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PASQUINO E IL MOBBING
di Lea Mina Ralli
Dal tempo di Leone X (1513/21) fino al !970 a Roma, particolarmente durante il Conclave del 1522, le pasquinate non di regime furono un divertimento popolare, ma vennero perseguite dalle autorità e molti autori, smascherati, finirono al patibolo. Il giornale virtuale che divenne una sorta di mobbing, specialmente contro il Papato, era il torso di Pasquino, un rudere di statua del Rione Parione all'angolo di palazzo Braschi su cui venivano appese nascostamente scritte satiriche, su tavolette, per prendere allegramente in giro sia leggi che personaggi in vista e le risposte si ritrovavano poi su altre statue... parlanti che erano Madama Lucrezia, Marforio, l'Abbate Luigi, il Facchino e il Babuino.
La cultura popolana attribuì la statua al ricordo di un sarto gobbo di nome Pasquino che raccogliendo le dicerie della sua ciarliera clientela, spettegolava, con la sua lingua mordace, su tutto e su tutti, causando spesso inimicizie e duelli.
Nella realtà, è un residuo di statua di un gruppo marmoreo del III secolo a. C. raffigurante Menelao.
I versi beffardi erano in forma di epigramma in italiano e in latino, ma anche in prose amene
o in forma di dialogo, commissionati, per lo più, da nobili e potenti per far circolare dissensi e calunnie, alcuni se ne ritrovano anche nei proverbi popolari. Seppure anoninmi, i nomi degli autori e dei mandanti, venivano riconosciuti e sussurrati in giro perché ne trasparivano le tendenze politiche e lo spasso generale diventava maggiore.
Un esempio di pasquinata fu questa del 1521 in occasione della morte di Papa Pio VIII:
“L'ottavo Papa Pio mò è morto - ma grazzie a Dio nissuno se n'è
accorto”.
Per molti anni, a ricordo di Pasquino, ogni 25 aprile si è celebrata a Roma una festa goliardica.
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LE STATUE PARLANTI
di Lea Mina Ralli
Cò Lucrezzia e cò Pasquino
raggionava er popolino
le domanne che faceva
sopra er marmo l'appenneva.
Le risposte che trovava
tutte in giro le passava
era un modo scanzonato
de parla' senza gran fiato.
Sempre pronto a tempo e loco
più de tutto era 'no sfogo.
Quanno a Roma succedeva
Tanta gente ce rideva.
Ma s'è pèrza quest'usanza
che sfotteva la creanza.
Mò la gente pé parla'
cià li mezzi a volontà.
Pé risponne e interloquì
stanno tutti pronti lì
cor microfeno davanti
de la radio e artoparlanti.
La domanna è più inzidiosa
e la voce misteriosa
accusì er contradditorio
pija tutto l'uditorio
e diventa a 'sta magnera
la risposta più sincera.
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il 100° di MACARIO
di Giuseppe Trabace
Quando, sfoderando il famoso ricciolino sulla fronte, appariva sulla scena saltellando come un bimbo sbarazzino che ha rubato la marmellata ed iniziava a parlare, spesso balbettando, con la sua strascicata cadenza piemontese, il pubblico di ogni palcoscenico d'Italia pareva pervaso da un fremito di allegria e lo premiava con un applauso interminabile.
Era Erminio Macario, torinese del 1902,quel comico che, attorniato dalle sue prosperose "donnine", fu per oltre cinquant'anni uno dei principi delle commedie musicali e delle riviste del nostro paese. La sua era una maschera gioconda che aggiornava la tradizione comica piemontese. Famose le sue battute al fulmicotone dette con un apparente candore ma che furbescamente quasi sempre alludevano a ben altro. Lo spettatore che vedeva Macario per la prima volta all'inizio restava interdetto ma poi, proseguendo lo spettacolo, entrava nel gioco comico ed il divertimento era assicurato. Al teatro Brancaccio il 2 dicembre si sono celebrati i 100 anni della sua nascita ed è stato conferito il "Premio Macario speciale" ad attori, attrici e registi che si sono distinti nel campo dello spettacolo comico e che hanno lavorato con lui. Fra i premiati il regista Mario Monicelli e le attrici Isa Barzizza e Sandra Mondaini. Questa iniziativa è stata l'occasione per ricordare non solo il comico ma anche le sue variegate doti di uomo di spettacolo.
Ha personalmente prodotto tante indimenticabili riviste sfarzose, ha portato per la prima volta alla ribalta ragazze sconosciute, in seguito divenute attrici affermate ed, infine, ha lasciato un ottimo ricordo nel campo del cinema, interpretando ruoli comici significativi.
L'auspicio è che la sua arte non cada nell'oblio.
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Selezionata per l’Oscar la nuova fatica del toscanaccio
PINOCCHIO SECONDO BENIGNI
di Paolo Francardi
Oscar si, Oscar no.
Anche l'ultimo film di Benigni su Pinocchio concorrerà il prossimo anno alla conquista del prestigioso premio. La designazione ufficiale per il cinema italiano è arrivata qualche giorno fa ed ha colto di sorpresa chi ha avuto modo di assistere alla sua proiezione. Per i più infatti il lavoro non è da Oscar. I primi commenti a caldo parlano di mancanza di originalità. A dispetto dei proclami rivoluzionari che hanno accompagnato la lavorazione della pellicola, la favola di Collodi è riprodotta pari pari. I suoi protagonisti poi sembrano la copia sbiadita degli originali. Geppetto, il Gatto e la Volpe, Mangiafuoco e Lucignolo non aggiungono nulla allo stereotipo dei personaggi collodiani. Il folletto impenitente, l'estroso protagonista del "Piccolo diavolo" e della "Vita è bella", che tanto successo riscuote per l'estemporaneità e per l'inventiva che lo caratterizzano, questa volta ha tenuto a freno la sua prorompente personalità. Più che la creazione di un artista geniale, il film su Pinocchio in odore di Oscar sembra piuttosto l'opera di un regista "normale" impegnato in una "normale" trasposizione cinematografica del libro di Collodi.
Un fallimento, dunque? No davvero. La stroncatura è soltanto l'effetto di un giudizio eccessivamente condizionato dalle aspettative deluse di un pubblico troppo legato ad un certo cliché di Benigni. Un pubblico che non può accettare che il suo beniamino si adegui totalmente ad un testo senza rivederlo per assoggettarlo alle sue esigenze provocatorie e innovative. In realtà il film va letto alla luce della complessa filosofia del suo autore. Benigni è un trasgressivo che tuttavia ama troppo i bambini, come ha ampiamente dimostrato nella " Vita è bella", per frastornarli e confonderli nelle loro certezze. Li ama e li rispetta al punto da violentare la sua stessa natura pur di. non stravolgere nella loro testa l'idea che si sono fatti di personaggi tanto cari.
E poi, una verità emerge chiaramente da una più attenta visione del film. Non è affatto vero che Benigni si appiattisce completamente sul testo di Collodi. Una cosa solamente sua, ma davvero molto importante, la deve dire, cascasse il mondo. E la dice, proprio per amore dei bambini. Nell'epilogo della proiezione c'è una scena emblematica che mette a tacere chi con un giudizio affrettato ne aveva " bollato" la indiscussa creatività di regista.
Pinocchio, divenuto un " bravo figliolo", entra finalmente nella scuola ma, inopinatamente, la sua ombra non lo segue. Nel libro di Collodi questo passaggio manca. L'affermazione del senso del dovere a tutti i costi costituisce la conclusione a lieto fine della storia del Pinocchio di Collodi. Ma non del Pinocchio di Benigni. In lui le due anime, quella dell'impegno e quella dell'evasione, convivono e sono ugualmente importanti. Lo sdoppiamento al termine del film fra il bravo bambino Pinocchio e la sua ombra, che invece preferisce continuare a vivere nel mondo incantato del disimpegno, è una licenza che Benigni si concede con la cautela e la delicatezza di chi non intende assolutamente profanare un testo sacro. Prova ne sia che non è facile rendersi conto di ciò che sta avvenendo. Lo fa in punta di piedi cercando quasi quasi di non farsene accorgere. La sua preoccupazione è quella di non turbare. Benigni non viola affatto i principi etici e pedagogici presenti nell'opera dello scrittore toscano ma li tempera con una visione meno rigida del senso del dovere. L'ombra appena accennata che si ferma sul portone della scuola vuole rappresentare quel tanto di trasgressione e di ribellione che - a suo parere - non va soffocato nei bambini. Un messaggio importante e innovativo che, considerati i pro e i contro del lavoro, difficilmente potrà comunque regalare all'attore toscano un nuovo Oscar. A meno che la competizione non si attesti ad un livello troppo elevato. In tal caso, considerando la filosofia dell'ombra, ma anche la scenografia, la colonna sonora di Piovani e la splendida fotografia si può sperare con motivato ottimismo in un nuovo successo di Benigni nella notte delle statuette. Oscar o non Oscar, comunque, il vero regalo che Benigni offre al suo pubblico è quello di far conoscere al mondo un Pinocchio nuovo, problematico e moderno: il Pinocchio degli anni 2000. Non è davvero poco.
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K'OJOM, LA CASA DELLA MUSICA
di Piero Benedetti
L'impressione è quella di entrare in un antro scuro e disadorno; decisamente sconcertante!
Sono ad Antigua - Guatemala e sono in visita alla Casa K’Ojom, la casa della musica nella antica lingua Maya, un piccolo museo che raccoglie gli strumenti musicali di quelle antiche popolazioni usate sin dai tempi precedenti la venuta degli Spagnoli: si tratta di un museo che - in fondo - ha più un indirizzo antropologico che tecnico-storico; non raccoglie, infatti, solo strumenti musicali ma anche ricostruisce con l'ausilio di vecchi costumi ed ambientazioni, i vari riti o le altre diverse occasioni in cui questi strumenti venivano suonati. Le sale - non molte, in verità - sono raccolte intorno ad una sorta di patio per cui, quando si esce dalla terza per entrare nella seguente, si ha proprio la netta impressione di entrare in un antro oscuro e dimesso.
Gli occhi si abituano, poi, alla penombra e scorgono una serie di panche ed uno schermo cinematografico.
Siamo in una saletta da proiezione dove subito la magia si attua; prendono forma personaggi virtuali ma pure veri mentre la musica si diffonde tutto intorno.
E' l'emozione della lanterna magica della fine dell'800!
Ma qui non vedremo gli ingenui tentativi di un’arte ancora in fieri ma il sapiente distillato dell'interpretazione della coscienza popolare che un grande artista della fotografia ha saputo fissare attraverso il suo obbiettivo.
E che personaggi si rincorrono sullo schermo!
Quale spessore quale umanità ! E quante e quali emozioni possono destare negli spettatori quelle diapositive!
E' stata colta - a mio parere - l'essenza vera di questa popolazione e la compassione che pervade ogni azione collettiva, laddove il termine compassione assume il significato vero di "pathos collettivo".
Le situazioni in cui i personaggi - meglio direi: attori del popolo Guatemalteco - sono stati colti, sono le più varie ma il denominatore comune è rappresentato dalla musica, un "fil-rouge" che assume connotazioni fisiche con l'audio diffuso in un tono tale da non soverchiare l'emozione dettata dalle immagini. Dalle feste religiose, ai superstiti riti pagani, alle feste per un raccolto frutto di un sudato lavoro sui difficili campi, ogni occasione è buona perchè questo popolo faccia musica, partecipi ai riti ed alle feste, sia pure a costo di lunghe marce lungo le strade di montagna, lungo i fiumi, tra i laghi di questo Paese.
La musica- o forse l'occasione per suonarla - è il legante che spinge tutti ad incontrarsi, a stare insieme a scambiarsi visite ed a fare commercio; tessere quel tessuto di relazioni sociali che è l’identità stessa di questo popolo serio, composto ma sottilmente sereno e felice.
(1 - continua)
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