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di Lucia Mirabella

 

L'ANIMA IN MUTANDE

 

 

Era una di quelle mattine quando le cose, districatesi dal buio denso della notte, assumono un baluginare quieto in attesa del sole che lento cavalca le nubi nel cielo pallido, immoto, che par tingere l’aria di sentori lontani.
Tentando inutilmente di abbellirla, alcune piantine striminzite giacevano ai piedi della severa statua del Cardinale che dominava la piazza deserta se non per una figura minuta che arrancava in fretta su per la salita di via dei Crociferi in fondo alla quale, sulla sinistra, c’era la clinica dove alle 6 in punto doveva prendere servizio.
Era una donna ancora giovane, con una gran massa di capelli neri come ali di rondine che le incorniciavano una faccia seria dal colorito olivastro, denti perfetti che di rado biancheggiavano nel riso, occhi di “Maddalena” in fondo ai quali era facile, solo a volerlo, leggerle i pensieri: i figli –in primo luogo- che stava tirando su da sola, i soldi che non bastavano mai, soprattutto adesso che la sua maggiore stava per sposarsi, e infine l’ansia di far tardi sul lavoro, madonna, magari troverebbe il sorvegliante sul cancello che, sornione, in silenzio l’avrebbe sogguardata con quegli occhietti maligni, la fronte tutta una ruga di disapprovazione…Rapporto non glielo avrebbe fatto ma la minaccia gliela avrebbe di certo fatta balenare sulla testa con quel tentennare della minuscola testa da topo, le braccia incrociate sulla schiena, il piede che impaziente batteva sul terreno.
Si guardò intorno come a cercare aiuto alla sua angoscia. Non vide altro che gli usci sbarrati delle case all’intorno che proteggevano il sonno di quei fortunati mortali che potevano permetterselo. Sospirò. Là davanti a lei, il portale istoriato della chiesa barocca di san Benedetto riluceva magnifico e misterioso.
-Non ho tempo adesso per voi, san Benedetto! E’ tardi…
Di colpo abbagliata dal sole sbucato di rimbalzo dal portale della chiesa, Marta si fermò, i piedi doloranti fin da quando li tirava fuori dal letto, al mattino, che si rifiutavano di andare oltre. Si sentiva mortalmente stanca, eppure aveva dormito quella notte, è vero, anche se ad una certa ora s’era svegliata e la mente aveva cominciato a macinare pensieri.
Addio al sonno, la camera buia, fredda, la bambina coricata al suo fianco la preoccupava con quella tosse stizzosa che le scuoteva il petto; e che dire del ragazzo che con la scuola..? Il maestro, la faccia storta, tamburellando le tozze dita sull’enorme panciotto le aveva sibilato accigliato, “Che ne devo fare di suo figlio, cara la mia donna, uno che ride, scherza, mi tiene i compagni in subbuglio, me li coalizza, tutti contro, ma proprio tutti! come quel Guerreschi, lo scolaro pestifero di Mosca!
Tremando come una foglia, lei aveva fatto cenno di si, con la testa, ma questo Guerreschi non sapeva proprio chi fosse e cosa c’entrasse col suo Ninetto, povero piccolo, che quando la casa le s’era riempita di gente che veniva a fare le condoglianze per la disgrazia, lui, i bottoni neri che spiccavano luttuosi sulla camicia bianca fuori dai calzoncini, saltava gioioso sul letto, su e giù, su e giù, come sulla giostra…Cosa vuoi capire, a sei anni? E adesso, ecco che la grande si vuole sposare, d’accordo, il fidanzato, un bravo giovane, almeno a prima vista, si, perché non è che lo conosca bene, lei. Lavorava fuori città, ogni tanto arrivava all’improvviso, prendeva su la Mara e la portava a spasso fuori -così diceva- e poi a pranzo da sua madre; ricomparivano la sera, lui sempre appiccicato alla ragazza, sempre a parlottarle all’orecchio, lei, la faccetta a chiazze rosse, gli occhi stellanti, l’aria stranita, il sorriso da un orecchio all’altro mentre il suo povero cuore di madre si faceva sempre più piccolo e smarrito.
Marta aveva paura, una paura folle, perché l’uomo alto e bello come un principe che aveva amato come una forsennata se n’era andato una mattina in un attimo, il petto schiacciato dal rimorchio del camion, e dunque non c’era in casa nessun uomo che all’occorrenza potesse far valere la sua autorità per ogni evenienza, per mettere a posto le cose…eh si, la Mara era troppo giovane e troppo innamorata, poteva trovarsi con la pancia da un momento all’altro, e così in definitiva meglio che si sposasse con tanto di prete e abito bianco, gia, ma i soldi? un matrimonio non è cosa da poco, solo per lo stretto necessario di soldi ce ne volevano tanti, una carrettata.
Marta si sentiva girare la testa nel calcolo: l’abito nuziale, i fiori, i confetti, la chiesa, il ricevimento…beh, quello poteva arrangiarlo in casa, d’accordo, ma i dolci, biscotti e paste, il vermut, il marsala, la torta a tre piani, lo spumante, non potevano mancare…Che figura ci farebbe di fronte al parentado, ne avrebbero detto di tutti i colori ché magari quelli si aspettavano il pranzo di chissà quante portate!
Un rinfresco però ci voleva, il minimo, una figlia è una figlia, e per fortuna che il corredo, dodici di tutto, era già pronto perché da madre previdente lei aveva fatto suo il detto “figlia in fasce, pezze nel baule”, per tempo. Quand’era ancora in vita suo marito pur non nuotando nell’oro la casa non mancava di nulla, e lei s’era fornita di tele e lini e aveva  ricamato e confezionato lenzuola, tovaglie, asciugamani, e Dio sa che altro, ma ne occorrevano ancora tante, di cose, abiti, scarpe, borsette, cappellini...
Automaticamente Marta si portò smarrita una mano alla fronte e fu allora che si accorse con sorpresa di esser rimasta immobile davanti alla chiesa di san Benedetto come costretta suo malgrado da una forza misteriosa, inspiegabile.
Da una delle dodici formelle mirabilmente sbalzate che costituivano l’antico portale una figura primitiva, ingenuamente concepita e realizzata, la stava fissando muta.
-Oh san Benedetto, -mormorò riunendo le due mani in preghiera- apritemi una strada!
La voce le si spezzò in un singulto. Gli occhi le si riempirono di lacrime ma le ricacciò dentro, a forza, raddrizzò tosto le spalle, e cercando di non pensare che non aveva nessuno al mondo su cui contare, riprese ad arrancare verso la clinica.
Non aveva fatto che pochi passi quando d’improvviso si sentì abbrancare da dietro, proprio sulla natica destra, una stretta convulsa, oltraggiosa, un attimo lungo come un’agonia; infine un omarino calvo, una giaccaccia da lavoro gettata sulle spalle, in groppa ad una bicicletta sgangherata senza degnarla d’uno sguardo, le sgusciò a fianco e zufolando proseguì a zigzag.
Tutta sossopra Marta restò di stucco senza saper più dove si fosse.
-San Benedetto, -ansimò amaramente- è così che rispondete alla mia supplica?
Gli occhi offuscati da lacrime di delusione cocente, le labbra tremanti di rabbia, Marta cominciò a correre come volesse fuggire via, lontano, da tutto e da tutti, ma in un baleno arrivò in vista della clinica. Si fermò senza fiato, il cuore a mille, meccanicamente si diede un’aggiustata ai capelli che le erano finiti sugli occhi, e a testa bassa infilò il cancello.
Per fortuna niente sorvegliante. Neanche l’ombra. Doveva aver fatto tardi anche lui.
Marta s’immerse subito nel lavoro con quel tanto di lena rabbiosa che l’aiutasse a scacciare l’impressione della scena di poco prima, ma ogni qualvolta che senza volere vi riandava con la mente il ricordo dell’affronto subito le faceva salire il sangue alla faccia che le s’imporporava tutta di sorda impotenza.
-Dove corri, Marta?
Alla domanda allegramente canzonatoria che l’era giunta dal fondo dell’astanteria, Marta trasalì. Si voltò di scatto mentre colei che aveva parlato le venne vicino e disse sorridendo:
-Mi pari una trottola…Ma dove corri, dunque?
Alta e ben messa, i riccioli imprigionati in una cuffia bianchissima, una pila di cartelle cliniche sotto il braccio, la collega la guardava in attesa.
-Ciao, Lina. –disse lei, stancamente. La sua voce suonò talmente rauca ed indistinta che l’altra si chinò su di lei e scrutandola attenta fece:
-Che hai?
-Io..? ma niente. –si schermì- Che vuoi che abbia, le solite cose…Sono in ritardo sulla tabella di marcia perciò devo correre!
Ma l’amica scosse poco convinta la testa e facendosi seria disse:
-A me non la dai a bere, ragazza mia. Che t’è successo?
Il tono tenero, confidenziale, affidabile, col quale Lina le s’era rivolta agì su di lei da conforto tanto insperato da farla d’improvviso crollare.
Piangendo a dirotto, disperata, Marta raccontò ogni cosa: ammiccamenti a mezza bocca, frasi smozzicate, sospiri, se avesse potuto l’avrebbe preso a pugni, lei, quel delinquente, quel porco, farle questo, come s’era permesso, perché non aveva nessuno, lei, a difenderla, ecco perché! la disgrazia s’era presa suo marito e dunque chiunque…qualunque verme della terra poteva permettersi di prendersi delle libertà con lei…Come se niente fosse, non l’aveva neanche degnata d’uno sguardo, come se lei fosse un oggetto di cui tutti potessero abusare…
Lina se n’era rimasta zitta ad ascoltarla, un’espressione indecifrabile sulla faccia dagli zigomi stretti, le labbra in fuori, gli occhi intenti.
-Via, Marta, -disse infine- non prendertela. Non ne vale la pena, lo sai, no, che il mondo è pieno di sporcaccioni!
-Ma perché a me? Che facevo io se non andare a buscarmi il pane?
-Non pensarci, va…In fondo il mondo continua ancora a girare. Lo sai che farei io se fossi in te?
-No, che faresti?
L’amica la guardò e disse ridendo:
-Giocherei al Lotto, ecco cosa farei!
-Ma che dici…-trasecolò lei- hai capito bene quel che mi hanno fatto?
-Certo che ho capito. Io me li giocherei, i numeri!

Senza parole Marta restò a fissare l’amica che mentre s’allontanava verso la direzione la salutava con la mano, due dita alzate a mimare il segno della “v”, infine scosse il capo e riprese di furia il suo lavoro. Ma ci pensava di continuo. In fondo, si diceva, Lina non ha tutti i torti, invece di piangere sul latte versato che non porta ad altro che a farsi venire il sangue amaro, avrebbe dovuto seguirlo quel consiglio, pur se strampalato, pur se dacché aveva perso suo marito, il motivo, il valore della sua esistenza, lei non poteva dirsi proprio fortunata, ah no, davvero..! ma chissà, perché non tentare, poche lire, niente di più, non sarebbe diventata più povera per questo!
Staccando dal lavoro e ritrovandosi in istrada a fare il percorso inverso, Marta tirò via di lungo solo per sostare brevemente a comprare un paio di uova e del pane appena sfornato ché a casa i bambini l’aspettavano impazienti per dividere quel poco che c’era, tutti insieme anche se dalla tavola era scomparsa la tovaglia bianca perché l’uomo di casa non c’era più.
Dirimpetto al fornaio, uscendo, Marta notò che il botteghino del Lotto malgrado l’ora era ancora aperto, e anzi vi si vedeva un insolito movimento.
Spinta dalla curiosità, attraversò la strada ed entrò d’impulso.
Nello stretto locale si era raggruppata una piccola folla di persone, in maggioranza vecchietti speranzosi di arricchirsi a spese dello Stato, alcuni già in possesso di una giocata che avrebbero ripetuto settimana dopo settimana convinti che i benedetti numeri sarebbero alla fine usciti e avrebbero risolto le angustie di una vita tirata con i denti.
-Avete sentito ch’è successo? – stava gridando uno, la faccia rubizza, smaniando d’eccitazione.

 Tendendo l’orecchio anche se in effetti non ce n’era bisogno, Marta venne a sapere di un fattaccio appena accaduto a molti chilometri da lì, in una città che non aveva mai visto anche se ne aveva sentito parlare e, anzi, si era incantata spesso ad immaginare di passeggiare fra quelle strade larghe, piene di bella gente, le piazze,  visitare i palazzi antichi,  i monumenti…un fattaccio clamoroso, un attentato contro un uomo politico di spicco, un capo, uno di quelli che durante il ventennio era scappato in Francia prima e nell’Unione Sovietica dopo, e adesso metteva paura ai nuovi padroni perché voleva cambiare le cose a favore della povera gente. Il nome Marta non l’afferrò, mai sentito, ma lei non seguiva la politica, aveva altro cui pensare!
-Morti e feriti, sissignori, e lui lì, il coso…ah, l’onorevole insomma, ricoverato in ospedale in pro…pro, come si dice, riservata! –concluse sbuffando come un mantice, il poveretto.
-Prognosi…Si dice prognosi, buon uomo! –lo sorresse uno ben vestito, un signore, sorridendo con bonaria ironia. 
-Già, prognosi…I numeri, signori miei, i numeri! dobbiamo sciogliere i numeri. Vediamo, paura  eh? Quanto fa la paura?
-Certo! –saltò su un altro- La paura è la cosa principale da tenere in conto, in un caso del genere! Io son qui che tremo ancora come una foglia.
-Hai ragione! –convenne uno mingherlino con un buffo copricapo verde- La paura fa novanta. Uomo, poi, fa trenta di sicuro. Ma, ospedale…Quanto fa ospedale?
-Chiediamo a don Raffaele! –suggerì una donna intabarrata in uno scialle nero che la copriva da capo a piedi.
-Che bellezza! –concluse un giovanotto, l’occhio lustro, fregandosi le mani- Un terno secco!

 Come un sol uomo la piccola folla si spinse verso lo sportello di don Raffaele, il titolare del Banco Lotto, un ometto cadaverico, pelato come una palla da biliardo, che inforcando un grosso paio d’occhiali, la penna in mano, si rese subito pronto ad evadere le ordinazioni di ambi terni quaterne e cinquine su una o su tutte le ruote, secondo i desiderata dei giocatori.
In disparte, preda di contrastanti umori Marta non poté fare a meno di assistere alla scena di tutti quegli uomini e donne che vociando si accalcavano tutti insieme contro il botteghino mentre il malcapitato titolare agitando frenetico le mani sotto ai loro occhi tentava vanamente di farsi ascoltare.
-Calma, signori, calma…Uno alla volta!
Via, si diceva Marta, che aspetti? vattene a casa! che ci fai tu, qua, in mezzo a questa gente… S’era fatto tardi e i figli l’aspettavano ansiosi, già col cucchiaio in mano e il tovagliolo al collo, di certo avevano fame, poverini, e anche lei non aveva mangiato quasi niente dalla mattina…Ma era come se qualcosa di impellente, più forte di tutti i ragionamenti di questo mondo, la tenesse là, legata a corda doppia, come se la sua stessa vita dipendesse da questo.
Dopo qualche minuto che a lei parve un’eternità, Marta vide la piccola folla disperdersi alla spicciolata, con grandi spintoni e grossi sorrisi stampati sulle facce, ciascuno ostentando con soddisfazione la propria giocata. Un vecchio curvo che si trascinava con l’aiuto di un bastone, uscendo le strizzò l’occhio.
In breve lo stretto locale rimase vuoto. Al di sopra degli occhiali era già da un po’ che don Raffaele la stava osservando, quella donnina minuta, là, sull’angolo, i grandi occhi che imbarazzati non sapevano più dove guardare, i folti capelli neri come ali di rondine, le mani che di continuo ella si torceva come fosse in preda all’indecisione.
-Allora, che vuoi fare, ragazza? Fra poco si chiude.

Quando il sabato successivo munita di carta e penna Marta si mise all’ascolto per radio del bollettino del Lotto, scrivendo con mano tremante i numeri che l’annunciatore andava dettando, ad un certo momento il cuore le morì in petto.
5    30    23Non credeva ai suoi orecchi ma i numeri di san Benedetto c’erano tutti: 5, la mano, 30, l’uomo, e 23 la natica, tutti e tre i numeri, un terno secco, quel che ci voleva per risolverle il problema più urgente, quei tre numeri che il santo le aveva suggerito rispondendo alla sua preghiera.
Ma lei non lo aveva ascoltato.
Lei invece si era fatta giocare dall’entusiasmo collettivo chiedendo a don Raffaele con voce malferma la giocata con i numeri dell’attentato.
 Dei tre, 90, la paura, 30, l’uomo, e 73, l’ospedale, il sospirato terno che avrebbe arricchito mezzo quartiere, era uscito solo il 30.