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I pensieri e le lettere di
Maria Caterina
Chiavari Marini Clarelli

Segno dei tempi
la visita all'ammalata
la preghiera
il dialogo ebraico-cristiano per me
Roma: una scuola per l'India

La nostra Patrona
Montale
2003 l'anno del disabile

pagina dedicata

L'accettazione della sofferenza
I volontari

SEGNO DEI TEMPI

clicca e ingrandisciPer la prima volta le  consorelle della “Congregazione della Madonna della Misericordia di Savona” hanno eletto me priora, una consorella che si muove con la carrozzina. Sono venute a trovarmi in ospedale e mi hanno vista  serena nell’accettare la malattia che mi ha reso invalida. La votazione è stata un “segno dei tempi”, si è privilegiata la mente e non si è badato al corpo!
Nei 7 mesi di ospedale ed anche ora che sono a casa ho  la speranza  di poter di nuovo camminare, pur dicendo al Signore: “sia fatta la tua volontà”. Essa
mi sostiene perchè Gesù è sempre vicino a me dandomi la forza di sopportare i dolori, il coraggio di andare avanti e l’umiltà di accettare l’aiuto degli altri da cui dipendo completamente.  
Ho scoperto, così dei valori a cui non davo importanza durante la mia  esistenza vissuta di corsa per far fronte a tutti gli impegni.
Prima di tutto l’efficacia della preghiera, questo colloquio con un Dio che ti è vicino e  non ti abbandona e l’affetto degli altri. L’importanza di essere accanto a chi soffre e poterlo aiutare, perchè sei come lui, di combattere per i più deboli che non hanno voce e  facilmente vengono schiacciati ed infine di riuscire a rasserenare tante persone depresse,  perchè anch’io sto passando questi momenti.
Come  priora voglio mettere al  servizio delle consorelle ed anche dei confratelli l’esperienza di sofferenza  che ancora vivo e la difficoltà  di accettare il disegno di Dio!

  La malattia ha cambiato la mia scala di valori ,clicca e ingrandisci sono diventata più sensibile verso  gli  altri e  trovo  sempre il tempo di ascoltarli e  capirli, cercando di dir loro le parole giuste.  Voglio mettere in raffronto le mie esperienze con quelle di coloro  che mi sono vicini per capire insieme  che cosa il Signore vuole da noi e far emergere tutte le dinamiche che ne conseguono e le variabili che innescano. Dopo ogni incontro, mi sento più arricchita, avendo cercato di cogliere il positivo del colloquio e questo è necessario per essere poi portatrice di speranza. Desidero accompagnare le persone ad una autoformazione, essere punto di riferimento per coloro che vogliono modificare il loro stile di vita ed una presenza positiva, capace di dar fiducia, senza mai sostituirmi agli interlocutori. Questo perchè è importante arrivare, con l’aiuto dello Spirito Santo,  a vivere una vita cristiana conforme all’età, alle proprie basi culturali e spirituali.
Per essere veri cristiani nella vita quotidiana“...si devono soccorrere i deboli ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse:Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”(At 20,35).
E’ questo il cammino che  voglio fare per vivere  in modo propositivo e stimolante la mia testimonianza verso coloro che sono alla ricerca del senso della propria  esistenza.
La preghiera, un incontro con Dio molto forte, ed i carismi della congregazione e della confraternita, mi aiuteranno nel mio compito.
Maria Caterina Chiavari Marini Clarelli    
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LA VISITA ALL'AMMALATA

“Venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perchè...io ero...malato e mi avete visitato”(Mt 25,34-36). Questo è quello che l’ammalata augura a tutti quelli che sono venuti e verranno  a trovarla!
Secondo la logica dell’economia della salvezza, Dio  si immedesima in lei ed insieme attendono i visitatori. Infatti ella ha bisogno della comprensione, del sorriso, dell’aiuto degli altri. Aspetta che si sprigioni in loro la bontà, l’amore e la pazienza in tutte le varie forme, perchè Gesù vuole che dalla sofferenza e attorno ad essa cresca la solidarietà dell’amore,  quel bene che certamente è in ognuno di noi e che assume i connotati della condivisione (essere-con), del dono totale di sè (essere-per) e si identifica infine con la gratuità. Come insegna la parabola del buon samaritano(Lc 10,25-37), chiunque incontri un sofferente ha il preciso dovere di intervenire con tutti gli accorgimenti affinchè il dolore sia diminuito. I credenti, in quanto  partecipi dell’amore divino, devono impegnarsi a mettere in pratica il detto di Gesù:“Amatevi, come io vi ho amati”(Gv 13,34).
L’ammalata ha avuto la fortuna di ricevere questa solidarietà, che richiama  soprattutto l’idea dell’unità operosa nel condividere la sua situazione, nell’essere a suo servizio, progettando e realizzando un soccorso efficente. Ella apprezza tanto tutti coloro che hanno saputo trovare il tempo ed il modo  di venirla a trovare, sempre disponibili per sbrigarle le commissioni di cui ha avuto bisogno. Ha perciò il desiderio di rivolgere loro la propria valutazione, il proprio affetto e ringraziarli di cuore. Sono tutti ricordati nelle sue preghiere,  perchè non l’hanno mai fatta sentir sola, nè abbandonata.Così  tra di loro è nata o si è consolidata  un’amicizia voluta da Dio, un’intesa reciproca e disinteressata. Gesù  autenticandola con il Suo stesso esempio l’ha santificata, rendendola soprannaturale e possibile. C’è un affetto di benevolenza, disinteressato, che comporta una comunicazione reciproca, una promozione che va da una persona all’altra e aiuta l’ammalata ad accettare la sofferenza. Avviene infatti qualcosa di misterioso e a tutta prima incomprensibile. L’ incontro genera la gratitudine  che diventa, con il tempo, molto  tenace  e proietta fuori di sè la forza dell’amore divino.
Colei che soffre, in una reciproca crescita e maturazione, percepisce la gioia di ricevere, ma anche quella di donare. Si realizza un incontro interpersonale, risultante da una libera inclinazione sperimentata nella comunicazione spirituale, fondata sulla  simpatia,  su una durevole unione e su una comune visione e valutazione delle cose.  Si sprigiona un influsso tra le  persone dovuto alla loro ricchezza spirituale e non alla loro cultura. Non ha importanza quello che esteriormente si  comunicano, ma quello che sono. La vera potenza non è tanto sul piano del dare, quanto su quello dell’essere. Ciò che in ogni caso è da assicurare è l’atmosfera divina in cui l’amicizia può vivere e conservarsi. “Niente è così potente tra le cose umane, per mantenere lo sguardo rivolto sempre più intensamente  a Dio  che l’amicizia degli amici di Dio”( Simone Weil “Attente de Dieu”).
La malattia è una realtà atroce, straziante, misteriosa, sconvolgente vi sono i dolori fisici, morali e spirituali, che solo chi è credente può accettare con serenità dicendo con Paolo: “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa”(Col 1,24).
Credere in Dio non fa guarire, ma dà la forza di accettare  secondo il proprio carattere e le proprie abitudini, anche se non è una cosa facile. Non toglie il dolore, ma lo illumina, lo eleva, lo purifica, lo sublima, lo rende valido per l’eternità.  
 

Solo chi è vicina al Signore può accettare con serenità, perchè supera la sfiducia con una rinnovata decisione di fede accompagnata dalla speranza, che trasmette a chi le è vicino.
Il senso di precarietà e di fragilità viene maggiormente sentito quando il   male si presenta come una forza disgregatrice che minaccia l’integrità della persona stessa. In questa situazione nascono sentimenti di sfiducia, di angoscia, di rifiuto assieme a fasi di depressione, che generano nell’inferma la percezione di uno stato umanamente insuperabile, specialmente quando i dolori sono forti e durano a lungo. Avendo studiato teologia e fatto un’esperienza religiosa, si è più sensibili e si riesce ad offrire la malattia a Gesù come partecipazione all’opera della Sua Redenzione. Per l’inferma è un merito e per la sua anima un mezzo sicuro di purificazione e di elevazione. Inoltre chi soffre capisce meglio i visitatori e tenta di comunicar loro le ricchezze che ha accumulato dentro di sé. E’ un modello nuovo di incontro più umano e più divino in cui si scopre che l’attenzione reciproca è un bisogno fondamentale. Chi è  riuscita a vivere il suo quotidiano in chiave di speranza deve ritrasmetterla.
Dio è per lei Colui con cui sta facendo l’esperienza della chiamata a diventare un’altra e nello stesso tempo si sente trasformata da Lui.
Non solo l’amicizia, ma anche l’accoglienza esige delle condizioni: vivere nella Verità che libera(Gv 8,32),  ed esser sinceri e fedeli alle sue  esigenze. San Agostino ci dice “ama e poi fa ciò che vuoi”; infatti solo coloro che sono ben integrati e maturi sono in grado di amare, rispettando la sofferenza dell’ammalata. Nel quadro teologico-biblico l’inferma fa un grosso sforzo per comprendere quello che le sta succedendo. L’emergere del senso della malattia le appare pian piano come una realtà più  vasta della guarigione in senso clinico e intuisce di  partecipare al carattere trascendente della salvezza. Averlo capito fa sì che dalla passività distruttiva della malattia, in cui si sente sottoposta insieme all’esperienza della radicale povertà del suo essere creatura, scaturisca una crescita spirituale. La tentazione della sfiducia deve essere superata da una rinnovata decisione di fede accompagnata dalla speranza.
Per riuscire in tutto ciò è necessaria una grazia speciale che si riceve con l’unzione degli infermi. Questo sacramento aiuta a trasformare la condizione critica del male in un luogo di salvezza. E’ stato detto da Gesù Risuscitato:“quelli che credono nel mio nome....imporranno le mani ai malati e questi guariranno”(Mc 16,16-18). Chi comprende l’importanza di queste parole  diventa protagonista dell’evento sacramentale, perchè l’ha chiesto liberamente  rinnovando così la sua fedeltà  alla volontà di Dio.
Nel  libro della Bibbia, Giobbe viene descritto come un uomo ricco e religioso, il quale perde  i suoi beni, i suoi figli ed è  afflitto da una grave malattia.  Egli però rifiuta di imputare a Dio le sue disgrazie, dicendo “ Il Signore ha    dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” (Gb1,21).
Vengono a visitarlo gli amici  che vogliono spiegargli cosa gli sia successo, ma lui risponde rivolgendosi a Dio, con la convinzione che soltanto la fede rende tollerabile il male:“Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te”(Gb 42,1-2) ed infatti il Signore“accrebbe, anzi del doppio, quanto,Giobbe aveva posseduto.“(Gb 42,10).
Giobbe insegna che chi soffre  deve persistere nella fede, anche quando è sfiduciato.
L’ammalata cristiana va oltre; ella deve vivere il valore della  sofferenza insieme a quella di Gesù, perchè come dice San Paolo: “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”(Rm 8,18).
Maria Caterina Chiavari Marini Clarelli
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LA PREGHIERA

 

Il dialogo
ebraico-cristiano per me

Dal profondo a te grido, o Signore,
Signore, ascolta la mia voce
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia preghiera
” (Sal 130,1-2)
La preghiera non è chiedere a Dio che esaudisca le nostre richieste, ma esprimere il desiderio che la Sua volontà si realizzi in noi con la convinzione che  essa contenga ciò che di più buono possiamo desiderare.  Non sono le nostre preci che hanno la forza di operare, ma siamo esauditi  perché Dio lo vuole ed esse non possono cambiare la Sua immutabile eterna volontà, ma cambiano noi. Perciò pregare è esprimere completa fiducia nel suo amore per noi, non è la richiesta di sfuggire il dolore, ma chiedere la fede necessaria per sopportarlo.“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”(Gb 1,21).
La preghiera è qualcosa  di spontaneo e di indispensabile, ma quando viene considerata gravosa e pesante, vuol dire che  manca l’amore disinteressato verso gli altri, il donarsi.  Gesù ha detto:“Nessuno ha un amore più grande  di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando”(Gv 15,13-14) . Infatti“chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”(Mt 16,25). Una persona capace di amare così, donandosi all’altro è una persona che sa pregare.
Abbiamo visto alla televisione e letto nei giornali che dopo i terremoti e le alluvioni, tutti vanno ai funerali, dalle autorità ai  semplici cittadini.   Sia coloro che non pregano normalmente, che i non credenti e gli atei tutti indistintamente, ciascuno a modo suo, erano uniti in questo gesto di solidarietà verso i morti e la preghiera è diventata naturale e necessaria.  Ciò che l’ha resa  genuina è  l’amore verso il prossimo. Amore e orazione sono indispensabili come la vita ed il respiro.
L’amore di Dio verso  di noi  viene accolto nel nostro cuore e donato all’altro (cf Mt 22,37-39). “Noi amiamo perché Egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,19), perciò anche la preghiera deve venire da Dio ed  entrare nei nostri cuori attraverso lo Spirito  Santo (cf Rom 5,5) che intercede per noi (cf Rom 8,15-16) non essendo noi all’altezza di pregare come si deve. Lo Spirito soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” (Gv 3,8).
L’essenza della preghiera è estendere il Regno di Dio su tutta la terra, come è nel Suo piano, accogliendo così i Suoi desideri. Di solito l’orazione viene concepita come un dialogo con Dio, ma forse è meglio viverla come un momento di silenzio davanti al Signore, perché Lui non parla come noi. Dialogo con Dio è luce interiore, è intimità creata da un rapporto cuore  a cuore  dal quale sgorgano sentimenti di gratitudine, di lode, di umiltà e di pentimento.
Analizzando meglio, si capisce che pregare vuol dire rimanere in silenzio  davanti al Signore piuttosto che conversare con Lui, vuol dire immergersi in Dio, non solo con l’anima, ma con tutto il nostro corpo. Ascoltare il Signore, implica una conoscenza profonda, che sfocia in un impegno, in un desiderio di sentire bene la parola di Dio che si  manifesta non tanto con un discorso, ma con gli eventi della vita di tutti i giorni, come fece la Madonna, che è il nostro modello di preghiera  silenziosa.
La gioia vera, quella che nessuno ci può togliere, nasce dal cuore sereno che riposa nel Signore, in silenzio  davanti a Lui e  comprende la Sua voce. Attraverso l’orazione  impareremo a riconoscere la voce di Gesù e a seguirLo:“Le mie pecore ascoltano la mia voce io le conosco ed esse mi seguono”(Gv 10,27).
Tutti possiamo e dobbiamo pregare qualunque sia l’ambiente e la condizione sociale e tocca a noi trovare il modo più adatto. La forma o il modo di invocare Dio può variare secondo la spiritualità di ognuno  perché la preghiera non può essere isolata dalla vita. Naturalmente, nonostante la buona volontà, le preoccupazioni quotidiane e le sofferenze finiscono spesso per irrompere proprio quando cerchiamo di pregare. Le distrazioni involontarie non possono essere evitate e se ci  accorgiamo che la mente sta divagando non ci dobbiamo preoccupare, ma restare in pace e trasformarle in orazione, con la sicurezza che “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza,... poiché Egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26-27).
E’ difficile cambiare la vita stressante e indaffarata che conduciamo, perciò bisogna viverla come preghiera e trovare il tempo libero  per stare in compagnia del Signore. Gli avvenimenti della  vita quotidiana e non i pensieri sublimi sull’amore di Dio,  spesso  sono alla base delle nostre preci . E’ necessario quindi stare in silenzio ed ascoltare la parola di Dio:“Parla Signore,perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9).
Quando l’orazione diventa una conversazione con il Signore, dobbiamo soprattutto ascoltare: “chi ha orecchi intenda”(Mt 11,15). E’ un impegno, ma anche un’accoglienza, un’attenzione, una meditazione della Sua parola per comprenderla bene. Non c’è cosa pari alla preghiera capace di  farci penetrare  nella realtà spazio e tempo, esistenza e tempo. Chi prega trascende il tempo e lo spazio pur essendovi dentro, fa suoi i desideri di Dio e si trasforma orando. Infatti Egli sa meglio di noi ciò di cui abbiamo bisogno.La fede ci rende capaci di  accettare con semplicità anche il fatto che, a volte, le nostre preci non siano esaudite. Dio aspetta da noi che continuiamo a pregare  e a chiedere con fiducia. Molte volte Egli ci fa attendere  per poi concedere quello che domandiamo. Se non ci esaudisce, questo è un mistero della Sua divina volontà: è il mistero della Croce. Gesù ha detto“Come tu,Padre, sei in me e io in te, siano anche essi in noi  una cosa sola”(Gv 17,21). Solo Dio sa qual’è il  nostro bene, essendo sempre  fedele alla Sua giustizia e al suo amore verso di noi.
Pregare, è conoscere Dio, anzi essere da Lui  conosciuti (cf Gal 4,9). Non è  una questione privata tra noi e il Signore, ma è l’orazione dell’umanità intera, una supplica  per esaudire le problematiche del mondo, che costantemente indirizziamo a Lui. 
Porgi l’orecchio, Dio, alla mia preghiera,
non respingere la mia supplica;
dammi ascolto e rispondimi,
mi agito nel mio lamento e sono sconvolto”
(Sal 55,2-3)            
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  Alla fine degli anni ottanta ad un convegno del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche)  ho capito che era indispensabile per me conoscere l’ebraismo e dialogare con gli ebrei per meglio conoscerli. Ho perciò frequentato il seminario tenuto da Amos Luzzato che mi ha aperto una nuova strada e  consigliato  di far parte dell’Amicizia Ebraico Cristiana(AEC) di Roma. Sono entrata in questa associazione e mi  sono sentita accolta, tanto da accettare di far parte del  Consiglio direttivo ed in seguito di essere eletta  Presidente dell’AEC di Roma e della Federazione delle AEC in Italia.
La fondazione delle Amicizie è stata una sfida ed un atto di fiducia per i Cristiani e per gli Ebrei, che nella convinzione di essere portatori di valori etico-religiosi, sono riusciti a coltivare e sviluppare quanto c’era in comune tra le due religioni.
Da allora ho sempre lavorato nella AEC e ho acquistato molti amici. L’amicizia tra di noi è stata sempre rispettosa, è  cresciuta con la conoscenza reciproca, partecipando alle vicende gioiose o tristi dell’altro, capendolo ed impedendo che venga offeso. E’ importante  lavorare insieme, pur essendo di religioni diverse ed anche noi cristiani di diverse  confessioni, perché tutti perseguiamo lo  stesso scopo: combattere l’antisemitismo e realizzare la pace.
Tutti gli anni ai primi di dicembre nel monastero di Camaldoli si svolgono i Colloqui Ebraico Cristiani organizzati dalle AEC insieme a Padre Innocenzo Gargano. Sono giornate importanti di coesione ed un punto di riferimento obbligato per il dialogo ebraico-cristiano in Italia.
Durante i colloqui, i soci delle AEC hanno sentito  la necessità di creare una Federazione delle Amicizie Ebraico Cristiane in Italia per rafforzare i vincoli umani e rendere possibile una maggiore resistenza ai pericoli che si  potevano presentare.  E’ anche essenziale  per  migliorare la conoscenza tra ebrei e cristiani, agevolando quell’unità che fa sentire tutti figli dello stesso Dio, eliminando le differenze reciproche.
Ho rappresentato la Federazione delle Amicizie Ebraico Cristiane in Italia nei convegni  dell’ICCJ (International Council of Christians and Jews) che si svolgono ogni anno nelle diverse nazioni dove hanno sede le AEC e ne ho organizzato uno a Rocca di Papa dal 7
all’ 11 settembre 1997.
L’ICCJ è nata nel 1946, nel ricordo della Shoà; nel 1947 ha redatto “I 10 punti di Seelisberg” frutto di un intenso lavoro a cui parteciparono Jules Isaac e Jacques Maritain. Un documento che, dopo tanti secoli di incomprensione e diffidenza nei rapporti fra ebrei e cristiani, può essere considerato come il primo importante tentativo di cambio di mentalità, capace a dar vita ad un nuovo atteggiamento che sarà riconosciuto dalla Chiesa cattolica durante il Concilio Vaticano II nella “Nostra Aetate” al paragrafo 4 e nei documenti successivi del Magistero.
A tutt’oggi,  fanno parte dell’ICCJ  31 nazioni  dove esistono le AEC ed è la più importante associazione in ambito mondiale per il dialogo ebraico - cristiano.
Far parte di queste associazioni è fondamentale per me anche da un punto di vista spirituale, mi danno un senso di comunione più ampia e mi pongono  in una sorta d
i
dialogo internazionale!
Sono sicura di essere chiamata ad amare il popolo di cui l’ebreo Gesù faceva parte, a studiare la religione da Lui professata ed a distruggere i pregiudizi e le opinioni distorte che alimentano l’antisemitismo per poi costruire la pace.
Giovanni Paolo II il 16 settembre 1990 diceva ai responsabili del  “British Council for Christians and Jews”  ricevuti in udienza:“è stato giustamente riconosciuto che l’antisemitismo, così come tutte le forme di razzismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità e come tale deve essere condannato e rifiutato”. Durante il suo pontificato ha dato segni concreti
riguado agli ebrei. Ero presente nella basilica di San Pietro, durante il Giubileo e mi sono commossa
quando ha chiesto loro perdono! 
 Ho cercato durante tutti questi anni di proporre ai cattolici la conoscenza ed il rispetto verso gli ebrei inducendoli ad un vero e sereno dialogo in cui si parli fraternamente con loro e si riscoprano i  valori biblici, le loro sofferenze e le nostre comuni radici.
La Conferenza Episcopale Italiana, basandosi  sulla dichiarazione “Nostra Aetate” il 28 settembre 1989 stabilì, per la prima volta nel mondo, che ogni anno il 17 gennaio si celebrasse in Italia una “giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del  dialogo religioso ebraico-cristiano”. Negli anni passati ho tenuto tante conferenze per sensibilizzare i cattolici al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica con diversi tipi di uditori. Sono stata anche in un convento di clausura.
Ho voluto scrivere  del mio impegno verso gli ebrei, per far meglio  capire lo stato d’animo di quando in ospedale mi sono resa conto di essere  paralizzata.  Volendo andare al colloquio di Camaldoli, chiesi al Primario di Neurologia d’urgenza del San Giovanni-Addolorata quando sarei guarita. Mi rispose: “Disdica tutti i suoi impegni e non ne prenda dei nuovi”! Non trovo le parole per scrivere come mi sono sentita! Ho capito che, se andava bene, non avrei più camminato. E’ passato più di un anno e dopo 7 mesi di ospedale sono ritornata a casa in carrozzina.
Quello che voglio testimoniare con questo scritto è che ho avuto durante la mia degenza sia in ospedale,  sia a casa tante visite, telefonate e lettere di molti miei amici ebrei. Dal Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni  in ospedale, a Lea Sestieri con Lilli Spizzichino, a Vera Nunes Vais, al carissimo Natan Ben Horim e mi scuso se non nomino tutti coloro che mi sono  vicini, mi  aiutano psicologicamente e mi tengono al corrente delle varie attività... l’amicizia ebraico cristiana  continua anche per me!
Nella mia immobilità, anch’io  ho voluto far qualcosa per il dialogo. Innanzi tutto, ho sempre offerto le mie sofferenze perché finisca la guerra in  Israele sentendomi vicina agli  amici che abitano lì.
Tutte le sere dal primo di ottobre recito il Rosario per la pace come ha scritto  il Santo Padre  e mi sento molto impegnata.
<Il Rosario è preghiera orientata per sua natura alla pace, per il fatto stesso che consiste nella contemplazione di Cristo, Principe della pace e “nostra pace”(Ef 2,14). Chi assimila il Mistero di Cristo - e il Rosario proprio a questo mira -, apprende il segreto della pace e ne fa un progetto di vita.......E come ( si potrebbe) contemplare il Cristo carico della croce e crocifisso, senza sentire il bisogno di farsi suoi “cirenei” in ogni  fratello affranto dal dolore o schiacciato dalla disperazione?....Insomma, mentre ci fa fissare gli occhi su Cristo, il Rosario ci rende anche costruttori di pace nel mondo.....esso  ci consente di sperare che, anche oggi una“ battaglia” tanto difficile come quella della pace, possa
essere vinta.>(Rosarium Virginis Mariae n.40)      top

 ROMA: UNA SCUOLA  PER L’INDIA

 

L’ACCETTAZIONE
DELLA SOFFERENZA 
PER AIUTARE GLI ALTRI

Nel 1989 la professoressa Caterina Conio mi scrisse parlandomi dell’ASSEFA e proponendomi di adottare a distanza un bambino indiano. L’idea mi piacque, così cominciai a conoscere l’associazione e a corrispondere con il mio nuovo “figlio” Ponthi-Alagan al quale se ne sarebbero aggiunti altri. Lo scambio di fotografie e di lettere ci avvicinava sempre di più.
Quando nel 1995, Itala Ricaldone, presidente dell’ASSEFA Italia, mi chiese di diventare la referente dell’Associazione  per Roma, accettai volentieri, contenta di poter collaborare ad accrescere il numero delle adozioni nella capitale. Offrire a tanti bambini del Talminadu la possibilità di trascorrere  un’infanzia serena, di studiare anziché essere costretti a lavorare in fabbrica, è stato il mio impegno di questi anni. Fra la fine del 1997  e l’inizio del 1998 sono stata in India, dove ho visitato numerosi villaggi del Talminadu e mi sono interessata delle attività svolte dall’ASSEFA. L’incontro con Ponthi-Alagan è stato molto emozionante per entrambi. Ora ha un negozietto nel suo villaggio  e, dopo la morte della madre, mantiene il padre e due sorelline. Avendo constatato che nel villaggio di Nallapaly (VNLP) dove vivono molti bambini adottati dal nostro gruppo, mancava una scuola, ho pensato di lanciare una raccolta di fondi per poterla costruire. Così ho inviato una lettera ai genitori adottivi e agli amici, parlando del mio“sogno” e allegando la pianta della scuola. Grazie alla generosità di molti, sono riuscita a raccogliere la somma necessaria e a spedirla in India. Tuttavia il “sogno” non si è realizzato subito perché nel frattempo anche il Governo Indiano aveva scelto quello stesso villaggio per edificare una scuola, come poi ha fatto e a noi è stato chiesto di spostarla in un altro. Così la scuola dell’ASSEFA gruppo di Roma è stata costruita nel villaggio di Ayyar-Puram e, come si vede dalla fotografia, non solo è stata finita, ma è già in piena attività.
Visto che gli impegni del nostro gruppo aumentavano, d’accordo con la sede di Sanremo, abbiamo scelto di diventare una Onlus. Il 7 giugno 2001, presso il notaio Alessandra Sbardella (genitrice adottiva) si è costituita l’“ASSEFA gruppo di Roma”. Lavorare insieme, suddividendo i compiti, è stata una decisione molto positiva.
Durante la mia lunga malattia, l’attività del gruppo è proseguita soprattutto per merito di due consigliere, Manuelita Moris e Laura Gorgosalice e del vice-presidente Edek Osser, che hanno assolto tutti gli impegni e che ringrazio di cuore. Edek è stato in India nel febbraio per visitare i villaggi ASSEFA ed ha filmato le attività che si svolgono nel Talminadu. Uno dei cortometraggi è stato mandato in onda il 10 maggio 2002 su RAI  DUE, nel corso del programma “non solo soldi”, che viene trasmesso anche in tutte le stazioni estere. Era molto interessante il commento della giornalista Tina Lepri, moglie di Edek. Ambedue hanno adottato due bambini attraverso l’ASSEFA. Ora abbiamo lanciato un’altra raccolta di fondi e mi auguro che presto un altro villaggio ASSEFA avrà una scuola voluta dal gruppo di Roma.  
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I VOLONTARI


La parola “volontario” viene da “volontà” e richiama il valore della spontaneità. Seguire la persona, soprattutto se anziana e malata, è una delle missioni a cui i volontari si dedicano con grandissima cura. A colui che soffre portano un momento di serenità e di compagnia perché s’interessano di lui  e  condividono le apprensioni per il suo stato. Pensano al suo bene oggettivo e soggettivo  in un atto di benevolenza, hanno la gioia di donare e ricevere che sfocia in una reciproca crescita e maturazione.
Quando agiscono lo fanno spontaneamente, senza essere costretti, nè  retribuiti. Coloro che conosco, lo compiono per loro iniziativa, senza essere collegati con  gruppi o associazioni, mettendo a disposizione periodicamente il loro tempo per tener compagnia. Lo realizzano nelle ore libere dalle proprie occupazioni professionali o familiari. Si dedicano  al sostegno delle persone, nel periodo in cui sono malate sia all’ ospedale che in casa, per  libera scelta.
Essi portano nella società una maggior umanizzazione e introducano tra le persone  i valori  più importanti del servizio materialmente reso. Con gesti concreti trasmettono una provocazione e una sfida alle logiche dominanti  del nostro tempo. Si fanno carico dei disabili e li stimolano ad uscire dall’isolamento privatistico  e dal disimpegno, si responsabilizzano di fronte alle sofferenze degli altri, assicurando così  un contributo che ognuno è in grado di dare. C’è una condivisione gratuita del proprio tempo e ciò costituisce un germe di rivoluzione culturale rispetto alla logica imperante del profitto  e alla frenesia dell’accumulo. Pongono come punto focale della loro vita  l’essere invece dell’avere, il rapporto umano rispetto al possesso delle cose. 
Chinandosi verso il debole, evidenziano il valore originario dell’uomo  a prescindere  dalla salute e dalla potenzialità produttiva. Hanno la disponibilità non tanto a realizzare dei servizi, quanto a porsi in ascolto per conoscere di che cosa  l’infermo ha bisogno e come vuol essere aiutato. Modificano il loro impegno adattandosi alle necessità dell’altro.
I volontari  lavorano con  la persona, più che per la persona, diventando umili davanti agli handicappati,  ricevendo così più di quello che hanno dato.
Certamente gli infermi non sono migliori degli altri solo perché malati, ma la condizione di sofferenza ha consentito loro di avere dei valori che il clima della società del benessere ha cancellato. 
I volontari sia cristiani che non credenti hanno in comune l’attenzione verso  il debole, l’impegno preferenziale per chi soffre ed il senso della solidarietà reciproca.Questo obbligo è oggi tanto più rilevante, in quanto è finalizzato a contribuire al superamento di quella condizione di emarginazione e di solitudine, in cui gli ammalati sono collocati dalla società dell'efficienza.
I volontari cristiani trovano il fondamento e le motivazioni ultime del loro impegno nella fede della presenza di Dio in ogni uomo.Credere in questo fornisce la motivazione sostanziale sia  alla corresponsabilità reciproca, sia alla  certezza che ogni persona è portatore di valori.  Inoltre essi sono sostenuti dalla preghiera ed hanno nella carità il loro segno di riconoscimento.  Da Gesù hanno imparato: “ Vi ho dato infatti l’esempio, perchè come ho fatto io, facciate anche voi”(Gv 13,15).
Dio semina il bene e chiunque lo può compiere. C’è un senso di gratuità che ha caratterizzato l’amore di Dio per l’uomo nella persona di Gesù:“Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perchè il mondo si salvi per mezzo di lui”(Gv 3,17). E’ l’amore che costituisce per il credente e per la comunità il necessario punto di riferimento.
I volontari possono aiutare gli altri cristiani con la testimonianza di quello che fanno condividendo la sofferenza del malato, realizzando in termini concreti la scelta prioritaria dell’assistenza al sofferente. 
La coscientizzazione sociale  consiste per loro nel farsi carico della situazione di difficoltà dei disabili e degli anziani   sviluppando così una rete di fratellanza. La loro solidarietà richiama soprattutto l’idea dell’unità operosa nel condividere le situazioni, nel progettare e realizzare un aiuto efficace  e perseverante. Se c’è un handicappato che sta male per la sua limitazione fisica, i volontari hanno il preciso dovere di intervenire in tutti i modi perché quella sofferenza sia diminuita ed egli  non venga mai emarginato a causa del suo stato. Quando lottanno contro la cultura che rifiuta il “diverso”, hanno  un ruolo profetico in quanto  segnalano alla società il suo sbaglio.
Essi, sono al  servizio del malato e si donano a lui in completa gratuità, ma proprio per questo sono stati erroneamente  considerati come persone che lavorano senza essere pagate, alle quali volentieri  l’ente pubblico delega la realizzazione di alcuni suoi doveri. Faccio un esempio: nel reparto dell’ospedale dove sono stata ricoverata, per 48 pazienti c’erano,in alcuni giorni, 2 infermieri e se non ci fossero stati i volontari( parenti e amici degli ammalati) i disabili sarebbero restati a letto tutto il giorno.
Non deve succedere che nell’incontro gli handicappati, gli anziani i volontari siano  attenti alle persone, dialoghino con loro, siano servizievoli e poi nella vita familiare siano scontrosi, autoritari, intolleranti. Così facendo essi mostrerebbero nei fatti  di non credere ai valori che vanno dichiarando e ostentando. Il cambiamento più sicuro deve essere quello che essi realizzano in loro stessi , nella propria vita, nei propri rapporti, trasferendo nell’attività ordinaria i valori umani che sperimentano nell’azione volontaristica.
Vorrei terminare con le parole scritte ai genovesi dall’Arcivescovo eletto di Genova Mons.Tarcisio Bertone che ho avuto il piacere di conoscere: “Agli anziani, agli ammalati  ed a tutti i sofferenti nell’anima e nel corpo tendo affettuosamente la mano, ben sapendo che essi sono la porzione eletta del popolo di Dio che è in Genova, e che la loro preghiera, avvalorata dalla partecipazione al sacrificio di Cristo, ha un’efficacia singolare, alla quale vorrò sempre attingere.<Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per la società> (Giovanni Paolo II)”. 

  Se per 7 mesi ho potuto restare in ospedale  ed anche ora, a casa, continuare  ad accettare la mia malattia è perché ho utilizzato e valorizzato bene la sofferenza. Ho infatti la certezza che il dolore non è mai vano, mai inutile. Anzi nel momento in cui mi sono accorta di essere paralizzata, di dovere dipendere in tutto dagli altri, ho elevato la mia esistenza ad una dimensione soprannaturale per riscattarla e sublimarla per un destino superiore che oltrepassasse la mia situazione personale e servisse ad una società, che ha tanto bisogno di chi sappia accettare la sofferenza. Ho capito di poter collaborare con Cristo nel piano della salvezza e diffondere intorno a  me  un esempio di forza morale, che solamente chi soffre, con la fede nell’anima, può comunicare agli altri. Come ha scritto San Paolo:”Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è  la Chiesa“ (Col.1,24).Mi ha molto aiutato assistere alla Messa e ricevere ogni giorno la Comunione.Ho chiesto al cappellano l’unzione degli infermi con spirito di grande fiducia e l’ho ricevuta nella camerata dell’ospedale, presenti le altre ammalate. E’ stata per me  una fonte di forza sia per l’anima che per il corpo. Ho invocato anche  la guarigione, ma sempre al fine che la salute del corpo mi porti ad una unione più profonda con Dio attraverso l’accrescimento della grazia.Pur permettendo l’esistenza della sofferenza nel mondo, certamente il Signore  non ne è contento, perché è un Dio di misericordia. Infatti Gesù ha amato i malati ed ha dedicato una gran parte del suo ministero terreno a  guarirli e  a confortarli. Al lebbroso, però, che gli chiede:”Se vuoi puoi guarirmi“(Mc 1,40),quando è risanato, Gesù gli  proibisce di parlare del  suo risanamento e c’è sempre durante la Sua vita  molta riservatezza  riguardo alle guarigioni. Il Suo atteggiamento fa capire che è qualcosa di eccezionale, dal punto di vista dell’economia divina della salvezza.Ho molto pregato Maria, l’ho invocata come salute degli infermi, recitando nella cappella dell’ospedale il rosario e rispondendo alle litanie della Madonna.Sono certa che ha presentato le mie sommesse invocazioni ed i miei affanni a Gesù,  il solo sollievo e ristoro nelle tribolazioni della mia vita. Questo intimo e filiale colloquio con Maria nelle ore della solitudine, dell’angoscia e della disperazione, mi ha aiutato a sopportare la mia croce e a capire che le mie sofferenze diventavano fonte di merito.Ho anche scoperto un maestro che guardo alla televisione e di cui ascolto e leggo le parole. Mi è di esempio in questo periodo di sofferenza,  mi predilige ed ha affetto per me,  perché sono malata e prega per me, anche se non mi conosce. Infatti Giovanni Paolo II mi può capire proprio perché ha sperimentato la sofferenza ed ha conosciuto la debolezza fisica, che deriva dalla menomazione e dalla malattia. Ha vissuto  il dolore del corpo con fortezza cristiana senza mai perdersi d’animo, dando un valore superiore alle sue malattie santificandole e si è abbandonato con fiducia al Signore che lo prova, riuscendo a condividere le Sue sofferenze per partecipare anche alla Sua gloria (cf. Rm 8,17). Alle udienze ha sempre voluto gli ammalati accanto a sè ed ha  parlato loro considerandoli vicini al suo cuore e molto importanti per il bene della Chiesa. Per il Papa le nostre  vite hanno un profondo significato, perché la sofferenza cristianamente accolta e sopportata è preziosa agli occhi e al cuore di Gesù,  una sorgente di bene per lo stesso ammalato, per la Chiesa e per i fratelli. Ha sempre  esortato gli infermi a non cedere allo scoraggiamento, ma a lottare contro la malattia per riacquistare la salute e la piena  disponibilità  verso sé stessi, per essere un monito vivente di una realtà fondamentale per il cristiano: la croce portata per amore del Signore  e dell’umanità. La strada per ottenere un’autentica serenità, un forte sostegno ed un’incredibile forza è quella dell’imitazione di Cristo sofferente.  La nostra sofferenza, unita alla Sua, se accettata ed offerta con generosa disponibilità, diventa una sorgente di bene e uno strumento prezioso di redenzione per la salvezza degli altri ed un grande valore nel piano di Dio. Per il Papa, saper soffrire con amore, con rassegnazione, con coraggio, con fiducia, con pazienza è una grande arte che si impara soltanto con l’aiuto della grazia divina alla scuola di Cristo Crocifisso, che conosce e santifica la nostra sofferenza. 
Quando Giovanni Paolo II ha incontrato i malati all’udienza del 13 gennaio 1982 disse loro:”Siate coraggiosi e forti: unite i vostri dolori e le vostre sofferenze a quelli  del Crocifisso e diventerete corredentori dell’umanità insieme al Cristo. Il Papa  è con voi e vi ricorda sempre nella preghiera”. Quando egli deve partire chiede ai  malati di offrirele loro sofferenze e di seguirlo da vicino durante il viaggio; è sicuro che possono far molto per lui, ma allo stesso tempo, promette    di pregare per loro e per la loro salute durante la Messa ( cf. Omelia nella Basilica di S.Pietro 11 febbraio 1982). Negli ultimi viaggi del Papa io ho offerto le mie sofferenze per lui.
Come scrive l’Anonimo Brasiliano nel “Messaggio di tenerezza”, anch’io, durante la mia vita, ho camminato sulla sabbia accompagnata dal Signore ed ho sempre  visto  le orme  del Signore insieme alle mie. Durante la mia malattia mi sembrava di vedere solo le mie ed “ho domandato allora: Signore, tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita ed io ho accettato di vivere con te, ma perché mi hai lasciato sola proprio nei momenti peggiori della mia vita?” Il Signore mi ha risposto dicendomi:“Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te durante tutta la camminata e che non ti avrei lasciata sola neppure per un attimo e non ti ho lasciata...i giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia sono stati i giorni in cui ti ho   portato in braccio”. 
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Il discorso della Priora alle Consorelle in occasione della festa della loro Patrona