Va là, che ci tieni a far vedere che sei ancora un bell'uomo e l'ammirazione ti piace!"

"Che c'entra l'ammirazione delle donne, adesso? Tu non hai mai voluto credere che se amo prendere il sole è perché mi asciuga le ossa e sudando mi libero degli acidi."

Preferii non parlare più e mi posi ad osservare la campagna che stavamo percorrendo che era la vecchia Maremma, forse più vicina alla Tuscia che alla Toscana che ora l'asfalto aveva divisa, formando il rettilineo che sfocia nella rotatoria del bivio per l'antico paese di Tarquinia.

Noi, in senso inverso,provenivamo dal Lido di Tarquinia, moderno e confortevole. 

Non finivo di bearmi nella contemplazione di campi coltivati da ambedue i lati e, aldilà dei recinti spinati, frotte di contadini raccoglievano frutta e verdure,riempiendone ceste da portare ai mercati. Mi chiesi da quante mai generazioni quegli alberi fossero stati piantati!

L'aria fresca sottolineava che il tempo sarebbe rimasto incerto e noi infilammo l'autostrada che si snoda ancora fra vigne e frutteti stalle e case coloniche.    

Improvvisamente il sole squarciò le nubi e un globo, rosso e infuocato, sfolgorò sopra di noi.

Mi venne da ridere perché lo trovai comico come quello che disegnano i bambini delle scuole materne, mentre mio marito lo salutò con rabbia: "Adesso vieni? Non potevi farlo ieri?"

Per un fenomeno ottico l'astro si scisse in due rifrangendosi sui cristalli chiusi della nostra auto ed il " secondo sole" prese a corrermi a fianco per un lungo tratto. Sembrava un pallone lanciato senza meta e col suo colore così acceso appariva come una stonatura nell'atmosfera ancora evanescente.

Fu così per qualche chilometro ancora, fino a che il colore dei due soli si stemperò in un grigio incerto, segno ancora di pioggia.

Me ne rammaricai per quelli che avevamo lasciato al mare e che dovevano ancora starsene riparati.  Che brutta stagione incerta e poco calda!

Si era ai primi di agosto e di giornate chiare e serene se ne erano viste pochine e, con l'ora legale, il tempo era di un'ora più giovane e ciò spiegava il motivo dell'aria così pungente.

Era semplicemente il sorgere dell'alba in aperta campagna che per i cittadini, rappresenta sempre una novità.                  

Guardavo davanti,osservando come la monotonia del percorso venisse interrotta  dalla siepe spartitraffico colma di variopinti oleandri che suggerivano l'estate e non era possibile credere che la bella stagione fosse finita sul nascere.

Vedevamo adesso venirci incontro la corona ondulata dei Monti della Tolfa con le bianche cave di allume che sorpassammo in breve e, subito dopo c'immettemmo nella breve Galleria Principe e i miei pensieri si confusero nel suo buio per tornare a godere nuove visioni naturali all'avvicinarsi del semicerchio di luce che ne decretava l'uscita.

Ebbi netta l'impressione di ammirare un quadro perfetto: sfondo celeste con uno spicchio di cielo più azzurro, una collinetta, una casa , due alberelli al disopra di un fossato. Un vero splendore!

E che tonalità indovinate ha la natura!

Pensai a mia sorella pittrice, avrebbe dovuto vederli quei colori: qualche tonalità di verde,il grigio-azzurro del cielo, il rosa della casa...con poche, sapienti pennellate li avrebbe ricreati all'istante.

Usciti dalla Galleria ritrovai il rettilineo degli oleandri e pensai che pur sembrando abbandonati a sé stessi erano sempre belli e rigogliosi e non sembravano soffrire per l'inquinamento atmosferico che stava dilagando.

Da dove traevano tanta  vitalità ? La natura è pur sempre generosa e vitale e ci sa donare cose meravigliose.

Uno stormo improvviso di uccelli distrasse le mie riflessioni.

Li vedevo volteggiare felici quasi a gareggiare in velocità con noi in un giuoco pericoloso di alte e basse impennate come volessero sfidarci col rischio di sfracellarsi su di noi.

Continuarono per un bel tratto poi, stanchi, decisero di riposarsi su di un filo telegrafico seguendo il conduttore dello stormo che lo aveva fatto per primo. 

Voltandomi li vidi allineati che guardavano dalla nostra parte a mo' di saluto.

Adesso il paesaggio stava cambiando e monti e colline restavano alle nostre spalle mostrandoci in lontananza il Porto di Civitavecchia disseminato di velieri. Questa evanescente visione marina ci allietò per alcuni chilometri e la linea dell'orizzonte si confuse sempre più fra mare e cielo..

A velocità sostenuta passammo fra due file di serre trasparenti che sotto il sole, finalmente liberato dalle nubi, luccicavano come lastre d'argento.

Attorno, campi di terra fertile, mostrava le arature già eseguite per poter  ricevere le nuove sementi; nei campi a pascolo le greggi brucavano fra allegri richiami che  mi ricordarono un vecchio detto: "correre come pecore pazze" e quelle, dopo tanta pioggia, sembravano veramente ebbre di sole e di libertà.

Allo svincolo di Cerveteri c'immettemmo nella magnifica via Aurelia che conduce direttamente a Roma. Istintivamente mormorai: "Che bella giornata oggi!"

Inaspettato, udii il rabbioso commento del mio compagno: "Se fosse stata così ieri, ora non saremmo quì!" Aveva ragione. Ma, anche lui avrebbe dovuto essere un poco più paziente e aspettarsi il ritorno del sole.                       

C'era ancora la speranza di ricominciare la vacanza, questo volta, forse, un pò più lunga perché l'estate doveva ancora venire.   

 

FINE

 

 



UNA STRANIERA A ROMA

 Mi chiamo Helga Harwey ed ho 24 anni; sono nata a Monaco di Baviera.
Provengo da Londra, dove sono stata per un anno presso una famiglia, alla pari col proposito di approfondire l'inglese. A Roma ho preso dimora alla "Casa dello studente" nei pressi dell'Università perché intendo iscrivermi alla Facoltà di Economia e Commercio.
Colei che si stava presentando parlava rapidamente con voce gradevole, ma vi si sentiva l'emozione nell'affrontare il giudizio della signora che seduta allo scrittoio, prendeva appunti e che era incaricata di selezionare le ragazze convocate per posta.
La giovane che stava declinando le sue generalità era magra e molto alta, forse per i tacchi altissimi delle sue scarpe scollate, la sua cascata di capelli dorati fermati da una striscia di velluto nero ondeggiava ad ogni suo movimento  sue spalle semiscoperte poiché , a causa del caldo, indossava un leggero abito a righe bajadera sorretto da due esili spalline che modellava molto bene la sua figura slanciata.
Seppure emozionata,parlava con molta disinvoltura e dava subito l'impressione di sentirsi sicura di sè stessa e di sapere ciò che voleva.
Il suo italiano non era perfetto e l'accento tedesco vi traspariva chiaramente, ma lo avrebbe imparato sicuramente con la pratica perché nel curriculum vitae presentato aveva dichiarato di conoscere già tre lingue.
La segretaria di mezza età che aveva l'incarico di esaminare le signorine convocate fossero "diplomate e plurilingue" perché questi erano i principali requisiti richiesti per poter essere assunte dall'importante Ente Internazionale la cui sede principale si trovava a Bruxelles.
Sarebbe stata la Direzione, poi, a scegliere le cinque più  idonee.
Dal sorriso con cui veniva interrogata, Helga comprese di avere già fatta una buona impressione e, l'ultima domanda, prima di essere congedata fu il motivo che l'aveva spinta a lasciare Londra e, pronta fu la risposta:- "Ad essere sincera , debbo dire che sono letteralmente scappata per sottrarmi alle angherie della famiglia che mi aveva assunta alla pari, col patto che avrei avuto del tempo per studiare la loro lingua, ma la casa grande, la famiglia numerosa non  mi lasciava molto tempo per farlo. E a furia di sbattere coperte e tappeti,lavare stoviglie e riordinare guardaroba, alla fine della giornata, la stanchezza mi faceva crollare...altro che studiare! Dormire dovevo per riprendere le forze...
Imparo facilmente le lingue e ne conosco già tre, ma l'inglese è quella che mi è costata più fatica... Fatica fisica intendo!
Perciò sono scappata a Roma dove spero di trovare un impiego che soddisfi le mie esigenze. Questo sfogo e La sincerità con la quale si era espressa, piacque alla esaminatrice che tracciò un OTTIMO nella casella destinata al suo giudizio.
Stese la mano alla ragazza per un congedo cordiale e le assicurò che entro una settimana avrebbe conosciuto l'esito dell'intervista.
"Non dipende da me l'assunzione, ma da una specifica Commissione!"
Helga con cuore speranzoso uscì dall'imponente edificio e si ritrovò in strada con tanto tempo libero a sua disposizione e, sgombra dalla tensione delle ultime ore, si propose di visitare i luoghi più belli della città che aveva sempre desiderato conoscere.
La parte in cui si trovava era proprio la zona archeologica ricca di antiche  testimonianze e, con la rossa Guida Touring Club che sempre consultava, iniziò ad entrare nello spirito della Città Eterna.
Aveva dinanzi il lungo viale alberato della Passeggiata Archeologica sovrastato dalle possenti rovine delle Terme di Caracalla, ma lei, invece d'imboccare la breve salita di San Gregorio che costeggiando la chiesa omonima l'avrebbe fatta giungere dalla parte del Celio a Villa Celimontana, decise di percorrere via dell'Impero che le permetteva di valutare l'altra massiccia costruzione delle Terme Diocleziane.
Col naso all'insù, la ragazza si beava di tanta grandezza e giunta sotto l'Arco di Costantino si sentì piccolissima restando indecisa a rifletrtere se inerpicarsi lungo la scaletta del Palatino o andare a vedere subito il Colosseo.
Optò per quest'ultimo, riservandosi per l'avvenire altre perlustrazioni.
Ne avrebbe avuto di tempo per visitare Roma se fosse stata assunta!
Inebriata di sole, si rimproverò di non aver scelta prima questa città, invece di Londra, dove l'austerità e il rigore della famiglia che l'aveva ospitata, aveva un poco spenta la sua innata fiducia nell'umanità e se non fosse stata poliglotta e non avesse avuta la curiosità di leggere le inserzioni sui quotidiani di ogni lingua, non avrebbe avuta la possibilità di rispondere a quella che l'aveva portata a Roma.
Ed ora, stava calpestando i famosi serci romani che le stavano suggerendo il primo acquisto da fare: un paio di sandali comodi con cui camminare più spedita.
La maestosità dell'Anfiteatro Flavio la sbigottì nel mentre veniva travolta da una comitiva di turisti francesi che avevano un cicerone che li guidava.
Ne fu contenta giacché fu in grado di seguire le spiegazioni in francese senza aver bisogno di leggerle sul suo libro.
Il mastodontico monumento è pur sempre il simbolo della città che reggendo al tempo, testimonia la grandezza dell'Impero Romano e nessun turista tralascia di ammirare. Helga guardando avidamente ogni cosa, si sentì già pervasa dallo spirito fascinatore di Roma che ironico e disponibile conquista fin dal primo sguardo.
Ben presto si sarebbe spiegata perché buona parte delle persone che vi vivono trascorrano molte ore del giorno e della notte lungo le sue strade e nelle  innumerevoli piazze e piazzette rallegrate da fontane zampillanti scolpite dai più illustri maestri d'arte.
L'aveva sempre sentita raccontare l'euforia che dona una passeggiata romana, ma ora sentendosene pervasa, doveva ammettere che era qualcosa di più di quanto ogni depliant pubblicitario prometteva. Era qualcosa che, come una magìa, faceva viva la dimensione del tempo in cui tante bellezze furono costruite e ognuno vi si sentiva a proprio agio.
Ma Roma era solo questo? E dove nasceva tanta attrazione?
L'aura impalpabile della primavera rendeva leggero anche lo spirito che per incanto si rendeva benevolo e ottimista, accantonando le cose pratiche e i problemi assillanti perché ogni cosa sembrava divenire facile e l'animo ne godeva. Il sogno di Helga si era realizzato e vedere Roma , coi suoi occhi l'appagava in modo indicibile.
Dopo aver consumato un panino e una lattina di birra, seduta sui gradini di una chiesa ed essersi riposata,la giovane non volle rientrare nel modesto, studentesco pensionato, ma si reco ad acquistare un paio di scarpe da ginnastica comode e fresche che le avrebbero consentito di camminare più agevolmente.
Nel frattempo si era levata una leggera brezza che l'aveva rinfrescata.
Era il primo contatto con il famoso vento "ponentino" che sembrò darle una carezza di benvenuto.
Persino qualche sguardo curioso che la scrutava, invece d'infastidirla, la mise di buonumore perché le pareva di essere alla berlina.
Perché la guardavano con tanta insistenza? Tutti capivano che era straniera?
E cosa pensava di lei la gente? Ella non si sentiva diversa dalle altre ragazze. Con la statura e la struttura teutonica, inconsapevolmente, Helga intimidiva e ciò sarebbe stata sempre la sua arma di difesa e l'essere pattinatrice e sciatrice le aveva conferito ancor più  quell'andatura spedita e sicura che colpiva.
Aveva sentito dire che l'arguzia dei romani è bonariamente feroce perché con una battuta attribuiscono soprannomi che poi,alle vittime,restano appiccicati per la vita perché spesso sottolineano un difetto più che una qualità.
Helga si riprometteva di appurare le cognizioni acquisite ; intanto avrebbe avuto tutta la settimana da dedicare alla scoperta di Roma.
Non aveva tralasciato di usare la macchina fotografica di buona marca che era stato il regalo di sua madre quando era partita per Londra e aveva al suo attivo già un bel mucchio di foto che voleva mostrare alla genitrice che non vedeva da un anno, ma che sentiva giornalmente al telefono.
Erano molto legate madre e figlia e il distacco era stato sofferto, però, dopo il diploma in ragioneria,la giovane capì che voleva realizzarsi in altro modo e per prima cosa imparò altri idiomi che le avrebbero consentito di espatriare e conoscere il mondo e la madre la incoraggiò in questo più del padre ferroviere e di antiche vedute.
Rientrò alla pensione , all'imbrunire , stanca e affamata e, dopo una fresca doccia, scese nella sala da pranzo e fece la conoscenza degli altri ospiti.
La padrona della pensione serviva personalmente a tavola i suoi clienti, quasi tutti universitari e conoscendone l'appetito e le poche risorse economiche, era abituata a servire piatti abbondanti e così fece con la nuova ospite che, appena finito di desinare, si ritirò nella sua stanza contando di dormire subito.
Si preparò per la notte e, stanca, ma felice come non mai, si accinse a dormire, ma il sonno non veniva così accesa un sigaretta cominciò a fantasticare. Si rese conto che era stata la fatalità a sospingerla proprio a Roma giacché aveva trovata l'inserzione a cui aveva risposto, l'aveva letta per caso su di un giornale dimenticato da un italiano nel negozio inglese dove era solita far compere. Aveva inviato il suo curriculum vitae senza troppe speranze giacché era l'ultimo giorno per farlo e vi era la possibilità che giungesse in ritardo.
Invece le avevano risposto invitandola a presentarsi con viaggio pagato anche per un eventuale ritorno. Ma lei sperava tanto che non ci fosse ritorno perché il desiderio di visitare Roma l'aveva covato per anni ed era già sicura di volerci restare anche se non fosse stata assunta. Un qualunque altro impiego lo avrebbe trovato, magari come interprete della sua madre lingua.
Rimase a lungo a fare castelli in aria finché si addormentò.
L'indomani compilò un itinerario ordinato di luoghi da visitare facendosi consigliare dalla proprietaria della pensione che le preparò anche due grossi "sfilatini" bene imbottiti nell'eventualità di trascorre fuori tutta la giornata. Ciò si ripeté per tutta la settimana, così senza molte perdite di tempo e, molto economicamente, la tedeschina poté esaudire le sue curiosità e approfondire ciò che già conosceva della nuova città che la ospitava.
Oltre che la storia guerriera e filosofica, ne scoprì e opere d'arte racchiuse nei Musei, il misticismo dei Monasteri e la opulenza delle Basiliche e la devozione delle Parrocchie; la grandiosità dei principeschi Palazzi e le stradine dei Rioni antichi dove ancora vivono e si tramandano antichi riti e tradizioni; i Colli verdi e invitanti a soste meditative e le innumeri fontane d'autore che gettano acqua senza posa in quasi tutte le piazze.
Basta solo oltrepassare le antiche Mura Aureliane per riportare la mente alle origini bucoliche e Helga si beava di queste scoperte e passò molto tempo nei campi "burini" ad osservare come viene fatto il burro e il formaggio.
S'innamorò delle fresche ricotte e delle caciottine come delle "paste asciutte" delle quali non si saziava mai.
La giovane tedesca era entusiasta di ogni cosa che si offriva al suo sguardo e, specialmente del clima  che le si dimostrò più favorevole di quello britannico , dov'era sempre raffreddata ed era costretta a da usare sciarpe e colli alti anche in primavera.
Sarebbe stata più serena e soddisfatta, se non fosse spesso infastidita dalle ance dei "galli"latini che, al passaggio di una bella giovane, tantopiù straniera si sentono in dovere di evidenziare la loro maschile invadenza.
Questo non garbava ad Helga che veniva da una cultura progredita in cui femmine e maschi sono abituati a convivere cameratescamente senza fraintendere un sorriso di cortesia per disponibilità sessuale.
Ed era questa l'unica pecca che la disturbava perché la costringeva a stare sempre sulla difensiva tanto da non fidarsi di accettare un invito maschile neppure dai coetanei della pensione nella convinzione che pure l'uomo più serio e morigerato e, persino coniugato, nel trovarsi solo con una donna, cova l'istinto di saltarle addosso.
Al termine della settimana,a mezzo telegramma, giunse l'invito a presentarsi per redigere il Contratto di assunzione e, pazza di gioia ella, non finiva più di abbracciare la cordiale padrona della pensione, esternando la sua gioia: " Ma ci pensa? Potrò restare qua ...il mio sogno si è realizzato ! Sono felice e lo sarà anche la mia mamma. E' un posto prestigioso e ben pagato e anche il babbo non avrà a ridire perchè avrò anche la possibilità finanziaria per laurearmi".  Anche la signora alla quale si rivolgeva gioiva con lei.
Nel giorno stabilito si ritrovò nell'anticamera della direzione dello stesso  palazzo ove aveva avuto la prima intervista insieme alle altre quattro ragazze scelte. Espletate le pratiche necessarie, tutte e cinque presero visione degli uffici loro assegnati e, dal lunedì successivo, il loro lavoro di segretariato avrebbe avuto inizio.
Helga aveva ancora tre giorni a disposizione da dedicare a suo piacere perché, dopo, la sua vita sarebbe stata legata ai suoi orari di lavoro.      
A lei era stata assegnata la mansione d'interprete simultanea durante in frequenti Congressi e negli altri giorni avrebbe tenuta la corrispondenza del suo diretto superiore per quanto riguardava le lingue di sua conoscenza.
La giornata di ufficio era dalle 8 del mattino alle 17 del pomeriggio con l'intervallo di un'ora per il pranzo.
Questo le consentiva di poter anche studiare nelle ore serali e se era necessario anche nei giorni festivi, pertanto,nella prossima sessione si sarebbe iscritta all'università.
Il lavoro si dimostrò subito molto impegnativo, seppure piacevole perché le permetteva di partecipare a ricevimenti e riunioni di lavoro con esponenti mondiali della cultura e del commercio di cui doveva essere interprete.
Più coinvolgenti erano i frequenti "Meeting" socialmente impegnati che la lasciavano distrutta perché si svolgevano in enormi saloni che saturati di fumo non lasciavano respirare e, dopo gl'interventi, restava a lei il compito di tradurre in più lingue le copie da distribuire.
Tuttociò comportava lo stravolgimento degli orari che,spesso,non prevedevano neppure le pause del pranzo. Fortunatamente il giorno successivo a questi caos  aveva diritto a una giornata di riposo che permetteva di riposarsi cancellando lo stress subito.
Helga per rimediare alla sedentarietà e mantenere la linea, pensò d'iscriversi ad una Palestra con piscina e campo da tennis che le era stata consigliata da una collega, ma i suoi orari di lavoro mal si conciliavano con quelli di educazione fisica che si era prefissa . Vi si recò,per la prima volta in uno dei suoi giorni di riposo, ma in un orario sbagliato giacché pure aperta la trovò deserta. Tranne il custode non vi era nessuno e,questi,le consigliò di aspettare l'arrivo della segretaria, Helga si accomodò in una poltroncina di vimini della sala di attesa e si pose a sfogliare una rivista, rimanendo assorta nella lettura, senza accorgersi che poco dopo qualcuno era entrato nella stessa sala.
A un tratto, distogliendo gli occhi dalla rivista, si avvide che un giovanotto altissimo vestito di bianco era di fronte a lei,appoggiato di spalle alla finestra la stava guardando fissamente. Sentendosi a disagio, Helga fece per alzarsi e il giovane, credendo che volesse andarsene, le rivolse la parola molto cortesemente: " Non vuole più aspettare? La segretaria verrà fra pochi minuti e non le conviene ritornare..." Helga lo guardò senza rispondere e consultò l'orologio che aveva al polso con un attimo d'incertezza della quale approfittò il giovane per aggiungere: "Anche lei è una sportiva signorina?"
Incerta e sorpresa, la tedeschina, analizzò con un rapido sguardo il suo interlocutore e, rassicurata dalla simpatia che istintivamente le ispirava, quel bel ragazzo bruno, rispose sorridendo: " Proprio sportiva ...non direi ! Vorrei iscrivermi per fare un po' di attività fisica per sgranchirmi dalle troppe ore di lavoro seduta alla scrivania del mio ufficio. Un poco di nuoto e di tennis...nulla d'impegnativo e solo quando posso !"
Lui fu pronto a presentarsi: "Posso già darle il benvenuto , giacché io sono Bruno Gigli, istruttore di tennis e responsabile della sessione sportiva  e, penso, che dal momento che avrà la tessera di socia, il tempo dovrà trovarlo."
La ragazza rise alle sue parole, assentendo col capo e l'oro della sua chioma sfavillò sotto il raggio di sole che filtrava dalla finestra spalancata.
In quel mentre giunse la segretaria alla quale Bruno affidò la nuova cliente, ma prima di uscire si ricolse ancora ad Helga per informarla che dopo l'iscrizione, doveva accordarsi con lui per gli orari delle lezioni.
Queste furono le parole che coinvolsero Helga perché da quel momento divenne socia attiva e convinta e non perdette mai una lezione del simpatico istruttore.
La scelta di quella palestra si rivelò ottima per il suo fisico e per il suo morale, dandole modo di conoscere un giovane serio che a distanza di qualche mese, approfondendo la conoscenza della bella allieva, se ne sentì talmente attratto da proporle il matrimonio.
La risposta di Helga non poté che essere affermativa perché aveva avuto modo di apprezzare le qualità di quel giovane educato e gentile che aveva conquistata la sua fiducia fino a far sbocciare anche l'amore.
Con grande gioia lo annunziò ai genitori che si prepararono a presenziare alle nozze della loro figlia che voleva sposarsi a Roma.
Nel rivederla, i genitori constatarono che la felicità dei due giovani era veramente commovente.
Essi ben sapevano quanto la loro figliola fosse innamorata per decidersi ad un passo così impegnativo ed era evidente che oltre all'amore per il suo sposo, vi era anche la consapevolezza di divenire cittadina della Città che adorava e della quale aveva percepito in pieno la cordialità degli abitanti sempre pronti a donare calore ed amicizia e che le aveva data l'opportunità di realizzarsi pienamente assicurandole amore e benessere. 

FINE

 

 



UN GIORNO PERDUTO

Pregustavo già la prossima domenica perché avevo deciso di recarmi a visitare la Mostra di un nuovo vivaio floreale ove pensavo di acquistare delle piantine da mettere a dimora.

Il destino però aveva disposto diversamente poiché quella mattina, ancora immersa nel sonno,  un prolungato squillo di citofono mi spinse ad alzarmi precipitosamente e buttato sulla camicia da notte il poncho che avevo a portata di mano, risposi a quel richiamo importuno,

Ma nessuno rispose al mio - "chi é"- assonnato. Il brusco  risveglio, mi aveva dato un tuffo al cuore e non ricevendo alcuna risposta mi sentii molto irritata e d'impeto aprii la porta d'ingresso per vedere se per caso l'ignoto suonatore di citofono non stesse già salendo in ascensore

Non feci neppure in tempo ad oltrepassare la soglia che un colpo di vento mi chiuse la porta alle spalle.Rimasi di stucco! E adesso cosa fare? Seminuda, irritata, e un pò sudata, chiamai l'ascensore per scendere dal portiere che, forse, sarebbe stato capace di aprire la mia porta.

Giunta alla guardiola, situata al centro del cortile condominiale la trovai sprangata fu un altro colpo impensato che mi offuscò la mente.

Non ricordai che era domenica e che lui non abitava neppure nel palazzo cosicché presi a camminare convulsamente, senza una direzione precisa. Ormai vagavo come un automa senza

rendermi conto di nulla, stringendomi con le mai il poncho che riusciva a ricoprire a metà la mia camicia di batista ricamata.Anche i piedi con le leggere pantofole era intirizziti.

Non mi chiesi neppure ove fossi ché la zona mi era sconosciuta e avevo già sorpassati parecchi incroci di strade deserte. Chissà che ora era ?

Sicuramente ero nella parte dove stavano sorgendo dei villini non tutti ancora abitati e questo pensiero m'impaurì causandomi un ulteriore shock. Stavolta il sudore che mi ricoprì fu di vera paura.

Stavo rasentando un muretto dove mi appoggiai presa da vertigine e visti alcuni scalini li salii inconsciamente e caddi riversa. Mi risvegliai mentre un donnone mi stava rialzando a fatica mentre apriva un portoncino in cima agli scalini. Volli dire qualcosa, ma nessun suono uscì dalla mia gola.

Questo non scompose la robusta figura che mi stava aiutando che, aperta la porta chiese l'aiuto di qualcuno che era nell'interno.

Ora erano quattro le mani che si prodigavano attorno a me, che mi liberarono dell'ingombrante poncho e mi adagiarono su di un basso divano appoggiato a una parete disadorna di fronte ad un'altra parete con due armadi pensili appesi.

L'ambiente squallido non mi forniva indicazioni di dov'ero e  non riuscivo a far capire che una sete tremenda mi torturava  perché non riuscivo a parlare ne a muovere un dito. La paralisi che mi aveva colpita, mi aveva trasformata in un oggetto inanimato e non sapevo dove fossi, mi sentivo la bocca storta e i nervi tesi  e non potevo comunicare in alcun modo  quasi ipnotizzata dalla lampadina  avvitata al filo elettrico che dal centro del soffitto mi pendeva sul capo. Quella luce fioca  rendeva ancor più miserevole l'ambiente.

Possibile che nessuno prendesse l'iniziativa di chiamare un medico?

In un attimo di lucidità mi resi conto di quanto fragile sia l'essere umano e come da un istante all'altro possa perdere l'autonomia.

La piccola donna che mi era accanto, fu pronta a togliersi il camice mentre quella che mi aveva soccorsa per prima rientrava con un camice identico e un fascio di carte in mano.

La giovane le si rivolse dicendo di sentirsi  stanchissima e, avendo terminato il turno, se ne sarebbe andata e uscì nel pronunziare l'ultima parola. Subito dopo dalla stessa porta giunse un uomo coi baffi che indossava un' uniforme che dopo aver bisbigliato qualcosa al donnone, vuotò un una piccola sporta in un pensile dell' altra parete, da dove prelevò un termos il cui contenuto bevve dopo averlo versato in un bicchiere di carta che gettò poi in un cestino accanto.

Prima di andarsene, mi si avvicinò guardandomi dubbioso e facendo un  gesto sibillino. Forse mi aveva presa per un'ubriaca.

La donna continuando a leggere le sue carte, mi teneva d'occhio e dopo un pò uscì dalla stanza e mi giunse il rumore di uno sciacquone che acuì la mia sete.

Appena rientrata, dalla porta esterna entrò un uomo, alto e imponente con un giubbotto di pelle che mi guardò con sorpresa, informandosi  su di me, ma anche lui non ebbe risposta alla sua curiosità e, dopo aver mangiata una  banana  che aveva presa da uno degli armadi, se ne tornò via con molta fretta..

Poco dopo la porta d'ingresso si riaprì per fare entrare un distinto signore, vestito di scuro, che posata una borsa, mi si  avvicino e, capii finalmente, che un medico si stava prendendo cura di me.

L'uomo rapidamente mi sentì il polso, mi auscultò il cuore e prese ad alzarmi braccia e gambe che ricaddero inerti, mentre lui ad ogni prova prendeva appunti su di un taccuino.

Fu un sollievo allorché mi aprì la bocca e ordinò al donnone dell'acqua che mi versò egli stesso in gola e che  feci fatica a ingoiare. Sentii subito  un guizzo interno che mi rigenerò immediatamente..

Forse non era trascorso molto tempo dal mio ritrovamento  anche se a me era parso un secolo!

Intanto il medico armeggiò con una siringa e dell'alcool e m'iniettò qualcosa che mi causò un formicolio nelle gambe e nelle braccia e mi spinse a muovere un braccio.

Ciò fece sorridere il dottore che con questa mia involontaria reazione comprese in che stato fossi  e prese provvedimenti urgenti rivolgendosi al donnone in attesa che uscì immediatamente..

Quando rientrò fece col capo un cenno affermativo verso il medico.

Compresi poco dopo il significato di quell'assenso perché giunse un 'ambulanza che rapidamente mi carico e mi condusse in un nosocomio dove riuscii a far capire con la mano che volevo scrivere.

E, sorretta da una infermiera, potei tracciare sul foglio fornitomi il numero di telefono di mia sorella  che giunse appena chiamata e non si dava pace per quanto mi era accaduto

Ma il medico ospedaliero fu in grado di dirle  che un grave stato di shock, specialmente in una persona in età, può essere micidiale e, nelle migliori delle ipotesi  provocare reazioni imprevedibili e quindi l'accaduto era spiegabilissimo.

La paralisi che mi aveva colpita, si sarebbe risolta in breve, anche se la parola l'avrei gradatamente, sarebbe stato sufficiente il riposo a letto e una cura di aerosol per decongestionare le corde vocali atrofizzate dal raffreddamento prolungato dopo la sudata della notte.

Mi potevo considerare fortunata  per  essere capitata  in una minuscola postazione di ristoro per i volontari che giravano notte e giorno per aiutare, diseredati e barboni,

L'unica cosa che non riuscii a far coincidere coi miei confusi ricordi fu la data perché quel preciso giorno l'ho proprio perduto, cancellato completamente.