Era una di
quelle mattine quando le cose, districatesi dal buio denso della
notte, assumono un baluginare quieto in attesa del sole che lento
cavalca le nubi nel cielo pallido, immoto, che par tingere l’aria di
sentori lontani.
Tentando inutilmente di abbellirla, alcune piantine striminzite
giacevano ai piedi della severa statua del Cardinale che dominava la
piazza deserta se non per una figura minuta che arrancava in fretta
su per la salita di via dei Crociferi in fondo alla quale, sulla
sinistra, c’era la clinica dove alle 6 in punto doveva prendere
servizio.
Era una donna ancora giovane, con una gran massa di capelli neri
come ali di rondine che le incorniciavano una faccia seria dal
colorito olivastro, denti perfetti che di rado biancheggiavano nel
riso, occhi di “Maddalena” in fondo ai quali era facile, solo a
volerlo, leggerle i pensieri: i figli –in primo luogo- che stava
tirando su da sola, i soldi che non bastavano mai, soprattutto
adesso che la sua maggiore stava per sposarsi, e infine l’ansia di
far tardi sul lavoro, madonna, magari troverebbe il sorvegliante sul
cancello che, sornione, in silenzio l’avrebbe sogguardata con quegli
occhietti maligni, la fronte tutta una ruga di
disapprovazione…Rapporto non glielo avrebbe fatto ma la minaccia
gliela avrebbe di certo fatta balenare sulla testa con quel
tentennare della minuscola testa da topo, le braccia incrociate
sulla schiena, il piede che impaziente batteva sul terreno.
Si guardò intorno come a cercare aiuto alla sua angoscia. Non vide
altro che gli usci sbarrati delle case all’intorno che proteggevano
il sonno di quei fortunati mortali che potevano permetterselo.
Sospirò. Là davanti a lei, il portale istoriato della chiesa barocca
di san Benedetto riluceva magnifico e misterioso.
-Non ho tempo adesso per voi, san Benedetto! E’ tardi…
Di colpo abbagliata dal sole sbucato di rimbalzo dal portale della
chiesa, Marta si fermò, i piedi doloranti fin da quando li tirava
fuori dal letto, al mattino, che si rifiutavano di andare oltre. Si
sentiva mortalmente stanca, eppure aveva dormito quella notte, è
vero, anche se ad una certa ora s’era svegliata e la mente aveva
cominciato a macinare pensieri.
Addio al sonno, la camera buia, fredda, la bambina coricata al suo
fianco la preoccupava con quella tosse stizzosa che le scuoteva il
petto; e che dire del ragazzo che con la scuola..? Il maestro, la
faccia storta, tamburellando le tozze dita sull’enorme panciotto le
aveva sibilato accigliato, “Che ne devo fare di suo figlio, cara la
mia donna, uno che ride, scherza, mi tiene i compagni in subbuglio,
me li coalizza, tutti contro, ma proprio tutti! come quel
Guerreschi, lo scolaro pestifero di Mosca!
Tremando come una foglia, lei aveva fatto cenno di si, con la testa,
ma questo Guerreschi non sapeva proprio chi fosse e cosa c’entrasse
col suo Ninetto, povero piccolo, che quando la casa le s’era
riempita di gente che veniva a fare le condoglianze per la
disgrazia, lui, i bottoni neri che spiccavano luttuosi sulla camicia
bianca fuori dai calzoncini, saltava gioioso sul letto, su e giù, su
e giù, come sulla giostra…Cosa vuoi capire, a sei anni? E adesso,
ecco che la grande si vuole sposare, d’accordo, il fidanzato, un
bravo giovane, almeno a prima vista, si, perché non è che lo conosca
bene, lei. Lavorava fuori città, ogni tanto arrivava all’improvviso,
prendeva su la Mara e la portava a spasso fuori -così diceva- e poi
a pranzo da sua madre; ricomparivano la sera, lui sempre appiccicato
alla ragazza, sempre a parlottarle all’orecchio, lei, la faccetta a
chiazze rosse, gli occhi stellanti, l’aria stranita, il sorriso da
un orecchio all’altro mentre il suo povero cuore di madre si faceva
sempre più piccolo e smarrito.
Marta aveva paura, una paura folle, perché l’uomo alto e bello come
un principe che aveva amato come una forsennata se n’era andato una
mattina in un attimo, il petto schiacciato dal rimorchio del camion,
e dunque non c’era in casa nessun uomo che all’occorrenza potesse
far valere la sua autorità per ogni evenienza, per mettere a posto
le cose…eh si, la Mara era troppo giovane e troppo innamorata,
poteva trovarsi con la pancia da un momento all’altro, e così in
definitiva meglio che si sposasse con tanto di prete e abito bianco,
gia, ma i soldi? un matrimonio non è cosa da poco, solo per lo
stretto necessario di soldi ce ne volevano tanti, una carrettata.
Marta si sentiva girare la testa nel calcolo: l’abito nuziale, i
fiori, i confetti, la chiesa, il ricevimento…beh, quello poteva
arrangiarlo in casa, d’accordo, ma i dolci, biscotti e paste, il
vermut, il marsala, la torta a tre piani, lo spumante, non potevano
mancare…Che figura ci farebbe di fronte al parentado, ne avrebbero
detto di tutti i colori ché magari quelli si aspettavano il pranzo
di chissà quante portate!
Un rinfresco però ci voleva, il minimo, una figlia è una figlia, e
per fortuna che il corredo, dodici di tutto, era già pronto perché
da madre previdente lei aveva fatto suo il detto “figlia in fasce,
pezze nel baule”, per tempo. Quand’era ancora in vita suo marito pur
non nuotando nell’oro la casa non mancava di nulla, e lei s’era
fornita di tele e lini e aveva ricamato e confezionato lenzuola,
tovaglie, asciugamani, e Dio sa che altro, ma ne occorrevano ancora
tante, di cose, abiti, scarpe, borsette, cappellini...
Automaticamente Marta si portò smarrita una mano alla fronte e fu
allora che si accorse con sorpresa di esser rimasta immobile davanti
alla chiesa di san Benedetto come costretta suo malgrado da una
forza misteriosa, inspiegabile.
Da una delle dodici formelle mirabilmente sbalzate che costituivano
l’antico portale una figura primitiva, ingenuamente concepita e
realizzata, la stava fissando muta.
-Oh san Benedetto, -mormorò riunendo le due mani in preghiera-
apritemi una strada!
La voce le si spezzò in un singulto. Gli occhi le si riempirono di
lacrime ma le ricacciò dentro, a forza, raddrizzò tosto le spalle, e
cercando di non pensare che non aveva nessuno al mondo su cui
contare, riprese ad arrancare verso la clinica.
Non aveva fatto che pochi passi quando d’improvviso si sentì
abbrancare da dietro, proprio sulla natica destra, una stretta
convulsa, oltraggiosa, un attimo lungo come un’agonia; infine un
omarino calvo, una giaccaccia da lavoro gettata sulle spalle, in
groppa ad una bicicletta sgangherata senza degnarla d’uno sguardo,
le sgusciò a fianco e zufolando proseguì a zigzag.
Tutta sossopra Marta restò di stucco senza saper più dove si fosse.
-San Benedetto, -ansimò amaramente- è così che rispondete alla mia
supplica?
Gli occhi offuscati da lacrime di delusione cocente, le labbra
tremanti di rabbia, Marta cominciò a correre come volesse fuggire
via, lontano, da tutto e da tutti, ma in un baleno arrivò in vista
della clinica. Si fermò senza fiato, il cuore a mille,
meccanicamente si diede un’aggiustata ai capelli che le erano finiti
sugli occhi, e a testa bassa infilò il cancello.
Per fortuna niente sorvegliante. Neanche l’ombra. Doveva aver fatto
tardi anche lui.
Marta s’immerse subito nel lavoro con quel tanto di lena rabbiosa
che l’aiutasse a scacciare l’impressione della scena di poco prima,
ma ogni qualvolta che senza volere vi riandava con la mente il
ricordo dell’affronto subito le faceva salire il sangue alla faccia
che le s’imporporava tutta di sorda impotenza.
-Dove corri, Marta?
Alla domanda allegramente canzonatoria che l’era giunta dal fondo
dell’astanteria, Marta trasalì. Si voltò di scatto mentre colei che
aveva parlato le venne vicino e disse sorridendo:
-Mi pari una trottola…Ma dove corri, dunque?
Alta e ben messa, i riccioli imprigionati in una cuffia
bianchissima, una pila di cartelle cliniche sotto il braccio, la
collega la guardava in attesa.
-Ciao, Lina. –disse lei, stancamente. La sua voce suonò talmente
rauca ed indistinta che l’altra si chinò su di lei e scrutandola
attenta fece:
-Che hai?
-Io..? ma niente. –si schermì- Che vuoi che abbia, le solite
cose…Sono in ritardo sulla tabella di marcia perciò devo correre!
Ma l’amica scosse poco convinta la testa e facendosi seria disse:
-A me non la dai a bere, ragazza mia. Che t’è successo?
Il tono tenero, confidenziale, affidabile, col quale Lina le s’era
rivolta agì su di lei da conforto tanto insperato da farla
d’improvviso crollare.
Piangendo a dirotto, disperata, Marta raccontò ogni cosa:
ammiccamenti a mezza bocca, frasi smozzicate, sospiri, se avesse
potuto l’avrebbe preso a pugni, lei, quel delinquente, quel porco,
farle questo, come s’era permesso, perché non aveva nessuno, lei, a
difenderla, ecco perché! la disgrazia s’era presa suo marito e
dunque chiunque…qualunque verme della terra poteva permettersi di
prendersi delle libertà con lei…Come se niente fosse, non l’aveva
neanche degnata d’uno sguardo, come se lei fosse un oggetto di cui
tutti potessero abusare…
Lina se n’era rimasta zitta ad ascoltarla, un’espressione
indecifrabile sulla faccia dagli zigomi stretti, le labbra in fuori,
gli occhi intenti.
-Via, Marta, -disse infine- non prendertela. Non ne vale la pena, lo
sai, no, che il mondo è pieno di sporcaccioni!
-Ma perché a me? Che facevo io se non andare a buscarmi il pane?
-Non pensarci, va…In fondo il mondo continua ancora a girare. Lo sai
che farei io se fossi in te?
-No, che faresti?
L’amica la guardò e disse ridendo:
-Giocherei al Lotto, ecco cosa farei!
-Ma che dici…-trasecolò lei- hai capito bene quel che mi hanno
fatto?
-Certo che ho capito. Io me li giocherei, i numeri!
Senza parole
Marta restò a fissare l’amica che mentre s’allontanava verso la
direzione la salutava con la mano, due dita alzate a mimare il segno
della “v”, infine scosse il capo e riprese di furia il suo lavoro.
Ma ci pensava di continuo. In fondo, si diceva, Lina non ha tutti i
torti, invece di piangere sul latte versato che non porta ad altro
che a farsi venire il sangue amaro, avrebbe dovuto seguirlo quel
consiglio, pur se strampalato, pur se dacché aveva perso suo marito,
il motivo, il valore della sua esistenza, lei non poteva dirsi
proprio fortunata, ah no, davvero..! ma chissà, perché non tentare,
poche lire, niente di più, non sarebbe diventata più povera per
questo!
Staccando dal lavoro e ritrovandosi in istrada a fare il percorso
inverso, Marta tirò via di lungo solo per sostare brevemente a
comprare un paio di uova e del pane appena sfornato ché a casa i
bambini l’aspettavano impazienti per dividere quel poco che c’era,
tutti insieme anche se dalla tavola era scomparsa la tovaglia bianca
perché l’uomo di casa non c’era più.
Dirimpetto al fornaio, uscendo, Marta notò che il botteghino del
Lotto malgrado l’ora era ancora aperto, e anzi vi si vedeva un
insolito movimento.
Spinta dalla curiosità, attraversò la strada ed entrò d’impulso.
Nello stretto locale si era raggruppata una piccola folla di
persone, in maggioranza vecchietti speranzosi di arricchirsi a spese
dello Stato, alcuni già in possesso di una giocata che avrebbero
ripetuto settimana dopo settimana convinti che i benedetti numeri
sarebbero alla fine usciti e avrebbero risolto le angustie di una
vita tirata con i denti.
-Avete sentito ch’è successo? – stava gridando uno, la faccia
rubizza, smaniando d’eccitazione.
Tendendo
l’orecchio anche se in effetti non ce n’era bisogno, Marta venne a
sapere di un fattaccio appena accaduto a molti chilometri da lì, in
una città che non aveva mai visto anche se ne aveva sentito parlare
e, anzi, si era incantata spesso ad immaginare di passeggiare fra
quelle strade larghe, piene di bella gente, le piazze, visitare i
palazzi antichi, i monumenti…un fattaccio clamoroso, un attentato
contro un uomo politico di spicco, un capo, uno di quelli che
durante il ventennio era scappato in Francia prima e nell’Unione
Sovietica dopo, e adesso metteva paura ai nuovi padroni perché
voleva cambiare le cose a favore della povera gente. Il nome Marta
non l’afferrò, mai sentito, ma lei non seguiva la politica, aveva
altro cui pensare!
-Morti e feriti, sissignori, e lui lì, il coso…ah, l’onorevole
insomma, ricoverato in ospedale in pro…pro, come si dice, riservata!
–concluse sbuffando come un mantice, il poveretto.
-Prognosi…Si dice prognosi, buon uomo! –lo sorresse uno ben vestito,
un signore, sorridendo con bonaria ironia.
-Già, prognosi…I numeri, signori miei, i numeri! dobbiamo sciogliere
i numeri. Vediamo, paura eh? Quanto fa la paura?
-Certo! –saltò su un altro- La paura è la cosa principale da tenere
in conto, in un caso del genere! Io son qui che tremo ancora come
una foglia.
-Hai ragione! –convenne uno mingherlino con un buffo copricapo
verde- La paura fa novanta. Uomo, poi, fa trenta di sicuro. Ma,
ospedale…Quanto fa ospedale?
-Chiediamo a don Raffaele! –suggerì una donna intabarrata in uno
scialle nero che la copriva da capo a piedi.
-Che bellezza! –concluse un giovanotto, l’occhio lustro, fregandosi
le mani- Un terno secco!
Come un sol
uomo la piccola folla si spinse verso lo sportello di don Raffaele,
il titolare del Banco Lotto, un ometto cadaverico, pelato come una
palla da biliardo, che inforcando un grosso paio d’occhiali, la
penna in mano, si rese subito pronto ad evadere le ordinazioni di
ambi terni quaterne e cinquine su una o su tutte le ruote, secondo i
desiderata dei giocatori.
In disparte, preda di contrastanti umori Marta non poté fare a meno
di assistere alla scena di tutti quegli uomini e donne che vociando
si accalcavano tutti insieme contro il botteghino mentre il
malcapitato titolare agitando frenetico le mani sotto ai loro occhi
tentava vanamente di farsi ascoltare.
-Calma, signori, calma…Uno alla volta!
Via, si diceva Marta, che aspetti? vattene a casa! che ci fai tu,
qua, in mezzo a questa gente… S’era fatto tardi e i figli
l’aspettavano ansiosi, già col cucchiaio in mano e il tovagliolo al
collo, di certo avevano fame, poverini, e anche lei non aveva
mangiato quasi niente dalla mattina…Ma era come se qualcosa di
impellente, più forte di tutti i ragionamenti di questo mondo, la
tenesse là, legata a corda doppia, come se la sua stessa vita
dipendesse da questo.
Dopo qualche minuto che a lei parve un’eternità, Marta vide la
piccola folla disperdersi alla spicciolata, con grandi spintoni e
grossi sorrisi stampati sulle facce, ciascuno ostentando con
soddisfazione la propria giocata. Un vecchio curvo che si trascinava
con l’aiuto di un bastone, uscendo le strizzò l’occhio.
In breve lo stretto locale rimase vuoto. Al di sopra degli occhiali
era già da un po’ che don Raffaele la stava osservando, quella
donnina minuta, là, sull’angolo, i grandi occhi che imbarazzati non
sapevano più dove guardare, i folti capelli neri come ali di
rondine, le mani che di continuo ella si torceva come fosse in preda
all’indecisione.
-Allora, che vuoi fare, ragazza? Fra poco si chiude.
Quando il
sabato successivo munita di carta e penna Marta si mise all’ascolto
per radio del bollettino del Lotto, scrivendo con mano tremante i
numeri che l’annunciatore andava dettando, ad un certo momento il
cuore le morì in petto.
Non
credeva ai suoi orecchi ma i numeri di san Benedetto c’erano tutti:
5, la mano, 30, l’uomo, e 23 la natica, tutti e tre i numeri, un
terno secco, quel che ci voleva per risolverle il problema più
urgente, quei tre numeri che il santo le aveva suggerito rispondendo
alla sua preghiera.
Ma lei non lo aveva ascoltato.
Lei invece si era fatta giocare dall’entusiasmo collettivo chiedendo
a don Raffaele con voce malferma la giocata con i numeri
dell’attentato.
Dei tre, 90, la paura, 30, l’uomo, e 73, l’ospedale, il sospirato
terno che avrebbe arricchito mezzo quartiere, era uscito solo il 30. |