I tiranni - le vittime - i ribelli

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ROMANZO    STORICO
in tre parti

 

 

SECONDA  PARTE
(3)

La morte della signora Lilia fu quella di una santa martire e di quell’anima angelica ciascuno ne serbò un ricordo particolare.

 Irene la pianse, come una figlia amatissima e mai più avrebbe dimenticati i particolari di quella tragica sera che Beatrice la ricondusse faticosamente a casa :

Vederla ridotta in quel pietoso stato dalle mani di suo figlio, fu per lei un dolore cocente. Con l’aiuto dei nipoti fece del suo meglio per apprestarle le prime cure ricomponendo le ferite che aveva in tutto il corpo pervaso da brividi di febbre.

Solo il volto ne era rimasto indenne perché tenuto fermo all’ingiù sotto lo scroscio dell’acqua non aveva ricevuto colpi violenti.

Non servì il letto caldo, non servirono le tisane che fu difficile farle sorbire perché si dibatteva convulsamente nel delirio della febbre altissima.

Il suo fisico debilitato dallo stress degli ultimi tempi non seppe o non volle reagire la morte fulminante la ghermì.

L’agonia galoppante non ebbe bisogno neppure dell’opera del medico giacché il vigliacco marito ne ritardò di ora in ora la chiamata, per sottrarsi alle indagini del caso. Per tutti fu la polmonite fulminante che uccise la signora amata da tutti.

La zazzera bionda, causa indiretta dello scempio di quel corpo, divenne un’aureola su quel letto bianco pieno di fiori.

Mai Lilia era apparsa tanto bella!

La sua bimba più piccola, Bertilla, che non l’aveva vista morire perché si trovava dalla nonna Elvira, la contemplava estatica perché non riconosceva in lei quella sua mamma sempre indaffarata, ma la paragonava a quella bella bambola che sempre ammirava dalla vetrina di un negozio di giocattoli.

Era intimidita da tutte le persone che venivano in visita e che accarezzandola mormoravano: “Poverina, così piccina e già orfana!”.

Il profumo intenso dei fiori la stordiva! …

Quanti fiori attorno alla mamma, avevano messo un lungo giglio bianco anche fra le sue mani che apparivano più bianche del fiore.

Il profumo acuto di quei fiori assortiti, le causò una idiosincrasia che l’avrebbe perseguitata per tutta la vita.

Anche a nonna Elvira fu celata la fine drammatica di sua figlia, se ne disperò tanto che per poco non seguiva la figlia, per questo, in seguito, si attaccò morbosamente alla nipotina più piccola che tanto le somigliava, che finì di tenerla seco definitivamente.

 Per Bice che aveva partecipato all’ ultimo atto del dramma, fu chiara solo allora la difficile vita sopportata da colei che l’aveva messa al mondo e che, per il suo carattere dolce e remissivo, non aveva mai palesato a nessuno, preferendo farsi credere indifferente e apatica.

Lei stessa essendo primogenita, investita ancor bambina del compito di aiutare la nonna, non s’era mai posta il problema d’indagare sul perché sua madre preferisse la vita di negozio che quella della casalinga, pensando che i figli per lei fossero meno importanti del lavoro. L’ascolto involontario di quella notte di delirio l’avevano edotta su molte cose anche se frammentarie e incoscienti, le avevano rivelato le delusioni e le pene che aveva superate sola con se stessa.

Non si era sentita mai amata, neppure dai propri figli.

Povera, cara e bella mamma….solo adesso forse, dal cielo, avrebbe potuto leggere nel cuore dei figli il rimpianto e il rimorso per non averla capita.

Ora, troppo tardi, l’avrebbero venerata come una santa.

 Bruno nel vegliare la madre venne spesso colto da singhiozzi violenti, senza lacrime, coi pugni serrati nervosamente entro le tasche, non staccava gli occhi da lei: era la prima volta che si trovava di fronte alla morte e non accettava che sua madre fosse portata via.

Cosa pensasse di preciso per ribellarsi così violentemente al quel dolore che lo soffocava non era facile capire perché al momento di chiudere la bara, non volle essere allontanato, anzi si avvinghiò al corpo senza vita ripetendo incessantemente la parola Mamma e prendendo a calci i necrofori che faticarono a farlo uscire dalla stanza. Fu un trauma atroce per quel ragazzino, istintivo e caparbio che fissò per sempre i lati peggiori del suo temperamento egocentrico.
Chi era al corrente di ogni cosa, guardava con sommo disprezzo l’artefice del misfatto che peraltro se ne stava accigliato e indispettito verso colei che non c’era più che si era cercata la morte compiendo un atto d’insubordinazione che lui non aveva potuto accettare. Furente ancora perché si era sottratta definitivamente alle sue angherie, defraudandolo perfino dell’aiuto in ditta.

 Più di tutto era furente perché non riusciva a dare risposta alla domanda che lo assillava: “Perché aveva osato all’improvviso ?… Dopo aver obbedito a qualunque ordine per tanti anni. Comunque, fosse stata mossa dalla ribellione o da un ragionamento infantile, non doveva comportarsi così, perciò la causa della sua fine ricadeva tutta su se stessa.Peggio per lei, dunque!”

 Tacitata la coscienza in tal modo, ordinò dei funerali regali con un tiro a sei cavalli bianchi che egli seguì, impeccabilmente vestito a lutto con le mani unite dietro il dorso e con volto accigliato, distanziato non solo dal corteo, ma dai famigliari stessi.

 Sembrò non raccogliere affatto l’ostilità di quanti vedevano in lui il carnefice di una donna santa.

 Al passaggio del lussuoso funerale tutti avevano dato testimonianza di profondo cordoglio e di vero dolore per la scomparsa della mite signora, amata e rispettata da quelli che l’ avevano conosciuta e specialmente da tanta povera gente che aveva sempre ricevuto il suo aiuto.

 Una pioggia di petali di rose cadde dalle finestre della via che l’aveva vista sposa e madre, ma pure questo omaggio lui lo intese come fosse stato dedicato al suo nome

 Durante il percorso, sicuramente stava pensando al come rifarsi in breve tempo delle spese ed anche della perdita di denaro per la chiusura dell’esercizio per due giorni.

 Sapeva già come fare, l’aveva detto poco prima al padre che lo aveva rimproverato per tutto quel lusso: “Non ti preoccupare che, rialzando qualche prezzo, faremo presto a rimetterci al pari.”

 Massimo pure aveva criticato a suo modo il comportamento insolito della nuora che aveva visto come una civetteria : “Che bisogno aveva di fare la ragazzina alla sua età? Se voleva seguire la moda ne doveva parlare prima col marito perciò la conseguenza finale se l’era proprio voluta … Tutte uguali le donne, anche le più semplici e accorte, disilludono. Mai avrebbe ritenuta Lilia ambiziosa e civetta.” 
Alfio s’incaricò di preparare e far pervenire le partecipazioni - ricordo a tutte le persone che avevano esternato le loro condoglianze ove fece stampare le stesse parole dell’epigrafe che erano poi le stesse che Edmund Freud aveva incluse nel suo Trattato sulla guerra : “Ciò che proviamo verso la persona appena morta è un sentimento speciale, una specie di ammirazione come se avesse compiuto qualcosa di assai difficile” Non avrebbe potuto esserci un memento più adatto per la povera Lilia.

 Gli zii di Albano, condussero con loro i due nipoti più grandi che sarebbero rimasti al Casale per un paio di settimane alfine di farli riprendere dallo choc subito.

 La morte della nuora aveva recato ad Irene un profondo abbattimento, se ne faceva quasi colpa per non averla agguerrita contro il dominio del suo coniuge, che disgraziatamente era suo figlio e proprio per questo motivo non aveva potuto prendere posizione contro di lui.

 Come avrebbe potuto dire alla nuora, quasi una bambina: Stai in guardia e non fare proprio tutto quello che ti ordina? Sarebbe stato veramente assurdo!

 Avrebbe preferito morire che essere testimone delle sofferenze di quella creatura semplice e buona.

 Qualche volta, in passato, aveva pensato al suicidio e l’aveva pure messo in atto quella volta che, per punizione, Andrea fu tenuto sotto chiave al padre, nella loro camera da letto con la proibizione di nutrirlo.

 La mancanza del ragazzino non avrebbe meritato quella penitenza perché, pur se grave, non aveva fatto del male a nessuno ed era stata motivata dall’appetito mai sazio di quel ragazzo in formazione, ma il padre la prese come se lui avesse voluto prenderlo in giro quando si accorse che la cesta di uova fresche che aveva riportato dai Castelli una settimana prima, conteneva soltanto gusci vuoti perché quel bricconcello se le era tutte succhiate forandole con uno spillo, rimettendole poi bene allineate.

 Questo avvenne prima della nascita di Alfio e quindi Andrea aveva pochi anni, ma era sempre affamato.

 Inutile dire che per la povera madre fu un giorno di tormento perché impossibilitata ad aiutarlo mentre lui l’invocava piangente, mentre anch’essa veniva rimproverata aspramente perché non l’aveva sorvegliato abbastanza,

 Esasperata, la povera madre, appena uscito il marito si attaccò impulsivamente al fiasco della varechina, decisa a farla finita.

 La sua ingenuità le fece mal calcolare quel gesto sconsiderato perché bastò qualche sorso di quel liquido scivoloso per farle rivoltare lo stomaco e ributtando tutto fuori.

 La sua vita fu salva e non subì danni irreparabili anche se stomaco e intestino furono in subbuglio per parecchio tempo, ma nessuno ne seppe nulla.

 Sicuramente contribuì alla sua salvezza la disonestà del venditore di quel prodotto, talmente diluito con acqua fresca, da non risultare più nocivo.

 Non essendo riuscita a darsi la morte, Irene, si convinse di essere destinata a vivere per essere un’alleata dei figli contro quel padre senza cuore.

 In seguito, per non essere schiacciata completamente dalla tirannide di suo marito ella cominciò ad adottare la filosofia dei fachiri che auto suggestionandosi, riescono a non sentire ne dolori fisici, né fame, né sete.

 Riuscì così perfino a non raccogliere più nemmeno le aspre parole con cui Massimo si rivolgeva a tutti loro.

 Si accorse di subire quasi uno sdoppiamento di personalità perché se voleva, si allontanava dalla realtà mentre il suo auto controllo aumentava sempre più.
Con tutta la sua buona volontà Irene non poté evitare un altro grossissimo dispiacere e che da tempo era nell’aria, legato alle trasformazioni edilizie che stava subendo il centro storico di Roma, imminente infatti l’evacuazione completa degli abitanti ivi residenti perché lo sventramento di molte strade prevedeva la demolizione di tutti gli edifici. Sloggiare da quelle case sarebbe stata per tutti un evenienza affatto piacevole, specie per gli anziani e Irene e Massimo erano fra questi.

 Pur avendovi tanto sofferto a Via degli Schiavoni era legata tutta la sua vita dal momento del suo arrivo a Roma ed avrebbe preferito che questo cambiamento fosse avvenuto dopo la sua morte. Ma era scritto che dovesse conoscere anche questa sofferenza.

 La nuova casa assegnata loro dal Comitato addetto, risultò adeguata al numero di persone che l’avrebbero occupata perché si tennero in conto due distinti nuclei familiari e i Sarducci si trovarono a poter disporre di una casa spaziosa, moderna e situata al Piazzale Flaminio a cospetto del Monte Mario.

 Bisognava adattarsi ad allontanarsi dal negozio e ciò avrebbe comportato anche cambi di abitudini soprattutto per nonno Massimo che doveva necessariamente mettersi in pensione. Le sue gambe non gli avrebbero permesso di fare tutto quel cammino e di servirsi del tram poi… neanche a parlarne. Di problemi ne stavano sorgendo parecchi, ma per uno dei Sarducci non sarebbero poi stati tanto spiacevoli.

Andrea, dopo la morte della moglie trovò più che giusto approfittare in pieno della collaborazione della bella Evi che fu ultrafelice di soppiantare alla cassa il vecchio nonno che, se voleva continuare a stare nella sua bottega, non aveva scelta, prendere il posto di Lilia al banco di vendita perché l’Americana sapeva chiacchierare, intrattenere e incassare soldi, ma non avrebbe mai avuto la competenza e la pazienza di servire la clientela. .

 A denti stretti il sor Massimo dovette accettare anche se l’invadenza di quella pupattola gli dava ai nervi perché si comportava come se fosse la padrona.

 Bisognò arrendersi all’evidenza dei fatti perché da parte del vedovo il posto da padrona glielo aveva già dato da un pezzo.

 I due amanti dovettero prendere la patente automobilistica ed acquistare una macchina perché avrebbe facilitati gli spostamenti fra casa e bottega.

 Naturalmente le pianificazioni furono dettate tutte dalla furba donna che comandava a bacchetta il suo condiscendente amico, sotto gli occhi del vecchio che stentava a riconoscere suo figlio che sarebbe stato prontissimo a sposarla.

 L’astuta Evi però lo aveva consigliato a procrastinare la data delle nozze perché ricostituendo la famiglia avrebbero dovuto sobbarcarsi del tutto la cura dei figli che invece affidati alle nonne, davano loro la possibilità di vivere meglio la loro vita a due perché Andrea avrebbe potuto benissimo trasferirsi da lei.

 Andrea fu felicissimo di questa soluzione momentanea e mai avrebbe immaginato quanto il pensiero del matrimonio fosse lontano da quell’astuta donna che sapeva perfettamente che tenendolo sull’altalena lo avrebbe tenuto ancora più legato e ne avrebbe ottenuto tutto quello che voleva.

 Irene che aveva subodorato quanto ella stava architettando, non appena si rese conto che l’Americana voleva spadroneggiare anche nella casa nuova dando consigli a destra e a manca circa le nuove disposizioni di mobilia e arredamenti vari, la mise arditamente alla porta dicendole:” Questa è casa mia e voglio tenerla come mi pare e se ci liberi della tua presenza lavoreremo meglio!“

 Andrea si legò al dito questo affronto e non appena fu solo con sua madre pensò di indurla a chiedere scusa alla cugina di Lilia, invitandola a pranzo non appena la casa fosse in ordine, ma l’anziana Irene che non aspettava altro rintuzzò quelle parole con veemenza: “ Invitarla a pranzo perché è la cugina della tua povera moglie? Una buona cugina davvero se è stata la causa della sua morte! Ti dico anzi che qui le proibisco di mettere piede perché non è gradita.”

 Bruno aveva idee grandiose, ma di studiare nessuna voglia e neppure il lavoro di in ditta lo attirava, da quando poi abitava nella nuova casa in quella zona dove abbondavano i professionisti si dava arie da figlio di papà e smaniava per avere una motocicletta. Figlio dei tempi nuovi non amava fare l’impiegato e firmare l’entrata e l’uscita, in questo settore, suo padre avrebbe potuto contare su qualche spintarella, ma lui non ne volle sapere, al ragazzo, non garbava che altri, neppure gli stretti parenti, interferissero nel suo futuro, sul quale non si era soffermato nemmeno per un istante perché a lui piaceva vivere alla giornata e senza regole. Molto simile a suo cugino Baldo, amava più apparire che essere e, come lui, aveva come lasciapassare in molti ambienti il loro cognome, ma nulla più.

 In attesa di averne una tutta sua, Il figlio di Andrea scorrazzava notte e giorno con moto di grossa cilindrata che prendeva a nolo, caricandoci sopra compagni occasionali, scapestrati come lui, magari con nomi importanti.

 Per gente simile egli era sempre disponibile e dei maschi e femmine a cui si accompagnava non avrebbe saputo dire molto, gli bastava cogliere l’ invidia nei loro occhi per essere soddisfatto ; col suo modo di fare era convinto di porsi al di sopra della massa e la disponibilità di moneta che mostrava appagava in pieno la sua megalomania. Amava essere un Capo clan e in questo si differenziava da padre e nonno che rifuggivano il contatto umano; egli non solo stava bene in gruppo, ma portava sempre qualcuno seco quando si recava a… prelevare denaro da suo padre.

 Con molta furberia, capiva che il genitore avrebbe esaudito ogni richiesta, fatta davanti a terzi, mentre il nonno, andava su tutte le furie ogni volta che sentiva il rombo di una moto potente pensando che potesse trattarsi di suo nipote.

 La sua mentalità ristretta che lo aveva fatto vivere sempre in ristrettezze, prevedeva per quel nipote ogni sorta di disgrazie che avrebbero potuto coinvolgere tutti loro.

 Se ne lamentava di continuo con il padre, ma questi lo rabboniva perché, dopo essersi scatenato a modo suo, era sicuro che avrebbe messo giudizio e cercato un lavoro. Gli acquistò pur una Guzzi nuova fiammante, visto che quelle a noleggio gli costavano un patrimonio. Andrea ragionava come Rosa che spingeva i suoi figli fra la gente bene, convinta che frequentando i loro ritrovi, la nobiltà gli si sarebbe attaccata addosso. 
La grande terrazza di cui era fornita la nuova casa, aveva rabbonito nonna Irene perché aveva potuto disporvi tutt’intorno delle capaci cassette rettangolari che oltre che guarnire le permettevano altre semine ed altri esperimenti di piante officinali e di molte varietà di fiori.

 Non le era bastato il successo ottenuto con l’insalatina “idroponica” come l’avevca definita Bruno perché l’aveva trovata un poco insipida, altre prove aveva fatte con altre verdure e con i bulbi di giacinto e di giunchiglie che solo piantati in ciotole pieni di breccole purché bagnati quotidianamente, avevano dato delle splendide fioriture.

  Aveva ripreso i suoi quaderni che spesso aveva pensato di distruggere, ma sempre suo padre l’aveva incoraggiata ad andare avanti anche se lui probabilmente non l’avrebbe visto terminato.

  Caro, amatissimo padre, che l’aveva sempre spronata ad andare avanti e ritrovare la fiducia in se stessa, ogni volta che si sentiva scoraggiata e che se ne era andato nel sonno senza dar fastidio a nessuno in una tiepida notte di primavera, lasciando la moglie affranta e la figlia lontana.

  Soltanto Alfio e Aurora resero omaggio alla sua salma e avrebbero voluto presso di loro la nonna, ma ella non volle muoversi: “Chi porterebbe i fiori sulla sua tomba? Anche dopo la morte continuava il loro amore.

  Proprio per la riconoscenza che doveva loro, aveva il dovere di proseguire nelle ricerche e negli appunti; se lo era ripetuto spesso Irene che quello era il suo compito da portare a termine perché le pianticelle erano state le uniche fonti di gioia e soddisfazione.

  Proponeva anche gusti nuovi in cucina ed erano insalate variopinte con frutta e verdura e petali di rose ben lavate oppure violette e nasturzi canditi che ornavano torte e gelati casalinghi che da quando aveva il frigorifero elettrico era meno faticoso rassodare:

  L’approvazione o meno dei nipoti non le era necessaria, quanto il coinvolgerli nella conoscenza delle proprietà di ciò che, da sempre, aveva appassionato la loro ava; perché i giovani dovevano sapere la differenza esistente fra i principi naturali e i prodotti farmaceutici confezionati in laboratorio che avevano invaso il mercato e che spesso avevano degli effetti collaterali micidiali.

  I medicinali in confezione, avevano reso immediata la vendita e la somministrazione ed erano favorevolmente accolte dalle farmacie.

 Nessuno era più disposto a perdere tempo nel decifrare le meticolose prescrizioni  mediche da preparare sul momento, anche se i benefici prodotti naturali, restavano alla base di ogni specialità. Di sicuro, le nuove generazioni di farmacisti, non avrebbero più avuto la pazienza adatta con la vita frenetica che si preparava per l’umanità. Le sue pessime previsioni, non l’avevano mai distolta completamente dal suo hobby che doveva portare a termine, se non altro come omaggio alle donne della sua famiglia che vi si erano dedicate, specialmente sua madre che non andava a riposare se quel tale sciroppo non era ben filtrato o la tal’ altra cartina non aveva le sue polverine amalgamate perfettamente.

 Quei quaderni, i suoi nipoti, li avrebbero avuti fra le mani un giorno e, qualcuno leggendoli, l’avrebbe, forsanco, derisa.

 C’era molta auto ironia nei pensieri d’Irene nell’immaginare i commenti postumi al suo indirizzo, qualcuno l’avrebbe ritenuta anche pazza maniacale, come aveva sempre fatto suo marito allorché la vedeva scrivere, non se ne turbava troppo però perché era sicura ché vi dedicava soltanto qualche spazio di tempo che sottraeva al suo riposo senza trascurare nessun lavoro di casa.

 Per prima cosa il dovere! La sua esistenza era stata forgiata su tale principio.

 Quei suoi quaderni sarebbero rimasti.  Si era solamente logorata maggiormente, nel fisico e nell’anima. Questo si! Le pagine che aveva riempito, erano state le sole amiche che avesse avute e in quelle descrizioni, le melanconiche giornate, si riempivano dei colori e dei profumi delle piante che andava illustrando.

 Solo la gioia provata nel seminare, piantare, innestare e vederne poi il risultato, allo spuntare di una prima fogliolina, l’aveva fatta sentire creatrice, così quando sbocciava un fiore le faceva credere che fosse nato per vederla sorridere.

  Piccole, puerili gioie, ma immense per il suo animo esacerbato!

Da qualche tempo dormiva poco e il suo cuore era affaticato, lo dimostrava il suo battito non più regolare con qualche spasmo anginoso, da se stessa se lo era diagnosticato e da sola si curava, concedendosi frequenti intervalli di riposo; se ne stava sulla poltrona seguendo il filo dei pensieri e s’incantava guardando il Monte Mario di fronte alsuo giardino pensile.

  Il bosco formato dalla Macchia Madama, non aveva gli stessi alberi della sua collina natìa e invece delle rondini, davanti a lei volteggiavano i gabbiani che lei, non amava quanto quelle perché sapeva che si nutrivano delle carogne trascinate dal Tevere che scorreva nei pressi.

 Nella sua solitudine pensava alla solitudine della sua adorata madre che da anni non vedeva perché al funerale di nonno Guglielmo avevano presenziato soltanto Alfio, Aurora, Placido e Beatrice.

  Alfio poi, era ritornato più volte presso sua nonna per espletare le varie pratiche

inerenti ai lasciti testamentari, molto esigui, invero, ma che lo avevano lasciato erede del piccolo Museo romanico, delle sue raccolte musicali e della biblioteca, tutte cose che interessavano soltanto quel nipote che riconoscente, fece un ulteriore tentativo di condurre seco la cara nonna Renata che fu irremovibile.

  Sentiva la fine vicina quella cara donna operosa e difatti, si spense, a meno di un anno di distanza e proprio nei giorni della morte di Lilia.

  Per questo, Irene, dovendo presiedere ai gravi sconvolgimenti di quel periodo non trovò che potesse sostituirla in casa e accompagnarla fuori.

  Il suo matrimonio aveva segnato un distacco completo dalla sua terra, e dai suoi perché anche le loro visite si erano sempre svolte in un clima circospetto e piena di tensioni per non urtare la suscettibilità del capofamiglia.

  Il rammarico di non essere stata più volitiva e meno rassegnata, pesava tuttora sul suo cuore stanco.

 Nel fare presente a suo marito che non poteva sottrarsi dall’andare a consolare sua madre che era rimasta vedova, si ebbe da lui delle parole indegne di una persona civile: “ Che c’è da consolare? La morte, si sa, arriva per tutti ….tuo padre ha avuto la fortuna di arrivare a tarda età e tuo marito chissà se ci arriverà!

  Devi avere del buon senso in questo momento, con tutto il trambusto che abbiamo in casa, non ci possiamo muovere né tu né io - soggiungendo con tono convincente -fra qualche tempo ti accompagnerò io da tua madre e la porteremo a casa nostra.”

  Fra le lacrime, ella volle crederle ancora una volta, ma di quel viaggio non si parlò più fino che giunse l’altra ferale notizia.

 Stavolta lo ebbe il permesso e, con i figli, partì alla volta della sua casa natale per rivedere la madre soltanto nella bara.

  Sconvolta e inebetita, nello stringere al petto, fra i singhiozzi, la sua figura diaccia, parve che ella volesse ripudiare il suo abbraccio disperato, quale rimprovero per non esserle stata vicina ed essere giunta troppo tardi.

 Se ne crucciò a lungo dicendosi che se avesse parlato loro della prigionia cui era costretta, forse tutta la sua esistenza avrebbe avuto un altro corso, ma lei non aveva voluto addolorarli, cercando di mostrarsi serena davanti a loro e poi, se l’avesse fatto, Massimo l’avrebbe fatta pagare a lei e ai ragazzi.

Essere scacciata da casa Sarducci, fu per Evi, un’amara pillola da ingoiare e avrebbe preferito un vivace alterco con la vecchia signora per accampare diritti sul figlio, ma ripensandoci, non ne fece nulla giacché le grinfie sul loro lato commerciale l’aveva ben piantate e non poteva rischiare di perdere tanti vantaggi acquisiti.

  L’unica cosa che impose al suo amante fu quella di servirsi della figlia Bice per la manutenzione del suo abbigliamento personale e fu così che la povera ragazza dovette sorbirsi gli ordini del padre, quelli del fratello e del nonno ed ogni giorno il suo lavoro era massacrante, ma per nulla al mondo, se ne sarebbe lamentata con sua nonna.

  Capì che era stata una macchinazione di Evi per vendicarsi, ma non fece rimostranze perché, tanto, nessuno avrebbe potuto aiutarla.

  Ogni tanto la signora Elvira conduceva Bertilla a trovare nonni e la bambina si divertiva un mondo su quella terrazza piena di fiori e dal parapetto vedeva in lontananza pure il fiume.

  Più di tutto si divertiva ad aiutare Irene a disegnare e ritagliare fiori e foglie da incollare sui “ Libri delle erbe “ come aveva sempre chiamato i quaderni della nonna,nel frattempo imparava i nomi delle piante ed era felice quando, a distanza di tempo, li riconosceva, batteva le mani contenta dicendo: “Questa è una viola del pensiero! …Quest’altro mazzetto è il prezzemolo che nonna Elvira mette insieme al tonno per fare il sugo del venerdì …e questa foglia a forma di mano non è l’edera della loggetta della casa vecchia?

  Aveva anche imparato a mettere le foderine di carta canepina su quei libri mentre Bice stava ultimando le etichette con il monogramma

  Fra non molto l’opera sarebbe stata finita con grande gioia dell’autrice che aveva gradito moltissimo l’interessamento delle nipoti.

  Ora poteva dire veramente di lasciare qualche cosa a testimonianza del suo passaggio terreno.

  E un brutto giorno il suo cuore si fermò

  L’ultimo suo sorriso fu per la Bice che fino all’ultimo le era stata accanto e con tanto amore l’aveva accudita ricambiando con le sue volenterose mani quello che la nonna aveva fatto per tutta la loro numerosa e difficoltosa famiglia.

  L’eredità che le lasciava purtroppo era molto gravosa giacché doveva essere al servizio di tre persone difficili, esigenti e ingrate che al lavoro femminile non sapevano offrire neppure un grazie.

  Bice, prevedeva per se un brutto futuro e, come la mamma, come la nonna, si vedeva predestinata solamente a dare.

  Dalle due creature che aveva adorate e che le avevano insegnato l’obbedienza più completa, aveva anche assimilate la limpidezza dell’animo e la rettitudine dei pensieri, secondo il suo giudizio però, l’obbedienza e la rassegnazione totale se non giungono a modificare l’atteggiamento di chi comanda, sono inutili perché servono solo a fissare l’assurdo servilismo di chi è soggetto e la boria soddisfatta di chi lo tiene in pugno.

  Pensando a se stessa, la ragazza aveva dei forti dubbi sulla propria resistenza fisica e riconosceva loro di aver dimostrato più coraggio a vivere in quelle condizioni che se fossero state in perpetua guerriglia fra rabbia e dispetti e scontri.

 Alla sua giovane età, soprattutto, diffidava dell’amore.

 Dagli esempi che aveva avuto si era fatta l’idea che se una donna innamorata, dopo il connubio, deve vedersi trattata come un essere inferiore, usata a sua discrezione per il lavoro e per il piacere, meglio che resti sola.

ta, fermamente convinta di aver trovato “l ‘unico” in colui che le fa sentire palpiti nuovi e Inevitabile che una fanciulla, inesperta e credula, s’innamori, vedendosi corteggia sconosciuti, non aspirando ad altro che vivergli accanto per tutta la vita senza approfondirne il carattere.

 Di sicuro, non tutta l’umanità maschile è crudele ed egoista con le donne!

 Però si dovrà solo al caso l’incontro fortunato!

 La ragazza, vedeva buio il suo domani perché impaurita di dover far fronte da sola a tutto l’andamento domestico ora che le sarebbe mancato il consiglio della nonna e chissà se sarebbe stata capace di accontentare quei tre egoisti?

 Temeva sgridate, sberle e offese conoscendo l’impulsività,l’ignoranza e la violenza di quelle tre nature che non andavano d’accordo neanche fra loro.

 Il nonno da quando mancava colei che, molto sollecita per non sentirlo imprecare, prevedeva le sue continue richieste, era diventato ancor più indisponente e dalla mattina alla sera malediva la povera morta perché si era sottratta al dovere di servirlo e sua nipote non lo accontentava per quanto facesse del suo meglio.

  Suo padre che si era stabilmente inserito in casa dell’amica, ogni due giorni gli faceva recapitare la sua biancheria da lavare e stirare, era Bruno a prelevarla al negozio e riportarla non appena pronta sgridandola aspramente se dava la precedenza a quella piuttosto che alla propria.

  Le urgenze delle richieste erano quelle che più la fiaccavano e le sembrava di vivere in un manicomio dove tutti la comandavano e pure correndo, da quando si levava dal letto a quando si coricava, vedeva sempre disordine attorno e nessuno soddisfatto.

  Cominciò a dormire meno e a nutrisi a “spuntini” irregolari fino a che l’alba la trovava ancora stanca senza forza per alzarsi.

  Fu presa sempre più spesso da conati di vomito che la portarono a rifiutare addirittura il cibo e non sopportava più di essere offesa e maltrattata in continuazione, i suoi nervi stavano crollando e in più accusava un continuo tremolio alle gambe che stentavano sorreggerla specialmente quando si trattava di lavare i pavimenti, compreso quello della terrazza.

  Si sentiva allo stremo delle forze e capiva di stare male eppure, nello specchiarsi vedeva le sue gote colorite….che fare?

  Aveva pensato di chiedere aiuto a nonna Elvira, ma ella col suo lavoro di sarta e con la sua sorellina a carico cosa avrebbe potuto fare?

  Inoltre non poteva costringerla troppo spesso fare tutta la lunga scalinata per arrivare fino all’ottavo piano di quel loro grattacielo.

  A furia di pensare si decise di scrivere ad Albano per chiedere allo zio Placido di suggerirle il nome di qualche ricostituente che avrebbe potuto rinforzarla.

  La laconica letterina che giunse agli zii li mise in grande allarme e immediatamente giunsero presso la nipote.

  La trovarono smagrita e denutrita, coi pomelli rossi e la febbricola, segni certi che bisognava sottoporla immediatamente a ricerche specifiche.

  A Placido era bastata un’occhiata per rendersi conto dell’urgenza, quel falso colorito, le labbra e le mani esangui non promettevano nulla di buono perché in due o tre mesi era allungata parecchio, superando in statura anche sua zia.

  Quel fisico in accrescimento non aveva retto allo stress a cui era sottoposto, era necessario quindi tenere in riposo quelle manine divenute trasparenti.

  Con uno sguardo i due coniugi si compresero e organizzarono il da farsi.

  Aurora s’era già messa in cucina per approntare dei cibi bastanti per un paio di giorni per suo padre, nel frattempo rimproverava quest’ultimo per aver ridotto la nipote in quello stato.

 Come non aveva pensato a provvedersi di una domestica a ore?

  Avrebbe già dovuto farlo quando c’era la mamma, ma la sua avarizia non gli faceva capire quando le donne stavano per crollare dalla fatica…per lui erano come muli:

 Bruno stesso, giovanotto ormai, non aveva visto in che condizioni si era ridotta la sorella? E il loro padre ? Si era addirittura scordato di avere dei doveri verso di loro.

 Intanto la ragazza sarebbe venuta immediatamente con loro che avrebbero provveduto a farla curare e loro due si arrangiassero come volevano, erano adulti e potevano vivere da soli. 

  Placido non aveva assistito al battibecco perché si era recato immediatamente al negozio per chiedere al cognato il benestare per condurre la figlia al Casale, farla visitare e curare perché era cosa urgente.

  Andrea cadde dalle nuvole perché effettivamente dalla morte della nonna non l’aveva più vista e aderì passivamente a quell’offerta che lo liberava di una grave preoccupazione anche se restava il problema del maschio e del vecchio.

  Accennando a questi sbirciò Evi, seduta alla cassa, ma quella più svelta subentrò nel discorso dimostrandosi anche comprensiva.

 Stessero tranquilli che al sor Massimo avrebbe mandato una domestica che avrebbe svolto i lavori che fino ad allora aveva svolto Bice, dai pasti alla pulizia della casa.

 Placido soddisfatto, prima di ritornare a prendere moglie e nipote si recò a parlare con un tisiologo suo amico che si sarebbe recato l’indomani al Casale per una prima visita alla giovane.

 Ritornato al Flaminio, Placido trovò che Bice e Aurora, con una grossa borsa riempita d’indumenti necessari, erano già scese ad attenderlo e quindi proseguirono per Albano per Albano a bordo del calessino che li aveva portati a Roma.

 Se è vero che anche nelle avversità è possibile trovare note positive, quella malattia, avrebbe permesso a Bice di vivere come si conviene ad una figlia di famiglia e in seguito a ciò avrebbe cominciato ad amare l’esistenza fra persone buone e amorose.

La sòra Nena, chiamata così da tutti, era una figura caratteristica che dava poca confidenza, ma che lavorava sodo ogni qualvolta che c’era bisogno di braccia forti e robuste e, queste, le aveva veramente nodose da sembrare quasi mascoline come tutto il suo aspetto alto e ossuto coll’andatura montanara.

 Il suo volto aveva un ghigno mefistofelico per il naso adunco e il labbro leporino male operato; un’altra sua caratteristica era quella di soffermare i suoi occhi nerissimi, ma piccoli come spilli, più a lungo del dovuto, sui suoi interlocutori, come per scrutare se v’era quel senso di ribrezzo che sapeva suscitare la sua figura.

 Apparentemente stava bene con se stessa, ma non amava essere commiserata né era disposta a dare spiegazioni su di sé.

  L’unica cosa che lasciava perplessi era quella sua capigliatura corvina con scriminatura centrale e due trecce laterali arrotolate in due “marozzelle” su ciascuna orecchia che sembravano incollate perché non si spostavano neppure durante i suoi faticosi lavori.

 Qualcuno diceva che fosse una parrucca.

 Il suo lavoro specifico era quello di lavare i panni, ma siccome le richieste erano fin troppe, invece che a domicilio del cliente, preferiva prelevare i panni riportandoli lavati e stirati.

 Nessuno conosceva la sua età e neppure il suo domicilio, il recapito per contattarla era un’osteria dei dintorni dove il cliente lasciava nome e indirizzo, lei stessa si sarebbe fatta viva.

 La stessa cosa fece Andrea quando si trattò di provvedere per suo padre che si vide presentare una persona che conosceva già di nome perché qualche sua cliente ne aveva decantata la capacità di fare dei bucati bianchissimi, forse per la forza che vi metteva. 

 Sapeva pure che non indulgeva in chiacchiere ed era riservata e seppure con quel suo aspetto non era piacevole vederselo dentro casa, se ne dovette accontentare perché sarebbe stato molto difficile trovare qualcuno disposto a fare giornalmente e tante scale perché non era solo di lavandaia che abbisognava, ma pure di qualcuno che gli preparasse i pasti giornalmente e pulisse l’abitazione saltuariamente.

 Lo spiegò alla sòra Nena che si disse disposta a tutto, purché avesse libertà di azione, nel senso che i pasti li avrebbe portati già cucinati, altrimenti il pagamento non sarebbe più stato calcolato a ore, ma a giornata completa.

 Se era disposto a pagare!!! ……Era lui che doveva scegliere!

 Il sor Massimo non ci pensò due volte e scelse la convenzione più economica che aveva anche il vantaggio di non averla tanto fra i piedi.

  Ebbe inizio così il suo nuovo modo di vivere che al principio non fu tanto male perché Bruno faceva in modo di essere presente al suo arrivo prefissato e usciva dopo che lei se ne era andata.

  Anche i pasti non erano malvagi, anche se non rassomigliavano affatto a quelli cui era abituato.

  Ogni quindici giorni faceva pulizia generale della casa e lui, personalmente, osservava se lo faceva a dovere.

 Dopo circa due mesi cominciò ad avere il sospetto che i cibi gli arrivavano piuttosto arrangiati e mal presentati, fossero avanzi di trattoria, specialmente quando alla sera doveva scaldarseli da solo, diventavano disgustosi.

 Si guardò bene dal dirglielo, ma mangiava sempre più nauseato.

  Ne parlò al nipote che lo consigliò di mettersi a pensione presso una trattoria vicina, ma la sciatica di cui soffriva non gli permetteva più di fare le scale e il servizio a domicilio gli sarebbe costato un patrimonio

  Cosicché non ne fece nulla continuando a sorbirsi le schifezze che portava la lavandaia, piuttosto che intaccare il suo vistoso gruzzolo che nessuno aveva mai saputo ove fosse riposto.

  La verità stava proprio in quello che aveva sempre pensato Irene e non poteva essere altrimenti, il ripostiglio segreto si trovava in un piccolo vano scavato nel tramezzo in muratura che divideva il banco di vendita dal retro bottega, ben mimetizzato dall’intonaco e invalicabile dalle scaffalature.

  Però all’avvicinarsi del momento in cui venne dispensato dal lavoro egli col pretesto di portare a casa una cassetta di vecchi campionari che si riprometteva di rivedere prima di gettare, fece il “trasloco” del suo tesoro che consisteva in un cospicuo numero di biglietti di banca ben allineati e impacchettati a mò di banca.

  Aveva impedito a tutti, per un certo tempo, di curiosare nella cassetta del vecchio campionario che celava in un mastodontico baule situato sotto la finestra della camera da letto, guardato a vista.

  Quando era certo di essere completamente solo, estraeva i suoi amati fogli li sciorinava sul grande letto matrimoniale contemplandoli a lungo, poi, contandoli per l’ennesima volta, riformava le mazzette impeccabili e le riponeva di nuovo ben nascoste.

  Cosa pensasse di farne alla sua età e con la vita che conduceva

probabilmente non lo sapeva neppure lui.

  Vivere da povero per morire da ricco era la cosa più sciocca che avesse potuto fare, privandosi anche di quelle piccole comodità che gli avrebbero resa meno penosa la vecchiaia, specialmente da quando la sciatica si era aggravata non dandogli più requie, notte e giorno.

  Per quei suoi dolori lancinanti che gli impedivano, in certe giornate, di tenersi in piedi, avrebbe avuto bisogno di qualche infermiere per dei massaggi oppure qualche cura specifica contro il dolore, ma non ci pensava neppure…si guardava i suoi soldi e soffriva.

  Aveva covato il piacere di ammucchiare denaro senza far felice nessuno e la sua felicità stava nella “conta” di quei fogli inutili e quando erano riposti trascorreva le ore a guardia del baule sempre nel timore che qualche ladro se ne fosse appropriato.

 

 


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