TEATRO
Successo a Roma
con "Il padre" di Strindberg
di Giuseppe Trabace
UN
PADRE DISTRUTTO
Nel terzo atto del dramma di August Strindberg “Il padre“, in scena in
questi giorni al teatro “Eliseo” di Roma, Adolf, marito infelice,
sconfitto ed incerto perfino sulla sua paternità, dice rivolgendosi alla
spietata moglie Laura “Tu mia moglie sei stata la nemica più crudele
perché ti sei placata solamente quando mi hai visto esanime in terra“.
Alla moglie che gli chiede perdono l’uomo, ormai alla fine, “E’ comodo
commettere i delitti senza coscienza, è una scusa a cui potrebbe
ricorrere qualsiasi criminale……oh donna satanica, l’eterna maledizione
colga il tuo sesso!“. Questo dialogo serrato è l’acme della fosca opera
scritta nel 1887 in cui il grande autore svedese, nel rappresentare il
conflitto insanabile tra due maturi coniugi, scende in campo contro la
donna vista come la sfruttatrice cosciente dell’uomo. Il vincolo
coniugale è privato di ogni aura di romanticismo e tanto meno vi sono
riferimenti a carattere religioso. Esso è estremisticamente disegnato
come una lotta fra i due sessi tesa alla conquista del potere in cui
prevale la donna per la sua diabolica abilità E’ l’urlo scomposto, per
certi versi venato di irrazionalità, del misogino Strindberg per i suoi
due matrimoni miseramente falliti? Certamente, ma è anche espressione di
un autore che, rispecchiando correnti di pensiero del nord Europa di
fine ottocento, fece una bandiera della sua fiera opposizione al mondo
borghese ed alle sue convenzioni.
In breve la trama. Adolf, capitano di cavalleria, uomo retto e con
profondi interessi scientifici, è coniugato da 20 anni con Laura, donna
forte e testarda fin dall’infanzia. Il rapporto si è consolidato in
apparenza con la nascita di Berta ma i dissapori profondi tra i due non
sono mai mancati. Dopo 20 anni una crisi insanabile scoppia tra i
coniugi sull’educazione della figlia adolescente. Lui vorrebbe farne uno
spirito libero e mandarla a studiare in una grande città, lei vorrebbe
tenerla con sé facendola rientrare nell’alveo della società borghese,
Adolf va per le spicce e tira fuori l’autorità paterna, Laura trama
senza scrupoli mettendo in giro voci e scritti malevoli, ammantati di
falso amore coniugale, in cui si adombra che il marito è spesso colpito
da crisi di follia. Lui intuisce quelle manovre ma va avanti per la sua
strada. Laura davanti all’intransigenza del marito con perfidia insinua
in lui il dubbio che potrebbe non essere il padre di Berta. Ora l’uomo
cade in una crisi profonda in quanto aveva costruito la sua esistenza,
la “ sua dignità “, in una visione secondo cui la paternità
rappresentava il fondamento dell’istituto familiare e una garanzia
all’eternità.. A volte il delirio lo attanaglia mentre nessuno lo aiuta
nell’ambito familiare, neppure la sua vecchia balia. Adolf è solo con i
suoi terribili dubbi e la moglie lo irride senza scrupoli. Perde la
testa e spara contro Laura senza peraltro colpirla. Ora quelle voci
sulla follia di Adolf trovano un riscontro nei fatti. Laura, con l’aiuto
di un medico senza scrupoli, opera per farlo ricoverare in manicomio. La
“fedele” balia gli infila la camicia di forza. L’uomo vaneggia e impreca
contro la moglie, ma è angosciosamente consapevole che il suo ciclo
vitale è finito. Adolf non desidera che la dolce morte, invoca la
vecchia balia, vuole appoggiare la testa sulle sue gambe, vuole sentire
il suo petto materno, regredisce allo stato infantile. Cosi
abbandonato,muore di un colpo apoplettico.
Dramma intenso in cui la sconfitta di Adolf può significare
l’estinguersi della società borghese e dei suoi “ riti familiari”.
Questa, probabilmente, la tesi di Strindberg e anche la linea di regia
di Massimo Castri. Un regista di notevole caratura non nuovo ad
affrontare con intensità i temi esistenziali sulle inesplorate
profondità- ed anche contorsioni - del cervello umano unitamente ad una
visione critica della società in generale. Questo porta alla
considerazione che Castri pare aderire quasi naturalmente alle tesi di
Strindberg, sia pure nel contesto di un’epoca profondamente diversa.
Spettacolo riuscito dunque di cui va apprezzata la scenografia sobria e
severa e la presentazione di un testo reso senza tagli, come purtroppo
ai nostri tempi spesso accade. Lo spettacolo trova la sua completezza
nella recitazione eccellente di Umberto Orsini nel ruolo di Adolf..
Orsini è forse oggi il miglior interprete di prosa fra gli attori della
sua generazione, c’è in lui un’intensa e convinta applicazione degli
insegnamenti di grandi registi come De Lullo, Visconti, lo stesso
Castri. La sua recitazione è fredda e razionale nella prima parte del
dramma quando Adolf tenta di darsi un tono, di mostrare la sua autorità
di uomo di scienza e di marito determinato nelle sue convinzioni. Nella
seconda parte Adolf pian piano cede psicologicamente, Orsini sa cogliere
con estrema sensibilità il regredire di quella mente fino al ritorno ad
uno status infantile e quivi l’attore ottiene il meglio alternando ai
toni grotteschi quelli di una trasgonata sofferenza, presaga di una
morte fortemente voluta.. Manuela Mandracchia è Laura. Non appare
convincente nel delineare un personaggio bifronte che deve essere
leziosamente borghese ma anche astuto e, in buona parte, diabolico.
Gianna Giachetti, nel ruolo della balia, ricorre ala sua collaudata
esperienza di matura interprete del nostro teatro. Essa ci sa mostrare
l’aspetto bonario e materno di questa balia ma nella parte finale del
dramma riesce a rendere l’ambiguità di un personaggio che si schiera
decisamente dalla parte di chi ha vinto.
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RICORDO DI EDUARDO
di Giuseppe Trabace
A
vent’anni dalla morte l’ Italia pare quasi dimenticare il grande
autore-attore- regista napoletano Eduardo De Filippo. Scarse le
commemorazioni anche se le sue commedie continuano a riscuotere grandi
consensi sui palcoscenici del nostro paese e del mondo. La scarsa
memoria delle istituzioni e anche degli addetti ai lavori può
sconfortare ma non può impedire a chi ama il teatro di ricordare
le sue opere come segno di una voglia, non solo meramente culturale, di
cogliere, sotto il velo dell’ironia, nelle situazioni e nei personaggi di quelle commedie, tanti aspetti veritieri
del nostro vissuto.
Non possiamo riferirci solo all’attore. Gli attori, anche i più
sublimi come Eduardo, scrivono sull’acqua…. Eppure ai lettori che
hanno superato gli …anta rammentiamo quel volto scavato, quegli
sguardi lunghi e significativi, quella intonazione dolcemente
partenopea, quel modo di esporre lucido e razionale senza concessioni
alla retorica, quei silenzi infiniti che sottintendevano mille
ragionamenti.
Figlio d’arte - il padre naturale fu Eduardo Scarpetta- , nasce
nel 1900, calca fin da piccino i palcoscenici di Napoli misurandosi in
popolarissime farse e commedie del locale, per certi versi glorioso,
teatro comico. Un’esperienza preziosa che gli consentirà a 31 anni di
fondare, assieme ai fratelli Titina e Peppino, una compagnia e di
scrivere una serie di commedie di straordinaria forza comica anche si
notavano fin da allora contenuti di realismo non convenzionali e scorci
dei drammi che segnano tante vite nell’ambito di famiglie della
piccola borghesia napoletana. Un ricordo tra tante opere di quel periodo
è per la famosa “ Natale in casa Cupiello”.
Il vecchio Luca Cupiello pone al centro della sua esistenza
l’allestimento nel mese di dicembre del presepe come simbolo, non solo
sacro, dell’unità della famiglia. Nella sua candida
“incoscienza” egli non si accorge che proprio nel suo ambito
familiare sussistono pesanti conflitti . Quando il vecchio scoprirà la
dura realtà, non reggerà al colpo ed il cuore non gli reggerà.
Commedia comicissima nella prima parte con duetti memorabili tra Luca e
quello scapestrato figlio Nennillo che con faccia corrucciata continua a
ripetere “ o presepio nun me piace!”. La seconda parte sposa
i toni del dramma. Il vecchio è allo stremo e un Nennillo affranto finalmente ammetterà
con il padre che “o presepe “ gli piace. Eduardo approfondisce come
attore da maestro il personaggio di Luca che , da autore, vede come la
vittima sacrificale di un mondo che nella sua arida crudeltà o
indifferenza non consente all’uomo evasioni poetiche. Fin da quei
lontani anni inizia a venir fuori, sia pure nell’ambito di un testo
prevalentemente comico, il pessimismo di Eduardo, che poi svilupperà
negli anni 40 con opere di più ampio respiro.
La bufera della guerra, scoppiata nel giugno 1940, e le tante
tragedie che incidono sulle persone più indifese colpiscono con
umanissima intensità il commediografo e da questo travaglio
intellettuale nasce il primo capolavoro “ Napoli milionaria”.
Siamo in un basso napoletano nel 1945. Una terribile guerra è appena
finita. Una umile famiglia si è in quegli anni tragici disgregata. Il
padre, Gennaro Esposito, è appena tornato, ferito dentro, dopo anni di
dura prigionia in un campo di concentramento nazista, La madre Amalia,
oppressa dalla miseria e
sola con tre figli, si è arricchita durante il conflitto bellico con il
mercato nero ma non ha saputo gestirsi. L’avidità di guadagni sempre
più lauti gli ha fatto perdere ogni freno inibitorio e un altro uomo ha
attraversato la sua vita. I figli più grandi, abbandonati a sé stessi,
si sono lasciati andare. La figlioletta di pochi anni , non appena il
padre ritorna, è colta da febbre altissima e , dopo tante disperate
ricerche, viene trovata la preziosa medicina che potrebbe salvarla. Una
medicina offerta da povera gente cui Amalia, nel suo cieco egoismo,
aveva negato anni prima per soldi un analogo aiuto. Occorre che passi la
notte per vedere se quella bimba supererà la crisi. La madre piange
convulsamente conscia delle sue colpe. Il padre si prepara ad affrontare
quella lunga notte di sofferenza e pronuncia quella frase “ A da passà
a nuttata” . Un messaggio privo di retorica. Gennaro con quelle parole
ci dice che, nonostante la degradazione morale di quella infelice epoca,
non tutto è finito, che la vita deve continuare, che,infine, occorre
aspettare con incrollabile fiducia che “a nuttata” passi e che torni
la serenità su questo piccolo mondo. Abbiamo descritto l’ultima scena
di questa commedia . Una
scena emblematica in cui l’autore testimonia il dolore di un popolo
travolto materialmente e
moralmente dalla tempesta bellica. Una commedia in cui peraltro ai toni
del dramma popolare della parte finale si uniscono, nella prima parte,
spunti di solare comicità nella descrizione accurata dei coloriti
personaggi di schietta marca partenopea.
Grande è il successo di critica e di pubblico e il
commediografo è stimolato a ripercorrere la strada di opere in cui
all’elemento farsesco si aggiungano armoniosamente elementi di un
realismo vitale e non meramente evasivo. Nasce nel 1946 la commedia più
popolare di Eduardo “ Filumena Marturano”. Una donna matura Filumena
per tutta la vita umiliata e offesa. Poverissima, ignorata dai parenti
più vicini, prende giovanissima la degradante via della prostituzione.
Incontra in quell’ambiente un ricco e viziato commerciante che la
porta via con sé. Subirà affronti continui dall’egoista Domenico
Soriano. Lui non la sposa nonostante
gli sia sempre rimasta vicina per trent’anni
e abbia preso, in sua vece, la direzione dell’attività
commerciale. Dopo tanto tempo, conosciuta l’intenzione dell’uomo di
sposare una giovane donna, esplode la rabbia di Filumena che gli rivela
di avere avuto e amorosamente allevato in quegli anni tre figli di cui
uno soltanto è suo. Lascia quella casa ma Soriano vuole assolutamente
sapere quale tra i tre sia suo figlio. Questa donna, resa forte dalle
avversità della vita, non glielo rivelerà mai, in quanto vuole che
tutti tre siano riconosciuti da lui come legittimi. Domenico, rassegnato
e “ domato”, la sposerà riconoscendo i tre giovani.
Commedia che studia i recessi più profondi dell’animo umano
evidenziandone le positività e le manchevolezze. Indimenticabile il
personaggio di Filumena, donna che ha attraversato i dolori della vita
spesso sbagliando ma che ha mantenuto un sua dignità. Straordinaria
figura di madre che protegge quasi ferinamente i suoi figli e ripete
fermamente al suo uomo la famosa frase “ hanno da esse eguale tutt’e
e tre!” Soriano è poi il simbolo di tanti uomini di un certo periodo
del nostro paese che nella donna vedono una preda da conquistare prima e
da sfruttare ,ove possibile, in un secondo momento.. Dovrà cedere a lei
nel suo unico punto debole, la voglia di paternità.
Quando a Napoli l’opera fu rappresentata per la prima volta
nell’immediato dopoguerra memorabili furono, a giudizio unanime, le
interpretazioni di Titina e Eduardo De Filippo. Titina, guidata dalla
ferrea regia dell’autore, seppe dare al personaggio di Filumena una
forza carismatica riuscendo a far convivere la popolana
rabbiosamente delusa da una vita grama e la madre che, abbagliata
da un sentimento divorante, ai figli tutto dona senza chiedere nulla in
cambio. Eduardo tratteggiò con maestria il personaggio un po’ sordido
di Domenico. Risuona ancora nelle orecchie la sua voce metallica che
lancia parole sprezzanti contro “ Filumena la napoletana “ ma si
ricorda anche nella parte finale della storia il suo volto sofferto di
uomo in avanti con gli anni, che ha goduto dei piaceri della vita ma che
ora brama affetti certamente non meritati. Il lettore potrà ammirare
l’opera e i suoi grandi interpreti visionando il film che nel 1950 lo
stesso Eduardo diresse e che periodicamente le TV mandano in onda.
Eduardo continua infaticabile a scrivere, dirigere ed
interpretare commedie di grande impatto emotivo. In ordine cronologico
le più riuscite sono “
Questi fantasmi “, intrisa di delicata poesia, “ Le voci di dentro
“,venata di una sulfurea sfiducia verso l’uomo, “Mia famiglia”
sulla disgregazione progressiva dell’istituzione familiare”,
“Sabato, domenica e lunedì” sulla diffidenza e le incomprensioni
tra marito e moglie, “ Il sindaco del Rione Sanità”,
ricostruzione efficace del mondo della malavita napoletana.
In tutte queste commedie il ricorso al dialetto napoletano,
utilizzato negli anni precedenti, quasi scompare anche se
l’ambientazione e gli accenti sono di schietta marca partenopea.
L’autore vuole rendere il suo teatro sempre più legato ad una
tradizione nazionale e non locale. In tali opere si può osservare che
cresce il pessimismo eduardiano sia pure coperto da una vernice di a
volte apparente comicità. Viene in rilievo la sua voglia di conoscere e
far conoscere le grandi problematiche dell’uomo contemporaneo. In
primo luogo la sconsolata constatazione delle forti difficoltà
dell’uomo di oggi di comunicare con il prossimo, anche con i familiari
più vicini Una visione dura della situazione in parte temperata da una
speranza di una comprensione tutta da costruire.
Eduardo, ormai anziano, continua a scrivere testi di minore o
maggiore presa ma nell’intento nobile di descrivere, sia pure con
tocchi di innato umorismo, il percorso irto di ostacoli di una umanità vittima dei suoi egoismi e manchevolezze. Eduardo
regista-attore fino alla fine degli anni 70 continua a rappresentare non
solo le sue opere più popolari e riuscite ma anche farse del padre
naturale Scarpetta e dell’amato maestro Luigi Pirandello ( ricordiamo,
fra tutte, una mirabile rappresentazione della commedia “ Il berretto
a sonagli “). Eduardo fino agli ultimi anni è il demiurgo di una
compagnia di attori magnifici che danno , da lui guidati con
inflessibile concentrazione, il meglio della loro arte. Ricordiamo,
consapevoli che ne dimenticheremo qualcuno: Pupella Maggio, Regina
Bianchi, il figlio Luca De Filippo, Ugo D’Alessio, Antonio Casagrande,
Angelica Ippolito, Aldo Giuffrè, Isa Danieli, Vincenzo Salemme…..
Questo artista, nel suo canto del cigno di attore, affina le sue doti di
interprete già eccelso. Il suo volto pare di pietra, la sua voce è
misurata, essenziale è l’intonazione, la
gestualità è ridotta all’osso. Egli non recita, vive la
parte. E’ il massimo che un attore può dare al suo pubblico.
La sua lunga opera di autore trova il suo compimento nel 1973 con
la commedia “ Gli esami non finiscono mai “. E’ la sua commedia più
amara . Le residue speranze che l’artista aveva per un riscatto morale
dell’uomo si sono dissolte e il finale dell’opera è uno sberleffo
verso chi ancora si illude.
La trama verte su un uomo come tanti, Guglielmo Speranza, che
rappresenta agli spettatori la storia della sua vita.
Guglielmo subisce il primo “esame “ dopo la laurea
allorchè è
sottoposto a interrogatorio da parte dei genitori della fidanzata
Gigliola. Dopo averlo spremuto a dovere i futuri suoceri danno il loro
consenso al matrimonio a condizione che il pover’uomo faccia una
grande carriera. Egli si sposa, ha due figli ma non è felice. Tante
persone lo giudicano e lo criticano e la stessa consorte non gli è
vicina. Si innamora di Bonaria ed ecco scatenarsi malignità e invasioni
nella sua vita. Il suo amico più caro La Spina è un accanito
accusatore nonostante sia l’amante segreto di Bonaria. Con il
trascorrere degli anni l’uomo resta solo e per evitate gli intrusi si
ritira in casa. I familiari all’apparenza vogliono stargli vicini, in
realtà confidano che muoia al più presto. La morte arriva ma parenti e
amici non ottemperano nemmeno a quanto
Guglielmo ha disposto per le esequie. In una visione tragicamente
grottesca il protagonista parteciperà ai propri funerali attraversando
il palcoscenico e facendo passerella
nella maniera in cui gli attori di varietà salutano il loro
pubblico. Parenti e amici “ tanto affezionati “, non graditi
spettatori della sua vita, sono in
platea ad applaudire Guglielmo. Eduardo
ha dato il suo responso finale ma la riflessione di noi tutti
sull’amaro destino dell’uomo si impone.
L’artista si spegne nel 1994.
Chi scrive ha avuto la fortuna, come tanti, di vederlo più volte
in palcoscenico assieme alla sua compagnia. Una festa per il teatro e
una gioia per gli occhi. I giovani no. Queste righe forse potranno
contribuire a stimolare la loro attenzione inducendoli a leggere “ La
cantata dei giorni pari” e “ La cantata dei giorni dispari”. Opere
in cui sono raccolte tutte le commedie di Eduardo. Ancor meglio sarà
recarsi a vedere a teatro le commedie che i suoi eredi registi e attori,
a partire dal figlio Luca De Filippo, continuano a rappresentare con
successo. È evidente che in tali spettacoli non può non mancare la
presenza del nostro ma
certamente le parole, le frasi da lui scritte nei suoi testi daranno
un’emozione e una partecipazione che è poi l’essenza del teatro.
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