ROMANZO
STORICO
in
tre parti
TERZA
PARTE
(1)
Nonostante
le assicurazioni di neutralità, l’ Italia giunse a dichiarare guerra a
Francia e Inghilterra e come sempre le previsioni erano ottimiste perché
si prevedeva di breve durata. Invece il conflitto si rivelò durissimo con il terrore che
serpeggiava negli animi perché si prevedeva l’uso di armi atomiche e
tossicologiche, nessuno però sapeva dare per certi questi eventi:
I sacrifici però divennero evidenti quando la carenza di
viveri, di vestiario, di risorse energetiche costrinsero tutti a
ridimensionare i consumi ristretti da un tesseramento drastico che
condusse a ricercare generi alimentari e altro al mercato nero che fece la
fortuna di loschi individui che speculavano indifferenti e soddisfatti.
Anche la capitale non fu risparmiata da bombardamenti e
saccheggi e le scene drammatiche e violente furono all’ordine del
giorno, con le deportazioni di ebrei e di dissenzienti seminarono il
panico e la disperazione e se, alcuni, sopravvissero ai campi di sterminio
fisicamente, ne ritornarono scheletrici e distrutti nell’animo.
Sono inspiegabili e
incomprensibili i motivi per cui si compiono
simili eccidi, sicuramente nati da menti malate altrettanto di quelli che
conducono i popoli sui sentieri di guerra che non uniranno mai gli spiriti
e gl’ideali, ma continueranno a generare odi e razzismo.
Seppure sarà difficile creare la pace universale che gli
animi nobili auspicano, si dovrebbe comprendere quanto più positiva
sarebbe la discussione aperta e illuminata delle parti; gli esperti di
problemi sociali, i dirigenti degli Stati con tutti gli addetti ai lavori
potrebbero dirimere le questioni più ardue che generando animosità e
insofferenze portano a guerre micidiali.
Forse potrà sembrare un traguardo utopico, ma quanto sarebbe
più efficace e la molla per giungere a ciò dovrebbe venire nel ricordo
di massacri bellici perpetrati inutilmente, oltrepassando i limiti
dell’onore e della dignità umana che non hanno mai risolto le
divergenze, ma hanno generato altri motivi di distacco.
Il sangue reca seco sempre altro sangue!
Sono ancora Tiranni che hanno compiute nefandezze inaudite sui
prigionieri indifesi, essere umani, loro simili, ma senza potere alcuno
che alla loro mercé furono costretti a soccombere. I Lager nazisti, hanno reso un cattivo servigio alla grande e
potente nazione germanica, perché sono rimasti a testimoniare, le nefande
persecuzioni e i sadici esperimenti compiuti sui deportati, vivi e morti,
da persone inumane e dispotiche, Tiranni anch’essi verso i più deboli.
Restano, in quei tragici Musei, gli orrori compiuti da genti
che più delle altre avrebbero dovuto essere civili perché partorite da
paesi progrediti che, da secoli hanno insegnato la civiltà e, per questo,
avrebbero dovuto essere esenti da tali e tante nequizie.
L’Asse Roma Berlino, si rivelò deleteria per l’Italia che
fu portata a seguire le direttive megalomani e razziste di menti
guerrafondaie che bramavano di raggiungere il potere, quasi sovrumano.
Sorsero le Leghe Partigiane per dare aiuto ai perseguitati
politici e contrastare le azioni di guerra; ci furono sabotaggi di ogni
tipo che degenerò nella strage delle Fosse Ardeatine.
La reazione popolare dimostrò che il popolo era saturo della
tirannide dei tedeschi….
alleati e capitò molto spesso che molti di loro, dopo il coprifuoco,
vennero fatti segno a giustizia sommaria da anonimi cittadini stanchi e
oltraggiati.
Per i cadaveri che al mattino si ritrovavano sul greto del
Tevere o in qualche boschetto, mai nessuno poté essere incolpato.
A Roma, dilagava un clima di paura e di mistero per il quale
ciascuno aveva timore di essere incolpato per misfatti altrui e si
attendeva con ansia la liberazione da questa oppressione.
Durante la notte fra le incursioni aeree, i bombardamenti e la
discesa di qualche paracadutista americano in ricognizione le vie del cielo
erano più trafficate di quelle terrestri che il coprifuoco rendeva
deserte.
Si era sparsa la voce che nelle Mura Aureliane di Roma ci
fossero i fantasmi, ma fortunatamente non giunse al Comando tedesco di Via
Tasso e ai loro drappelli di guardia rimanendo pertanto …voce di popolo
impaurito.
Soltanto a fine occupazione, si conobbe la vera storia del
fantasma.
Si era trattato dell’andirivieni di un Maggiore di colore
dell’esercito americano, paracadutato nelle vicinanze di Roma, salvato
da Partigiani che avevano creduto bene di tenerlo nascosto nei cavi delle
suddette Mura e che essi rifornivano di vitto e aiutavano a uscire per i
suoi rilievi da trasmettere al suo Comando.
Fu un azzardo giacché Il nascondiglio non offriva grandi
garanzie di sicurezza per lui,
trovandosi
nel tratto di muraglia in prossimità del Monte di Testaccio dove era
stanziata la contraerea italiana.
La diceria del fantasma era stata divulgata dagli stessi
Partigiani per spaventare quei curiosi che avrebbero intralciata
l’operazione che doveva preparare lo sbarco americano dell’otto
settembre 1943 ad Anzio che determinò la fine della guerra.
La carestia di viveri e merci di ogni tipo aveva tenuto in
ristrettezza il popolo che, subito dopo l’ingresso delle camionette
americane si gettò nelle strade per acclamare i “liberatori” ma anche
per assaltare tutti i negozi e depredarli del contenuto, questa sorte toccò
anche a quello di Andrea Sarducci che non fu più in grado di
ripristinarlo, decretandone la chiusura definitiva.
Finì così ignominiosamente l’ attività della Ditta, la
cui storia aveva creata tanta invidia e qualche leggenda.
Non terminò ancora però la vicenda umana del titolare che
smagrito e dolorante per l’ulcera gastrica che non gli dava requie
viveva solo e abbandonato nello stesso alloggio che lo aveva visto felice
con la sua bella amante, ma che vivace e provocante, dopo averlo tradito a
tutto spiano con vari componenti del Comando Americano, dove era entrata
come interprete, se ne era ritornata in America con uno di loro, fuggendo
di nascosto di Andrea dopo aver trafugato tutti i regali di gran valore
che aveva carpito al maturo innamorato.
Dal momento che l’uomo non era stato più in grado di
consentirle la vita brillante e ricca che si era ripromessa, Evi, nata per
folleggiare, aveva cominciato coll’insultarlo, trovando per lui gli
appellativi più mortificanti e spregevoli, al fine di umiliarne la
potenzialità fisica che non era più quella gagliarda di un tempo.
La sua, ormai, cagionevole salute, avrebbe avuto bisogno del
sostegno di una donna amorosa, comprensiva e disponibile, figurarsi se
l‘americana si sarebbe piegata a farle da infermiera…!
Stando così le cose ella credette bene che fosse giunto il
momento di sostituirlo con uno più giovane e prestante.
Decisa a conquistare un bel militare americano dagli occhi
azzurri che stava per rimpatriare, con le sue arti subdole, riuscì nel
suo intento e partì insieme a lui, offrendoglisi come la sosia di Marilin
Monrroe.
Alterchi e insulti avevano puntualizzato gli ultimi periodi di
convivenza con Andrea, che succube di quella sgualdrina, finiva sempre per
cedere per tema di perderla e quando si ritrovò solo e abbandonato finì
quasi per perdere la ragione per la vergogna e per l’orgoglio ferito; se
ne stava digiuno per ore a rimuginare la sua rabbia, tenendosi per se
rancore e malessere fisico, visto che oramai si era definitivamente
allontanato da tutti i suoi consanguinei.
Non era stato spronato ad un riavvicinamento neppure con la
nascita dei nipotini Curzio e Caterina che avevano fatto invece la felicità
non solo dei loro genitori, ma di tutti gli zii.
Fu un laconico dispaccio di ospedale che annunziò alla
famiglia il suo decesso quando,
una
ennesima emorragia gastrica lo costrinse a trascinarsi al nosocomio,
troppo tardi però
per
essere curato.
Bruno che si trovava a Parigi, presso amici, ricevette l’
infausto telegramma inviatogli da sua sorella Bice, ma non se ne addolorò
più di tanto, perché il padre per lui, era come fosse morto da tempo.
Aveva cose più importanti a cui stare dietro in quel periodo.
Erano ragioni sentimentali che da qualche tempo lo facevano
sostare a Parigi, ospite in casa di una coppia di amici che aveva
conosciuti a Roma durante una delle sue svariate iscrizioni universitarie.
A distanza di due generazioni, anche Bruno avvertiva verso le
donne il senso di superiorità del nonno e del padre e visto il tracollo
fisico e finanziario di quest’ultimo a causa di una
donna che gli era stata accanto solo per accalappiarne la fiducia e farsi
mantenere, pensò che anche lui, dopo tanto sfarfallare fra fiori più o
meno occasionali, aveva bisogno di trovare una ragazza da sposare.
La trovò infatti proprio nella dimora ove era ospite ed era
una allieva molto danarosa del padrone di casa che era un pittore di grido.
Paulette, giovane e carina oltre che allieva era amica della
moglie del pittore e quindi frequentava spesso la loro casa anche al di
fuori delle lezioni.
Ebbe modo di conoscere l’italiano Bruno che possedeva tutti
i requisiti del Latin Lover.
Nacque fra loro molto cameratismo che fu ben visto e
assecondato dal Maestro Serge e da sua moglie Nicole.
La neo pittrice era figlia del facoltoso signor René,
proprietario di una Linea di Viaggio molto importante e che, essendo
vedovo, stravedeva per la sua unica figlia che aveva molto talento per il
disegno e la pittura.
L’aveva affidata appunto al Maestro Serge, ritrattista
affermato, con il compito di insegnarle i segreti della sua arte covando
la segreta speranza di farla divenire una professionista affermata per la
quale organizzare mostre di cui avrebbero parlato i giornali.
Non soltanto orgoglio di padre, ma con il fondamento preciso
dato dalla valutazione dell’insegnante che intravedeva per la sua
allieva una gloria meritata perché dotata di predisposizione naturale per
le riproduzioni dal vero e ogni suo quadro era perfetto.
Paulette però non era esibizionista e non si era prefissa di
raggiungere alti traguardi, dipingeva con passione perché era felice di
farlo, non altro e rideva allegramente alle parole di suo padre che la
spingeva a esporre le sue creazioni.
La ragazza moderna di sentire e di modi, aveva risentito molto
della morte di sua madre, ma il papà René, l’aveva di tante cure e
affetto che l’essere orfana non aveva modificato il suo carattere
espansivo e amichevole con tutti.
Aveva simpatizzato subito con Bruno e conoscendone la lingua
conversava con lui molto volentieri incantata dall’aspetto e dalle sue
tempie che cominciavano ad essere brizzolate.
Il giovanotto lusingato dall’ interesse di quella ragazzina
mise in atto la sua tattica di conquistatore facilitato appunto dalla
simpatia che le dimostrata.
Raccontò un sacco di fandonie sulla sua vita, spacciandosi
per grande commerciante
Pratico del sistema moderno invalso nella gioventù di non
definire fidanzamento una tenera amicizia e di non parlare di matrimonio,
contenti di stare insieme e di scambiarsi effusioni, la circuì
assiduamente, divenendone compagno inseparabile.
Bastò poco tempo per trasformare la tenera amicizia in un
amore infuocato che li bruciò ben presto e che li obbligò a farne
partecipe il genitore per un consenso rapido al matrimonio perché
Paulette aspettava un bimbo.
Il signor René che coltivava altri sogni per quella figlia
adorata e mai avrebbe pensato di vedersela portare via così presto,
rimase costernato all’imprevisto annuncio, anche perché considerava
l’italiano troppo maturo per lei che vedeva ancora bambina malgrado i
suoi diciotto anni poi, di fronte a quell’amore così evidente capitolò,
pensando che da un marito un po’ più grande, la sua figliola, sarebbe
stata anche protetta meglio.
Per il bell’italiano sarebbe stato indifferente porre la
loro residenza sia a Parigi che a Roma, ma proprio Paulette si dichiarò
entusiasta di poter mettere casa nella città Eterna.
Senza
dimenticarsi della casa paterna che sarebbe stata sempre aperta per lei.
Stando così le cose non rimaneva che cercarvi un appartamento
all’acquisto del quale avrebbe provveduto il padre, considerandolo suo
regalo di nozze.
Bruno dovette quindi rientrare immediatamente a Roma con
l’incarico specifico di trovarne una bella e confortevole possibilmente
in un quartiere residenziale, inoltre le sue carte per il matrimonio
dovevano essere pronte con una certa urgenza, meglio quindi provvedervi di
persona.
Caduta la Dittatura, un governo provvisorio cercò di
raddrizzare le sorti della Nazione, ma la ricostruzione si presentava
lunga e difficoltosa.
Le Potenze già impegnate nel conflitto confidavano
nell’Organizzazione delle Nazioni Unite che stava tenendo la sia prima
Assemblea.
Si delinearono molti radicali cambiamenti nel sancire la
Costituzione mentre il vecchio Re moriva in esilio.
I reduci tornati dai campi di battaglia e dalle varie
prigionie, fiaccati nel fisico e nel morale, si sentivano degli emarginati
proprio da quel Paese per il quale avevano combattuto e sofferto,
sprecando inutilmente la loro età più bella e vedendo naufragare le
tante speranze che avevano coltivate
invece la gioventù che stava sbocciando aveva sete di vivere e
si accostava con entusiasmo agli sport di massa, agli spettacoli nuovi
che si pubblicizzavano e, soprattutto ai divertimenti collettivi ove il
“ tutto affollato” era di prammatica.
Cinema, teatri, balere e ogni ritrovo popolare accentrava
l’attenzione dei giovanissimi che storditi dal chiasso e dall’allegria
accantonavano i problemi più gravi.
Tutto si muoveva a ritmo frenetico, sulla falsariga di danze
vorticose, nate oltreoceano, unitamente alle spregiudicate mode e miti che
indirizzavano a più liberi rapporti umani; il dilagare del tifo sportivo
coinvolse intere famiglie di ogni strato sociale.
I Derby campanilisti erano quelli che più elettrizzavano i
tifosi e ciò avveniva anche nella famiglia di Enrico che fin dai tempi
del collegio, era appassionato di foot bull, tifando per la Lazio, visto
che era nativo dei Castelli, suo figlio Curzio, invece, aveva in cuore la
Roma cosicché il giorno della gara fra le due squadre della Capitale
avvenivano scontri bonari fra padre e figlio che sovvertivano
l’andamento familiare sempre molto regolare.
Il padre era felice che suo figlio condividesse la sua stessa
passione e lo aveva sempre rifornito di poster di calciatori importanti,
di edizioni speciali sulla storia del calcio per tenergli vivo
l’entusiasmo e, divenne tanto vivo che Curzio finì in una palestra per
piccoli calciatori ove si allenava con impegno.
Aveva otto anni quando avvenne il tragico incidente aereo di
Superga che distrusse la magnifica squadra del Torino, quella tragedia
sconvolse il bambino che volle avere la grande foto di gruppo per tenerla
sempre affissa nella sua stanza.
La sana attività sportiva che occupava le ore serali del
ragazzo fu una abitudine che lo accompagnò anche quando, scegliendo la
facoltà di Medicina.
L’impegno dello studio lo teneva molto occupato, ma la
disciplina acquisita nello sport di gruppo oltre che tenere allenati i
suoi muscoli, gli affinò lo spirito portandolo alla generosità e
all’altruismo, nelle gare, sapeva accettare le sconfitte con dignità e
non s’inorgogliva troppo delle vittorie, tenendo sempre presente il
popolare motto, che sembra essere stato citato anche dal Padre delle
Olimpiadi, De Couberten: “L’importante è partecipare!” che
Curzio aveva fatto suo e con tale principio, il ragazzo, avrebbe compiuto
in avvenire molte nobili imprese.
Per questo Greci e Romani, istituirono le gare ludiche per
insegnare ai partecipanti a dare il meglio di se stessi con spirito di
corpo, senza animosità verso nessuno e, sempre, plaudendo ali migliori.
Il fisico tutto si giova dell’esercizio atletico sia per
scaricare tensioni accumulate e sia per correggere malformazioni ossee e
organiche, lo predicavano già Galeno e Ippocrate
Il progresso, propagandando quelle verità, ha messo a
disposizione di tutti ogni genere di attrezzature in Palestre e in
Ambulatori medici e le deformità sono meno numerose, perché corrette in
tempo, in più nell’ambito sportivo, si può trovare anche la soluzione
per molte problematiche psicologiche.
L’Italia che usciva da una guerra, non sentita, poiché non
se approfondirono le motivazioni neppure sui postumi libri di storia, tornò
a entusiasmarsi per gli eroi sportivi del momento.
Specialmente sui due eroi ciclistici, amici e antagonisti,
Bartali e Coppi, le cronache sportive e non davano resoconti
particolareggiati, non solo dettati da tifo sportivo, ma anche indirizzati
a rendere di pubblico dominio le loro vite private.
Si vennero moltiplicando le pubblicazioni scandalistiche,
spesso con notizie inventate e con fotomontaggi osé.
Bice che si era rivelata una massaia solerte e precisa viveva
la sua vita tranquilla che si svolgeva con un certo metodo accompagnato da
quella serenità necessaria che consente ad ognuno di esplicare le proprie
mansioni al meglio.
L’andamento domestico aveva sempre rispettato orari precisi
che permetteva il ritrovarsi della famiglia ai pasti ed era attorno alla
tovaglia che si scambiavano opinioni e principi sui fatti del giorno e su
problemi personali.
A volte accadeva che la giovialità paterna proponesse qualche
divario, sempre ben accolto da tutti e allora accadeva che una domenica
fosse il papà a mettersi ai fornelli, creando molta confusione di pentole
e tegamini che poi toccava a mamma e sorella riordinare, oppure per una
pietanza elaborata insieme dai genitori, avessero dimenticato di mettere
il sale, dandosi poi la colpa l’un l’altra.
Si finiva sempre col ridere di queste situazioni da diventare
un vero divertimento, come la volta che il signor Enrico “emerito
funzionario ministeriale“ per fare delle frittelle dolci,
nonostante
il grembiule che sua moglie le aveva prestato, schizzò di olio bollente
la sua camicia nuova.
Bice, scherzando, gli propose di andarci in ufficio
presentandosi come… "il cuoco della Rosetta" che era un ristorante
molto in voga a Roma; la sana allegria che regnava in casa loro faceva la
gioia di coloro che li amavano e che li portavano come esempio a tutti.
Da quando nonna Elvira fu colpita da glaucoma, toccò a Bice
dedicarsi un poco a lei che viveva sola dal momento che Bertilla aveva
preso i voti.
Aveva bisogno di cure continue e doveva contare su chi le
istillasse le gocce specifiche ad orari stabiliti per i suoi poveri occhi
logorati anche da lunghi anni di cucito, bisognò quindi prendere la
decisione di trasportarla in un ricovero a lunga degenza, fortunatamente
le amiche suore s’interessarono di trovarle una adeguata sistemazione,
ma alla sofferente mancava il calore della sua casa e finì col
rimproverarsi per avere, a suo tempo, appoggiata la vocazione della
ragazza pensando soltanto che quella fosse la sistemazione più adatta,
per allontanarla dalle insidie del mondo, non prevedendo la propria
solitudine.
Lo capì solo quando fu colpita dal male, quanto meglio
sarebbe stato averla accanto e, per il cocente rammarico, non faceva che
piangere aggravando le condizioni dei suoi occhi ammalati che stavano
rapidamente perdendo la vista.
Sopraggiunsero anche altre infermità che la resero insonne e
insofferente alla immobilità a cui era costretta.
Giunse al punto di dover essere sorvegliata continuamente
perché improvvise crisi arteriosclerotiche la resero pericolosa a se e
agli altri, ma l’ Istituto che l’ospitava non era in grado di tenerle
accanto una infermiera giorno e notte, a questo avrebbero dovuto pensarci
le nipoti che, non sapendo come risolvere questa faccenda, decisero di
rivolgersi alla Superiora dell’Ordine che, in via eccezionale, avrebbe
mandato qualche consorella anziana giacché le giovani erano tutte
impegnate, compresa la stessa Suor Bertilla, che insegnando nelle classi
elementari era impossibilitata ad assentarsi dalla Casa religiosa.
Beninteso che le suore si sarebbero avvicendate solamente
nelle ore notturne, per il giorno si sarebbe dovuta impegnare Bice.
Ma nell’informare la malata, delle decisioni prese dalla
vecchia amica Direttrice, le due sorelle restarono molto spaventate dalla
furiosa reazione della nonna che non voleva persone estranee accanto e se
dovevano essere monache perché non sua nipote?
La signora Elvira che si era sempre adattata alle circostanze
avverse della sua esistenza questa volta insorse con fermezza puntigliosa:
“Piuttosto che avere un’assistenza di carità, preferisco morire e, se
non potrò avere l’assistenza di Bertilla, non toccherò più cibo…”
e lo fece davvero, cominciando da subito a rifiutare di nutrirsi
Viste le precarie condizioni fisiche della signora Elvira e,
temendo il peggio, la vecchia suora rivide le sue decisioni e, facendo uno
strappo alla regola, permise alla maestra Bertilla di assisterla solamente
nelle ore notturne perché, al mattino doveva essere puntuale nella sua
classe, su questo non transigeva.
Suor Bertilla accettò, senza fare obiezioni; capiva
perfettamente che essendo in prossimità degli esami di fine anno, sarebbe
stato controproducente affidare le sue scolare di quinta elementare a
qualche supplente, ne sarebbero rimaste traumatizzate
Anche sua sorella comprese queste ragioni, impegnandosi a
stare vicino alla nonna durante il pomeriggio, lasciando il compito di
qualche incombenza casalinga alla giudiziosa Caterina.
Si presentava un periodo gravoso, ma si sacrificarono
volentieri un po’ tutti, per dimostrare affetto e dedizione alla nonnina
che nella vita aveva sempre lavorato e penato.
Bice, tranne qualche visita in parlatorio, con lo scambio di
piccoli presenti in occasione delle festività più importanti, non era
mai entrata troppo in profondità nella vita claustrale di sua sorella, ma
sapeva con quanta solerzia si era preparata al compito di maestra e gli
apprezzamenti che riceveva erano la conferma che sapeva ben svolgere i
suoi programmi fra la riconoscenza delle piccole allieve e delle loro
famiglie.
Affabile e comprensiva svolgeva i suoi compiti con molta
serietà e competenza perché era stata ben preparata nei Corsi di
Magistero cattolici e continuando a frequentare i Seminari periodici di
aggiornamento, specializzandosi in Psicologia e Pedagogia per approfondire
la conoscenza dell’animo infantile.
Candida e serena comunicava facilmente e le sue lezioni erano
improntate di giocondità, per questo le bambine che dalla prima portava
fino alla quinta, si trovavano bene con la giovane suora che le trattava
come una sorella maggiore.
Era stata un’orfana senza allegria e se anche nonna Elvira
non le aveva fatto mancare nulla, le aveva comunicata la sua tristezza e
pure le favole che a volte le raccontava erano sempre le più moralistiche
e seriose del repertorio al fine d’indurla ad una saggezza prematura che
però ingigantivano nel piccolo animo la paura del mondo esterno.
Si sentiva protetta in casa e altrettanto nel convento ove,
molto presto, era stata incaricata di insegnare la Dottrina alle frugoline
che si preparavano a prendere i Sacramenti. Per questo atto di fiducia, accordatole dalla Superiora, la
giovanetta s’impegnò molto seriamente perché voleva esserne degna e
poi perché amava stare fra le piccoline sia all’Oratorio che in Chiesa
per il Rosario.
Era felice pure di unire la sua fresca voce a quelle del Coro
perché aveva ereditato un bel tono di contralto da Nonna Irene ed anche
questo talento era stato apprezzato da colei che l’aveva presa sotto la
sua protezione.
La veneranda Madre, conosceva l’intima essenza di
quell’animo limpido, puro e giulivo, la vide perciò predestinata alla
vita monastica.
Non aveva tempo la piccola per pensare ad altro che non fosse
lo studio, il Catechismo e il canto.
Bertilla aveva assorbita l’aria mistica del convento
convinta che in esso avrebbe trovato completo appagamento e se pure la
sua, fosse stata una vocazione condizionata, sembrava non essersene mai
pentita.
La vita esterna non la conosceva, ne riceveva gli echi dalle
bambine che nei loro diari raccontavano le vicende familiari e negli
atteggiamenti dei genitori che nei giorni di colloquio chiedevano notizie
scolastiche, intravedeva solo affetto e protezione.
Non
altro...! Ne si era mai addentrata in pensieri
riguardanti il sesso o la vita mondana, queste cose non l’avevano mai
attratta perché non facevano parte del suo mondo.
Le “sue” piccole le erano molto attaccate specialmente
quando alla ricreazione si univa ai loro giochi spensierati, per certi
versi poteva apparire immatura.
Ma era solo apparenza che col trascorrere degli anni,
completando i suoi studi filosofici e psicologici la giovane professoressa
prese a scandagliare meglio il suo animo e proprio l’amore che nutriva
verso l’infanzia le fece germogliare in cuore un sentimento che non
conosceva.
Era l’istinto materno che insito in ogni donna a un certo
punto esplode.
Si trovò persino a disagio nell’inseguire pensieri fino
allora sconosciuti e nel chiuso della sua cella, si sentiva affranta dal
timore di essere in peccato e piangeva lungamente, implorando il perdono
del cielo. Non che fossero cattivi pensieri, i suoi, ma era il calore
della famiglia che le era sempre mancato, le coccole della madre che
scomparsa troppo presto, non si era fatta conoscere e l’aveva privata di
quello che avrebbe saputo darle.
Ed ora, era lei che avrebbe voluto essere madre per qualcuno,
in questo senso navigavano i suoi pensieri…ma era già commettere
peccato per una monaca che aveva fatto voti di rinuncia.
Gli esemplari maschi, visti in famiglia, le avevano inculcata
l’idea che in ogni uomo ci fosse un tiranno, ma testimone involontaria,
di tante semplici felicità casalinghe di cui tanti padri delle sue
allieve, erano protagonisti, l’avevano fatta ricredere su molti aspetti
nascosti dell’esistenza… ora sapeva che non era la norma il vivere
doloroso della sua famiglia.
Era invece l’eccezione!
Suor Bertilla si trovava nel pieno dei suoi conflitti
esistenziali al momento che dovette organizzarsi per conciliare
l’insegnamento e l’assistenza alla nonna.
La
moglie francese che Bruno presentò ai parenti insieme al neonato Charles,fece
ottima impressione su tutti, tranne da chi per mentalità e per invidia,
era sempre prevenuto verso le persone educate e degne di rispetto.
La
lingua velenosa di Rosa puntualizzò subito che la nascita del piccolo
Charles era avvenuta solo tre mesi dopo il matrimonio.
In
famiglia Bruno era ben conosciuto e il fatto stesso di essersi coniugato
con una personcina a modo come Paulette era già considerato un miracolo,
anzi, il miracolo doveva venire proprio da lei. Altrimenti
… povera sposina!
La
francesina possedeva il dono della simpatia ed un sorriso aperto che
conquistava al primo impatto, con la sua franchezza, disse subito di
essere ignorantissima su gli usi e costumi di Roma che voleva conoscere al
più presto perché aveva intenzione di fare la madre di famiglia.
Specialmente
per la cucina, si sarebbe affidata alle cognate per imparare i piatti che
piacevano a suo marito che, a Parigi, soleva criticare la cucina francese
troppo... ”agrodolce”- diceva.
La
gravidanza e l’allattamento l’avevano un pochino arrotondata, ma era
sempre scattante con movenze aggraziate date dalle lezioni di danza prese
da bambina.
Aveva
ricevuto una educazione di prim’ordine e oltre la pittura conosceva
anche la musica, infatti suo padre aveva ordinato anche un pianoforte per
la casa di Roma.
La
frangia castana le copriva in parte gli occhi che rivelavano comunque uno
sguardo volitivo e intelligente.
Accurata
nel suo vestire sportivo, semplice e intonato nei colori, non
per nulla era pittrice!
Dal
momento che si era dedicata ai preparativi delle sue nozze e con la
nascita successiva del bimbo, aveva accantonati i pennelli e sarebbe
passato del tempo prima che avrebbe potuto riprenderli in mano, con gli
ardui compiti di arredare la casa e accudire il piccino.
Aveva
appena fatto in tempo a raccogliere il suo primo trionfo alla Mostra che
suo padre le aveva allestito a Parigi, ma non se ne crucciava, felice
com’era di essere madre e di allestire la casa che era stata il regalo di nozze di suo padre anche se Bruno l’aveva scelta
secondo i suoi gusti “grandiosi”.
Situata
nel quartiere residenziale della Laurentina a venti minuti dal mare di
Ostia, costruita secondo l’architettura della zona sembrava reggersi su
palafitte, ma le palafitte erano di cemento armato, formanti archi ben
solidi da sostenere i due piani e la scalinata di marmo su cui era
l’ingresso.
Sotto
le arcate vi era il posto macchina e la sala che sarebbe stata attrezzata
a palestra – giochi, uno spazio verde la circondava e un muretto in
pietra grigia tutt’attorno la divideva dalla strada.
L’alloggio
aveva incontrato l’approvazione della sposa che però l’avrebbe
preferito con l’ingresso sulla strada anziché vedersi attorniata dal
muro di cinta.
In
compenso aveva una vista stupenda di alberi e giardini, specialmente dal
balcone del secondo piano da dove era possibile scorgere molti campanili
delle chiese romane fra cui quello della Basilica di S. Pietro.
Il
panorama incantò la pittrice che già prevedeva la creazione di tante
opere dal vero che era la sua specializzazione.
Prima
ancora di applicarsi seriamente alla pittura, se ne stava lungamente
nell’ immenso studio di suo padre, a rimirare incantata la raccolta di
Roeler Franz che, straniero a Roma, vi si era installato per riprendere
dal vero gli scorci più caratteristici della città dei Papi, componendo
all’acquerello una serie di 120 opere che nel 1911 furono esposte a
Castel S. Angelo.
Aveva
studiato appassionatamente quei disegni che l’avevano fatta sognare e
sperava di ritrovare quei toni rosati degli edifici e dei tramonti nelle
scorribande che avrebbe fatto fra qualche tempo nella Città Eterna.
Sogni!
Sogni di un futuro che prevedeva felice.
Senza
che lei lo sapesse, aveva nel cuore le stesse speranze che un’altra
donna aveva serbato in cuore per una vita intera senza poterle realizzare.
Mentre
sfaccendava per la casa disponendo mobili, e suppellettili e mettendo in
ordine tante cose che aveva portato da Parigi, non poteva fare a meno,
ogni tanto, di lanciare sguardi di ammirazione sui colori della natura che
si diversificavano ad ogni momento, una volta ne fece partecipe Bruno: “
Quanto è bella la tua Roma, non vedo l’ora di riprendere i pennelli!
“
La
risposta del marito la fece sorridere : “ Con tutto il da fare di casa e
famiglia te ne passerà sicuramente la voglia. Vedrai quante cose più
concrete dovrai spennellare…altro che paesaggi! …
Fra
poco, la pittura, diverrà solo un ricordo, te lo dico io”.
Paulette
non diede molto peso a quelle previsioni, perché sapeva che il dipingere
per lei non era solo un hobby, ma rappresentava una vera necessità.
Ad
ogni composizione riuscita si sentiva contenta e realizzata.
Non
pensava lontanamente di dover chiedere al suo compagno il permesso di
farlo o doverne discutere come e quando farlo.
Non
era abituata a questo, mai!
Tutto
a suo tempo logicamente!.. Per il momento non ne avrebbe avuto la
possibilità, col bimbo così piccino e con la casa da organizzare!
Fra
qualche mese, col giungere della bella stagione e delle giornate piene di
luce, lo avrebbe fatto senz’altro.
Non
immaginava neppure in quale considerazione tenesse i relax, le
realizzazioni artistiche o i semplici piaceri delle donne
quello….sconosciuto che era suo marito.
Lo
avrebbe saputo ben presto, purtroppo!
Si
sarebbe allora rammaricata della sua ingenuità e di quel compiacimento
che aveva provato suscitando l'interesse dell’ italiano rubacuori e il
suo cuore sereno e fiducioso era stato veramente rubato da un arrivista
cinico ed egoista che aveva visto in lei una ragazza abbiente con un padre
generoso la strada che lo avrebbero posto su di un piede dignitoso che da
solo non avrebbe mai saputo raggiungere,
Carpendo
anche la fiducia degli amici parigini, conosciuti da studente, quando
anche loro squattrinati, ma con mete da raggiungere, studiavano veramente,
mentre lui, col portafogli guarnito dai soldi di papà, si mostrava per
quello che non era.
Tutt‘altra
personalità aveva conosciuta Paulette presso Serge e Nicole.
Scoprire
le qualità negative del suo uomo, sarebbe stato un duro colpo per lei.
Quell’
uomo che ragionava come suo nonno, a distanza di due generazioni, amava
vedere sua moglie sempre china a lavare e lucidare la casa, preparare il
pranzo, rigovernare la cucina, lavare panni e accudire il figlio. Solo
questo e non altro !
Le
sorprese però non sarebbero mancate neppure a lui perché non avrebbe
trovata in sua moglie la passività a cui lo avevano abituato le donne
della sua casa.
Di
altra pasta era fatta la francese!
Bruno
aveva sbagliata la scelta e non se ne era avveduto, peggio per lui.
Paulette,
retta e volitiva, ma moderna più di quanto potesse essere una italiana
della sua età, non amava essere manovrata, esigeva il dialogo aperto e
sincero con spiegazioni plausibili e concrete per appianare le
controversie se ce ne fossero e sciogliere i malintesi.
Se
il marito avesse accettato questo motus vivendi, appena scoperto il modo
di ragionare della sua compagna, sarebbe stato possibile vivere sereni, ma
non fu tanto intelligente da capire subito il da farsi e mal gliene
incolse.
Fra
dissidi e incomprensioni la vita fra loro divenne impossibile.
Da
parte della moglie ci furono vari tentativi per cercare di rimediare
questo stato di cose che derivavano soprattutto dal pessimo carattere di
lui, facile all’ira e sospettoso e si era accorta che voleva sempre la
supremazia credendo che lei volesse soppiantarlo nel ruolo di capofamiglia
solo perché cercava di dare delle regole educative al bambino che lui
amava far crescere come una bestiolina.
Sempre
cupo in volto e pronto a scattare per una qualunque battuta spiritosa che
lei buttava là per vederlo sorridere, col risultato opposto, perché,
travisando ogni discorso, faceva sempre l’offeso.
Paulette
cominciava a seccarsi di essere trattata in malo modo, sempre più spesso,
specialmente quando, per rabbonire il piccolo Charles, le cantilenava
delle filastrocche francesi, si sentiva dire che era sciocca e perditempo.
Le
offese non le meritava proprio, aveva persino rinunziato all’aiuto di
una colf, per non gravare sul magro bilancio familiare e doveva pure
tenere nascosto questo fatto a suo padre che sarebbe stato pronto di
aiutarla, ma le era già riconoscente per la bella casa di cui godeva e
dei regali che spesso mandava a lei e al nipotino e poi, non desiderava
porre suo marito in posizione d’inferiorità facendogli sapere che il
suo lavoro consisteva in una rappresentanza di apparecchiature elettriche
che aveva un esiguo stipendio base e delle buone percentuali sulle
ordinazioni, che dipendevano però dall’impegno del piazzista.
Bruno
invece aveva una buona dose di pigrizia che lo teneva a letto fino a tarda
mattina, non era così che si sarebbe guadagnate le percentuali.
Era
più disposto a trattare coi clienti fuori Roma che piazzare la merce in
città ; dacché erano sposati, già tre ditte lo avevano licenziato per
scarso rendimento.
Toccava
quindi a lei trovare il modo di collaborare.
Non
era tipo da rimandare le cose la francese, perciò si mise all’opera nel
campo in cui era esperta: la pittura: disegnava e pitturava ventagli e
foulard, fu il marito stesso che l’accompagnò in alcuni negozi del
centro dove i suoi lavori furono apprezzati in modo lusinghiero, purtroppo
il pagamento lo fu meno.
Bisognava
accontentarsi, d’altra parte sarebbe stato un lavoro provvisorio giacché
la
cicogna
stava in viaggio per la seconda volta e non doveva stancarsi troppo.
Avendo
ripresi i pennelli per questi lavori, volle approfittare di un viaggio di
suo marito per fargli una sorpresa che credeva gradita.
Una
magnifica veduta di Roma, ripresa dall’alto del loro balcone.
Mai
avrebbe supposto che la vista di quel suo primo dipinto su tela
lo
avrebbe fatto tanto infuriare, scatenando una incresciosa reazione.
Dopo
avere insinuato che avrebbe fatto meglio a realizzare altri ventagli che
avrebbero fruttato qualche soldo, continuò dicendole che non si sarebbe
dovuta permettere quello spreco di colori.
Naturalmente
la moglie precisò che voleva dipingere anche per il proprio piacere,
Come
risposta egli prese alcuni pennelli e li spezzò; Paulette in quel gesto
lo sentì cattivo ed estraneo ed estraneo al suo mondo, ma non fu tanto il
suo gesto impulsivo che la ferì quanto il divieto categorico e immotivato
di dipingere ancora quadri.
Risalendo
ad altri suoi momenti di collera, dovette suo malgrado riconoscere che
quelle escandescenze che nascevano dai più futili motivi, avevano origini
patologiche che dovevano essere curate.
Comprese
che doveva avere i nervi saldi, per poterle tenere testa, altrimenti
sarebbe stata alla sua mercé e questo non doveva mai succedere.
Non
agì con puntiglio o per ripicca, ma come niente fosse accaduto, ricomprò
di nuovo i pennelli e continuò a dipingere per hobby nei ritagli di tempo
libero delle sue operose giornate.
La
monaca si era accorta che l’assistenza quotidiana all’ospedale dei
vecchi c he distava parecchio dalla sua abitazione, stava causando un vero
stress a sua sorella, che usciva di casa già affaticata.
Inoltre
Bice che era sempre stata iper protettiva verso i suoi figli, faceva uno
sforzo su se stessa a stargli lontana tante ore, se Bertilla tardava a
darle il cambio, la trovava in preda all’angoscia, paventando per loro
mille pericoli.
Preoccupata,
suor Bertilla non appena chiusero le scuole la dispensò della sua Prte di
collaborazione, facendo venire una consorella al suo posto durante la
notte e trascorrendo lei stessa tutta la giornata con la nonna che andava
sempre più aggravandosi.
Cominciò
così per la religiosa una vita completamente diversa senza più regolarità
per qualsiasi cosa : pasti affrettati, poco sonno e al servizio non solo
della nonna, ma di tutte le persone anziane ivi ricoverate che
approfittavano della sua disponibilità.
Usciva
dal Monastero prima dell’alba e vi tornava a notte fonda sfinita.
Il
suo fisico ne risentì fino a renderla facile preda dei molti morbi
circolanti nel vecchio ospedale geriatrico.
Si
contagiò infatti con una subdola e fastidiosa scabbia alle mani che
dovette fasciare rendendole più faticosi i lavori.
Per
evitare che il contagio si propagasse nella Casa religiosa, fu necessario
tenerla lontana fino a completa guarigione, restando confinata nello
stesso ospedale per tutto il periodo acuto della malattia poi per il
periodo di quarantena le fu concesso il permesso di dormire presso sua
sorella ove avrebbe occupata la stanza che era stata di Bruno e, prima
ancora, dei suoi genitori e dove in un vecchio canterano si conservavano
le cose di nonna Irene.
Con
profonda emozione la suora rientrò nella casa che l’aveva vista bambina
e che le riportò un’onda di ricordi, per lo più dolorosi.
Quante
reminiscenze tornarono a gonfiarle il cuore!
Specialmente
le fotografie conservate dalla nonna con tutti i ricordi di matrimoni,
battesimi, cresime e comunioni dei suoi numerosi figli e nipoti.
E
nell’ultimo cassetto del vecchio suo canterano i suoi manoscritti che
anche lei aveva aiutato a incollare e a foderare con la gfrossa carta
ormai scolorita.
Da
principio si limitò a guardarli Bertilla, non voleva toccarli con le sue
mani infette anche se oramai poteva dirsi guarita, ma bisognava far
passare quei 40 giorni d’isolamento prescritto.
Si
riprometteva di sfogliarli appena possibile.
Fu
Bice ad assistere la cognata quando nacque Corinne, batuffolo roseo e
vivace
che
prometteva bene anche se l’atmosfera della casa non era altrettanto
rosea.
Alla
zia bastò poco per capirne le motivazioni che, purtroppo, erano simili a
quelle
già
analizzate nella sua prima gioventù e che erano state portatrici di
sofferenze per tante
persone,
ma che non erano a conoscenza della puerpera.
Non
osava fargliene cenno, Bice, perché ancora non c’era fra loro molta
confidenza.
Si
stava ripetendo la situazione vissuta da sua madre nei confronti di Lilia
per la francesina che non meritava neppure lei gli sgarbi e le angherie
congeniali del marito.
Paulette
con le gravidanze diventava più bella, come ogni donna sana, e nel
periodo dell’allattamento si arrotondava un po’, ma Bruno non aveva
per lei nessuna tenerezza.
La
cognata, si avvide della freddezza del fratello e confrontò
immediatamente quel comportamento a quello del loro padre e del nonno,
uomini scostanti e indelicati, se ne dispiacque moltissimo perché alla
giovane mammina voleva veramente bene.
Sapeva
quanto bene si fosse adattata ad assumersi tutte le responsabilità
domestiche sottoponendosi perfino a fatiche a cui non era stata abituata,
sapeva pure che suo fratello non si dava molto da fare per aumentare il
loro reddito e questa era una cosa insopportabile per Bice che vedeva il
proprio marito sollecito in tutto verso moglie e figli e sempre pronto a
fare ore di “straordinario” in ufficio, nei periodi di maggiori spese.
Questo
stava permettendo ai figli di continuare gli studi perché potessero
avviarsi a professioni qualificate e più redditizie, ogni suo atto era
finalizzato al benessere del suo nucleo familiare ed era quello che fanno
migliaia di genitori.
Perché
nella loro famiglia esisteva solo egocentrismo maschile?
Bice
si angustiava per questi pensieri che da quando era nata l’assillavano,
Paulette,
non essendo al corrente degli antefatti, cominciò invece a credere di
essere lei stessa la responsabile del comportamento indifferente del
marito che neanche la nascita di Corinne era riuscita a smuovere.
Eppure
la compagine familiare stava molto a cuore alla francese e con il savoir
faire
delle
donne della sua razza sapeva istintivamente come attirare l’uomo, nulla
da fare con
quello
che gli viveva accanto come fosse assente, salvo poi a imbestialirsi
improvvisamente per delle inezie.
segue
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