ROMANZO
STORICO
in
tre parti
PRIMA
PARTE
(1)
Settembre
è come Marzo un mese strano e imprevedibile!
In alcune annate rimane caldissimo come un proseguimento di Agosto,
ardente, sereno e con limpide mattine e chiari tramonti, altre volte
invece, viene annunziato da scroscianti temporali, tempo variabile e notti
fredde.
Questa narrazione inizia appunto in un mese di Settembre nuvoloso, con
molteplici piogge torrenziali e venti turbinosi.
Persino
le frondose chiome degli alberi secolari del monte S. Martino ne erano
state sconvolte, arrecando molte spiacevoli conseguenze alla Badia di
Farfa, adagiata lungo le sue pendici.
Il paesino,
abbracciato dalla montagna, altissima e folta di alberi, si compone di due
file di case a schiera che conducono all’Abbazia attraverso il ricco
Portale di Anselmo da Perugia.
L’unica
strada che lo attraversa divide nettamente a metà questo borgo medioevale
per cui ne risulta una parte verso il monte verde e l’altra che digrada
sul limitare dello strapiombo, anch’esso vede e coltivato ad ulivi.
Per
giungere in questa località, che resta un po’ appartata dalle adiacenti
località Sabine, s’ha da percorrere la strada provinciale che si snoda
a spirale attorno ai fianchi di monti e colline lussureggianti salendo
continuamente verso l’ossigeno di alta quota.
Il bivio de’ Quattro Venti impone una sosta per deviare verso Farfa, ma
soprattutto per godere lo stupendo panorama che si offre alla vista fra il
silenzio solenne della eterna natura, rotto a tratti dal canto degli
uccelli.
Improvvisamente alto e affusolato si scorge il campanile che era già
apparso a tratti in lontananza, simile a tutti quelli delle costruzioni
benedettini.
Furono appunto i Monaci di tale ordine a fondare l’Abbazia del V secolo
e a ricostruirla nel 680 allorché dovettero sfuggire ai crudeli e fedeli
Saraceni e mettere in salvo le loro preziose reliquie, gli antichi testi
sacri e profani nonché pregevoli dipinti, restandone a tutt’oggi i soli
gelosi custodi.
Se è sufficiente mezz’ora per visitare tutto il borgo, non bastano ore
per rendersi conto delle suddette bellezze artistiche, contenute nel museo
che al pari della Basilica è meta continua per pellegrini attenti ed
entusiasti.
Ammirando la chiesa, ricostruita nel 400, si torna col pensiero agli
artefici che, come maghi, l’hanno resa preziosa: dall’affresco di
scuola umbra della lunetta del portale al soffitto ligneo a cassettoni,
dall’imponente Giudizio Universale del 1563 di maestro fiammingo alle
rappresentazione mistiche dell’Abside e del Coro. In ogni opera si
indovina un soffio di poesia che, unita alla fede, dona agli animi
sensazioni indimenticabile.
Per questo la piccola Badia è più come luogo di arte e di cultura che
non come meta di turismo domenicale.
L’8 Settembre 1885, era iniziato con un pallido sole che lasciava
incerti sull’evolversi della giornata meteorologica dopo le sfuriate di
pioggia dei giorni precedenti, ma il caldo era tornato a farsi sentire e
tutti speravano nel bel tempo.
Nonostante tutto, sarebbe stata comunque una giornata speciale!
Pur essendo domenica, la vera festa sarebbe stata l’indomani, giorno di
fiera annuale, molto considerata e attesa in tutta la Sabina, che avrebbe
concluso i festeggiamenti fatti per venerare il nome della più amata fra
le figure femminili del cattolicesimo: Maria.
La tradizione che si rinnova con 8 di Settembre sta a ricordare le origine
religiose di questo avvenimento allorché l’Abate stesso si recava su di
una mula bianca a darne l’annuncio fin nei paesi più lontani.
Col passare dei secoli questa usanza si è perduta e non occorrono sei
mesi come allora per raggiungere le roccaforti che erano preposte a
vigilare sull’incolumità dell’Abbazia fatta segno ad incursioni e
razzie, ma l’importanza di questo raduno mantiene sempre la sua validità.
Nei tempi attuali, paesi come Rocca Sinibalda, Castel San Pietro, Poggio
Mirteto Poggio Nativo, Montopoli, Torre Baccelli, Fara Sabina, Toffia,
Coltodino, Salisano ed altri ancora, tramandano usi, costumi, tradizioni e
leggende che risalgono a quei secoli di dominio religioso.
Anche se appaiono come i simboli di un mondo scomparso, proprio
conservando dialetto e principi, ogni luogo mantiene saldo quel filo di
continuità che lega le generazioni alle proprie origini e, col tempo,
qualcuno rimpiangerà sicuramente la vita semplice degli avi, contenti di
avere solo il necessario ed appagati di restare abbarbicati ai loro “sassi”.
Le distrazioni del loro quotidiano faticare le ricevevano nei giorni
stabiliti per le festività e la Fiera del bestiame, appunto, era
l’atteso giorno del riposo, se poteva dirsi riposo, l’ansia e
l’euforia di trascorrere delle ore diverse.
Nelle prime ore della notte, i bifolchi provvedevano ad accudire il
bestiame nelle stalle e le cose più necessarie nei poderi per restarsene
così liberi di godersi in pace gli straordinari festeggiamenti
predisposti dagli organizzatori: la lotteria con ricchi premi, l’albero
della cuccagna, le corse nei sacchi, spettacoli circensi e, per il rituale
sacro, la funzione solenne officiata da tre Vescovi e sottolineata dai
canti Gregoriani del Coro, scelto fra i migliori esecutori dell’Ordine.
In fine piccoli e grandi avrebbero preso parte alla processione che
trasportava la sacra immagine di Maria, ricoperta di ori votivi, in
prossimità delle abitazioni, fra le preghiere e gli applausi dei nativi e
dei numerosi pellegrini.
Fin dal sabato erano giunti i venditori coi loro carri stracolmi di
mercanzie che una volta allineate sui loro banchi avrebbero fatto una
cornice multicolore a quel quadro agreste di fede e di allegria.
Le dispute per accaparrarsi posti migliori avevano riempito l’area di
voci concitate nei dialetti di vari paesi giacché era usanza partecipare
in massa a quella Fiera perché gli affari erano assicurati per tutti dati
i prezzi concorrenziali dei vari mercanti, soprattutto nella compravendita
dei capi di bestiame.
Questo tipo di “mercanzia” era ammassato nei recinti predisposti ai
margini del bosco ancora intriso di acqua piovana, scrosciata a raffica
nei giorni scorsi; certo è che gli unici a non trovare di loro gradimento
la festa erano proprio gli animali che legati e stipati sui mezzi di
trasporto durante il viaggio di trasferimento davano segnali di malumore
nel vedersi privati della loro libertà.
Già nella serata i grossi lumi acetilene spargevano intorno il loro odore
caratteristico che innervosiva i bambini degli ambulanti, stanchi e
insonnoliti, ma ché il riposo notturno, avrebbe restituiti allegri e
schiamazzanti il giorno successivo.
L’aria frizzante del primo mattino vide una flotta di ragazzette
sciamare allegramente fra i banchi che si stavano allestendo.
Esse volevano essere le prime a curiosare fra scatole ceste e contenitori
vari che i mercanti stavano svuotando per mettere ogni cosa in bella
mostra affrettando il loro lavoro ben sapendo che le prime a giungere
sarebbero state le donne anche se era domenica e solitamente la loro
uscita era riservata alla messa.
Solamente la fiera aveva il potere di scuotere la monotonia della gente
del luogo che, abitudinaria per natura e per consuetudine, considerava
inutile desiderare ciò che non fosse di stretta necessità, ma la magia
di quel giorno rendeva protagonista non solo Farfa, ma ognuno dei suoi
abitanti.
Nell’animo delle giovanette e dei loro coetanei qualche desiderio
certamente covava, ma il passare degli anni, avrebbe rintuzzato quei
desideri per colpa degli adulti, che esercitando una persuasione occulta,
avrebbero poco a poco smorzato i loro entusiasmi facendo si che ogni novità
fosse guardata con sospetto.
Intanto però nella loro età spensierata, il gruppetto che aveva
raggiunto il mercato che ancora non aveva aperto le vendite si sbizzarriva
a guardare le belle cose che si offrivano ai loro occhi; curiosavano
soltanto poiché senza le loro madri non si azzardavano neppure a chiedere
i prezzi... pur desiderando tutto.
Per loro, come per la maggioranza delle donne di quella epoca, specie in
provincia, gli svaghi erano pressoché inesistenti e dopo una istruzione
limitata all’essenzialità di saper leggere e scrivere, la vita scorreva
noiosamente fra i lavori domestici e le chiacchiere paesane; ancor peggio
per quelle che erano costrette ad aiutare i congiunti nel lavoro faticoso
e poco gratificante dei campi.
Il ristretto ambito familiare non concedeva distrazioni che non
rigorosamente valutate e concesse dagli austeri parenti e dalla bigotta
indagine dei conterranei: balli campestri in occasione di trebbiature e
vendemmie,oppure, feste nuziali o funerali davano l’opportunità ai
giovani di trovarsi insieme sempre sotto il vigile occhio degli anziani e
nessuno si aspettava nulla di più perché quella era l’usanza.
Fra le ragazze curiose che stavano gironzolando prima di andare in chiesa
si trovava anche Irene, bruna quindicenne dagli occhi grandi e
intelligenti.
Costretta ad alzarsi anzitempo a causa del rumore insolito che per tutta
la notte le aveva impedito di dormire si era unita alle amiche.
Con il suo carattere pacifico si differenziava dalle altre e, rimanendo un
po’ in disparte guardava tutto con diligenza e compostezza; era attratta
specialmente dai banchi di tessuti.
Dinanzi al gazebo più grande e fornito, si soffermò a lungo dato che il
proprietario era assorbito nel lavoro ed era sicura che non badasse a lei.
Estasiata nell’ammirare tessuti e sete, taffettas e organdis, sobbalzò
nell’udire la voce del mercante: -“Buongiorno! ….Vedi quanta bella
roba ho portato? Non
hai che da scegliere... Quale articolo preferisci? Dato
che sei la mia prima cliente ti farò un bel po’ di sconto!”
Quelle semplici parole, per invitarla ad un acquisto, fecero avvampare le
gote di Irene che si ritrasse dalla mostra con vivacità.
Il giovanotto bruno che l’aveva interpellata rise di cuore per quella
voltafaccia e gli gridò dietro: - “Mica
sono qui per mangiarti?... Io sono venuto per vendere tutto, se mi sarà
possibile... Puoi pure ripensarci se credi, tanto le cose più belle le
devo ancora tirare fuori dai pacchi!”.
La ragazza
però le ultime parole neppure le ascoltò che si era sveltamente riunita
alle compagne che scherzavano gaiamente fra loro, mentre appuntavano
mentalmente le cose da chiedere alle rispettive genitrici, pur sapendo che
molte di quelle cose che avrebbero voluto comperare non le avrebbero mai
avute e, dopo quella mattutina spedizione, sarebbero andate a pregare
affinché il buon Dio ispirasse le madri perché esaudissero qualche loro
richiesta.
Chissà che le parsimoniose genitrici non si lasciassero convincere
dall’euforia di quella giornata?
Semmai la loro attesa si sarebbe protratta all’indomani, vero giorno di
mercato ove sarebbe stato possibile spendere meglio.
Così pensava anche Massimo Sarducci, il mercante di tessuti che aveva
interpellato Irene, egli pure sapeva che gli acquirenti si sarebbero
riversati in massa il giorno dopo.
Essendo molto pratico delle fiere provinciali per avervi accompagnato suo
padre fin da quando aveva pochi anni ne sapeva l’andamento e
particolarmente a Farfa ci aveva fatto sempre buoni affari.
Le donne del luogo le riconosceva sempre, però pensando a quella bella
ragazzina del mattino, non rammentava chi fosse.
Finì per non pensarci più non appena cominciò a reclamizzare la sua
merce che risaltava bene dal punto che si era scelto per piazzarvi il suo
chalet, grande e confortevole, sia per la vendita che per il proprio
pernottamento, con il vantaggio di non aver bisogno di allontanarsene mai,
una volta montato.
Era un vero negozio ambulante e Massimo ne era molto fiero e vi si trovava
a suo agio, molto più che nel piccolo negozio che aveva a Roma situato
nel centralissimo Corso Umberto.
L’andirivieni stava diventando sempre più caotico dato lo spazio
limitato del paese, ma la gente confortata dal tempo che si era
decisamente rimesso, sfoderando un sole caldo, sarebbe giunta sempre più
numerosa.
Il piccolo Borgo stava prendendo la parvenza di un teatro, addobbato di
festoni multicolori che incorniciavano le finestre e i portoncini ai due
lati della strada e con tante luminarie a base di lampioncini giapponesi
crescevano la suggestione per una scenografia da favola.
Al giungere della notte l’illusione fu perfetta col dondolio dei
lampioncini multicolori accese e con gli animi eccitati.
Alle prime ore del mattino Massimo fu tra i primi a discoprire la sua
bella parata di stoffe dalle pesanti tele incerate che l’avevano tenute
riparate egregiamente dall’aria notturna.
L’atletico giovane non risentiva affatto lo strapazzo di quei giorni
faticosi, pur non avendo ancora fatto incassi, se ne stava tranquillo ad
attendere i suoi sicuri clienti.
Del suo lavoro conosceva ogni furbizia.
Sapeva incantare ogni cliente (quasi sempre donne), con una tattica
diversa dando l’impressione ad ognuna che il tessuto scelto fosse stato
fabbricato esclusivamente per lei; capiva subito chi non disponeva di
grosse somme e chi invece si poteva permettere di acquistare ogni cosa
solo per capriccio e ad ogni cliente “uomo o donna”, sapeva dare la
sicurezza di aver concluso un buon affare.
Era
di sicuro un negoziante di razza!
Tanto
più che la sua forte convinzione era una economia ferrea, senza
concessioni ad alcunché di superfluo, accantonando soldo su soldo, gli
avrebbe consentito di possedere una vera fortuna.
Questo
glielo aveva inculcato nella mente suo padre che aveva fatto vivere moglie
e figlio in ristrettezze ed essendo morto prematuramente, lasciando loro
un piccolo gruzzolo, aveva permesso a sua madre d’intraprendere un
commercio di tela da corredo che per un po’ aveva dato loro d
i che vivere.
Ma
Massimo voleva raggiungere un traguardo più alto.
Per
questo aveva stabilito prezzi fissi su ogni articolo, ben sapendo che
quando una donna s’invaghisce di un tessuto, finisce per acquistarlo
malgrado il prezzo, inutile quindi lo sconto.
Il
commercio di mamma Sarducci, chiamata “La telarola”, rendeva bene
poiché ogni donna romana si faceva un punto d’onore di fornire le
proprie figlie di corredi consistenti che acquistavano a rate.
Le
clienti della “sora Giacomina, la telarola”, erano tutte povere madri
di famiglia che non avendo la possibilità di provvedere ai corredi delle
figlie col pagamento in contanti, erano soddisfatte di dare una piccola
somma settimanale fissa, scontando così poco a poco la totalità
dell’acquisto, nel frattempo le ragazze, fin da bambine, venivano
ricamando il loro corredo che alla fine si sarebbe presentato ben
confezionato e degno di nota.
Se
poi il guadagno di chi vendeva loro quella stoffa veniva maggiorato
perché il saldo si prolungava nel tempo, era cosa scontata.
Per
alcuni anni Massimo aveva affiancato il commercio di sua madre continuando
la sua vita da zingaro fino al momento che unendo i loro risparmi non
furono in grado d’impiantare un vero negozio nella via più importante
di Roma.
Da
un anno Massimo aveva perduto sua madre e la necessità di avere una donna
che accudisse alle sue necessità cominciava a farsi sentire: i suoi
ventisei anni reclamavano un moglie.
Pur
sembrando logico che ad un certo punto egli avrebbe preso moglie, nessuno
era a parte dei suoi pensieri in merito e neppure che possedesse un tale
carattere da sottovalutare il sentimento e mettere in primo piano il suo
tornaconto personale.
Sfortunatamente
per colei che avesse accettato di sposarlo, egli avrebbe trattata questa
eventualità alla stregua di un affare.
In
questo senso il giovanotto non aveva mai corteggiata nessuna donna,
scartando a priori ogni “partito” che sua madre, ogni tanto gli
proponeva.
Aveva
una bella presenza, ma il suo piglio autoritario e beffardo denotava il
suo disprezzo per il sesso femminile, forse per la tema di venire circuito
da qualche civetta, ambiziosa di accasarsi.
Questo
era quanto sua madre gli aveva sempre raccomandato: di non farsi
soggiogare dall’amore e probabilmente ella, così agendo ne aveva
falsato la mentalità, facendogli nel contempo subire la sua
circonvenzione.
Dal
momento che era rimasta vedova “la telarola” aveva messo nella testa
del figlio delle false idee sulle donne, nel timore che lui potesse
allontanarsi per sempre da lei.
I
racconti dell’arida donna avevano sortito l’effetto desiderato e il
figlio non vi aveva mai intravisto il veleno che ella metteva nel dire che
le donne hanno il solo scopo di far indossare le gonne... ai propri
consorti e Massimo di questo era giunto ad averne terrore.
Aveva
giurato a se stesso che questo a lui non sarebbe mai capitato! Per questo
considerava capricci quei desideri che le donne esaudivano nella sua
bottega anche se per lui erano fonte di lauti guadagni; stoffe merletti e
nastri erano pur sempre fronzoli
La
donna egli la vedeva come una sottospecie, protesa unicamente ad abbellire
la propria persona per accalappiare gli uomini sciocchi e soggiogarli alla
propria vanità,
Per
questa sua morale si riprometteva di trovare una compagna poco esigente e
dissimile dalla maggioranza.
Al
pensiero che una donna non potesse esistere, non esitava a dirsi che
avrebbe pensato egli stesso a trasformarla: semplice ed economa.
Ci
avrebbe scommesso che così sarebbe stata sua moglie!
La signora Renata Sottini giunse spedita al banco di Massimo, a breve
distanza la seguiva sua figlia Irene, nella quale il venditore riconobbe
la fanciulla che le sue parola avevano messo in fuga nella prima mattina
del giorno precedente.
Comprese
immediatamente il perché egli non avesse capito di chi fosse figlia.
Erano tre anni che non si ripresentava alla fiera e nel
frattempo la ragazza aveva preso sembianze di donna, la mamma invece era
da tempo sua buona cliente.
“Sono lieto di rivederla signora Renata, la salutò con
deferenza.
Vede le novità che ho portato?
Ieri
mattina volevo mostrarle a questa bella signorina, ma lei è addirittura
scappata ! - signor Massimo la scusi, mia figlia è timida e non è
abituata a fare compere da sola, però mi ha già detto quello che le
piacerebbe acquistare.
Irene era in quella stagione della vita in cui le giovanette
subiscono un radicale trasformazione, lasciando l’infanzia per divenire
donne a loro insaputa, ma offrendo a chi l’ammira una visione angelica e
armoniosa che avvince ed incanta.
Così la figlia dell’Amministratore, pur se le lunghe trecce
castane restavano ancora a testimoniare la recente infanzia insieme a
l’innocenza dei suoi occhi trasparenti, era una ragazzina ingenua e
carina che colpì l’occhio dell’astuto venditore che non si fece
sfuggire l’occasione per lanciarle dei velati complimenti: - “Mi
chiedevo ieri chi fosse questa bellissima signorina e non mi perdono di
non aver capito subito chi fosse la figlia della signora Renata!
Lei ha comperato da me tante di quelle pezze di lino per il
corredo di sua figlia... eppure io non l’avevo mai veduta.
Complimenti, veramente!... E’ la più bella fanciulla che ho
visto in vita mia, glielo posso giurare! Suppongo che sarà altrettanto
brava come la mamma!...
Irene avvampò nel sentire tutti quei complimenti e
nell’essere posta al centro del discorso da quell’estraneo che la
stava guardando in un certo strano modo... come per soppesarla.
Quel modo di fare la metteva a disagio, facendole provare la
sgradevole sensazione di essere valutata come una delle mule che proprio
in Fiera suo padre mostrava agli acquirenti per conto del proprietario
della tenuta di Farfa.
Possibile che sua madre non ne fosse dispiaciuta anch’essa?
Invece la buona signora sembrò compiacersi dell’enfatico
primo apprezzamento da “signorina” indirizzato a sua figlia,
considerata ancora da tutti una bambina, per questo si sentì in dovere di
ringraziare.
Signor Massimo lei è molto gentile, ma questa qua è ancora
una bambina che ha bisogno della mamma, anche se la sua altezza inganna!
Il giovanotto sorrise senza replicare, ma stava giungendo ad
altre conclusioni: conoscendo l’ottima reputazione della signora Sottini,
prevedeva che anche la figliola avesse le sue stesse virtù.
Irene, mentre la madre parlava, riprese a cercare tra le
stoffe per trovare un tessuto adatto alla confezione di un abito speciale
che avrebbe dovuto indossare alle nozze di una cugina e confrontava ogni
qualità con un giornale di moda che aveva seco e si mostrava molto sicura
di ciò che voleva.
Il mercante aveva già compreso che ella non era disposta a
cedere alle argomentazioni di sua madre che avrebbe invece desiderato un
modello semplice da potere utilizzare anche in altre occasioni. Invece la
ragazza, sia pure con dolcezza, continuava a sostenere le sue ragioni
dicendo che per il tipo di cerimonia necessitava un modello importante e
un tessuto adatto.
Terminò col dire: “Se dovrò essere la damigella d’onore
ho il dovere di non far sfigurare la sposa”.
Il ragionamento non faceva una piega ed anche Massimo si
schierò dalla sua parte concludendo che, visto che Irene sapeva quel che
voleva, gli abiti da bambina non le si addicevano più.
L’indecisione della signora Renata aveva protratto
l’acquisto di quel tanto che serviva a Massimo per approfondire le sue
indagini poiché, con domande apparentemente banali, egli appurò molte
cose che desiderava sapere.
La madre si mostrava sorpresa nel constatare che sua figlia
fosse diventata ambiziosa giacché si era sempre accontentata di ciò che
cucivano insieme dato che la sua giovane età anch’ella sapeva fare di
tutto: dal ricamare il corredo a tenere in ordine la casa, dal cucinare al
curare le piante. Anzi, per queste ultime aveva una vera passione come
quella di sua madre e sua nonna che erano delle vere erboriste.
Per questo invito a nozze si era impuntata.
La madre capì che bisognava accontentarla largheggiando in
metraggio e in qualità, per questo benedetto abito che le stava così a
cuore, considerando che se lo sarebbe cucito da sola.
D’altra parte era la prima festa importante alla quale
partecipava!
Massimo, pur non tralasciando di consigliare, misurare e
calcolare i prezzi, anche per gli altri articoli per la casa, che la
signora andava acquistando, non smise di soppesare e valutare i dati
positivi di quella bella figurina, sia dal lato fisico che da quello
morale, restandone più che soddisfatto.
In via eccezionale praticò persino un ulteriore sconto sulla
somma totale cosicché anche le due clienti ne rimasero soddisfatte e
sulla strada del ritorno, madre e figlia cariche di pacchi si mostravano
felici e contenti.
La giovane specialmente aveva un’emozione in più e il suo
cuore ingenuo batteva un po’ più velocemente, forse perché era
riuscita ad ottenere l’abito desiderato oppure perché lo sguardo
penetrante di due occhi scuri l’avevo tenuta sotto tiro per tutto il
tempo?
I pensieri le si accavallavano nella mente...
Gioiosa per le spese fatte, ma vergognosa per tante bugie che
il venditore aveva detto a sua madre nei suoi riguardi, si sentiva
smarrita al punto da non ascoltare neppure le parole della stessa che le
stava suggerendo di affrettarsi a bagnare la stoffa per poterla poi
tagliare e cucire al più presto.
Non voleva ammetterlo, ma sarebbe stata più contenta se tutte
le parole di quel bel giovanotto fossero state veramente sincere e non
dettate dal suo tornaconto per vendere meglio la sua merce.
Le era grata, però, per averla aiutata a convincere sua
madre.
Durante la giornata ebbe modo più volte di passare davanti al
gazebo, ma sempre il suo...paladino era attorniato da donne di ogni età,
alle quali, ne era certa, dispensava complimenti mentre misurava stoffe di
ogni genere, confezionava pacchi e riscuoteva denaro.
Riconosceva che effettivamente era abile nel suo mestiere
giacché tutti preferivano fare la coda al suo banco piuttosto che
comperare negli altri stand di stoffe che erano lungo la via.
Ma
non era stanco quel tizio?
Doveva
convenire che per i venditori, la Fiera, doveva essere un vero
stress...altro che divertimento!
Se
non le fosse stata suggerita dall’interesse per quel giovane,
probabilmente questa considerazione non l’avrebbe mai sfiorata, ma ora
guardava con altri occhi i protagonisti della giornata, compreso suo padre
che non aveva avuto tempo neppure di salire in casa per uno spuntino.
Per
questo anche lei era stata più libera di uscire ogni tanto per curiosare
fra i vari spettacoli allestiti all’aperto qua e là, soffermandosi
soltanto pochi minuti per tornare a casa e raccontare alla madre le novità
più salienti.
Era
semplice e ingenua Irene, non era abituata ad indugiare fra estranei e si
trovava a suo agio solo nell’intimità della sua casa, anche quando suo
padre riceveva qualche persona per affari, era sempre la mamma che serviva
il caffè o qualche liquore.
Le
sue giornate erano sempre piene di tutti i suoi interessi: i libri, le
piante, il ricamo e non desiderava nulla di più.
Si,
veramente Irene era una figlia felice.
Casa Sottini era una costruzione di solidi mattoni, ristrutturata quando i
genitori di Irene si erano sposati, non era grandissima, ma dotata di
molte comodità e si presentava subito con un tono gaio e riposante.
Sorgeva proprio a metà della lunga via che divideva il
Santuario, dal monte, cosicché dalla porta retrostante, si poteva
accedere direttamente nel bosco, questo la rendeva freschissima durante la
calura estiva.
Sulla strada invece, si apriva il portone che immetteva nella
vasta cucina ove nella parete di fondo, troneggiava il camino con accanto
la porta finestra dalla quale si usciva nel piccolo spiazzo coltivato a
orto e giardino, difeso dal bosco da una breve muraglia con la porta,
appunto, che veniva aperta soltanto quando si desiderava inoltrarsi tra
gli alberi secolari.
Questo passaggio era molto usato dalle donne di casa, seguaci
dell’arte di preparare decotti e tisane con le benefiche piante che
crescevano nel bosco e che esse riconoscevano a prima vista.
Nel loro orticello ve ne erano state piantate di ogni tipo e,
da un po’ di tempo. Irene le aveva prese a curare personalmente insieme
ai fiori del minuscolo giardino; questo compito la entusiasmava tanto, da
volere diventare una esperta.
Dalla parete destra della cucina, una breve scala di marmo
conduceva al piano superiore ove si aprivano le due stanze da letto,
l’ufficio paterno e, in fondo al corridoio, il gabinetto.
La cucina, che fungeva anche da tinello, aveva un tono
abbastanza ricercato poiché la ringhiera della scala coi suoi ghirigori
in ferro battuto e le tende vaporose agli usci e alle finestre la
rendevano signorile.
La cura assidua della padrona ne aveva fatto una dimora molto
accogliente che persino la proprietaria della tenuta, contessa Vittoria,
vi si recava spesso disdegnando il suo ricco castello adiacente alla
basilica.
La nobildonna aveva poi una vera predilezione per la figlia
del suo amministratore, perché apprezzava la compostezza del suo
portamento e più ancora la voce aggraziata.
Lo sguardo serio e pensoso e il carattere riservato di quella
ragazzina l’aveva indotta ad insegnarle un po’ di musica e canto,
accompagnandola col suo pianoforte nel salone del castello per interi
pomeriggi.
Nella sua giovane età Irene aveva già appreso tanti
insegnamenti che sarebbe stato difficile prevederlo per una fanciulla nata
in quell’angolo di mondo appartato e misconosciuto, però grazie ai
genitori e alla sua protettrice, ella si era formata con buone basi in
tutti i campi.
Malgrado il tempo che aveva dedicato a corsi regolari di
studi, aveva imparato a sbrigare tutti i lavori domestici, come si
conveniva ad ogni ragazza del suo tempo destinata alla carriera del
…matrimonio ed in più aveva assorbito il buon senso materno, unito al
suo ingegno, le dava la capacità di risolvere molti problemi, anzi
trovandosi di fronte a un ostacolo, amava mettersi alla prova sfoderando
il suo carattere volitivo.
Quello era tempo di tabù e malgrado la confidenza che poteva
esistere nelle famiglie, c’era sempre qualche argomento delicato, che
con l’intenzione, si tralasciava di trattare; si bloccavano così
spiegazioni e delucidazioni che lasciavano i giovani insoddisfatti.
Specialmente se si trattava di sesso o della ricerca della propria
personalità, la donna maggiormente, era considerata incapace di
comprendere dei chiarimenti franchi e aperti.
Molto spesso, le delucidazioni, giungevano con ritardo per
rimediare situazioni imbarazzanti, se non addirittura tragiche.
I genitori si arrogavano il diritto di scegliere gli sposi per
i propri figli, intenzionati, a fin di bene, a provvederli di una
sistemazione che a loro parere, garantisse il pane quotidiano alla futura
famiglia.
Rincorrendo però il “buon partito” non tenevano in debito
conto l’importanza dei sentimenti e il coronamento dei veri sogni
d’amore. Per lo più erano le femmine ad essere coinvolte in questi
“mercati”, in buona fede, per cui, la prima richiesta di matrimonio di
un qualsiasi estraneo che avesse la possibilità di mantenerle, veniva
accolta favorevolmente.
In questo modo le ragazze si sarebbero assicurate soltanto una
vita di doveri gravosi, asservite alla volontà dei mariti, come a suo
tempo avevano fatto madri e nonne.
Uscendo dalla casa paterna, in quanto a diritti, avrebbero
avuto solamente il cambio di cognome nello stato civile.
Per quanto riguardava affetto e comprensione, nella famiglia
dell’amministratore, non mancavano, ma nella mente di Renata, le
aspirazioni per la loro figlia erano simili a quelle di tutte le madri: al
momento giusto...solamente un buon partito per sua figlia.
Anche se era prematuro preoccuparsene, col suo senso pratico,
non vedeva di buon occhio l’animo sognatore della sua bambina.
Irene infatti era una sognatrice!
Si era sempre appassionata ai libri di avventure e di viaggi
che suo padre le regalava e non si stancava mai di chiedere, dopo ogni
lettura, al proprio genitore, come fosse il mondo al di fuori della loro
piccola Badia
Papà Guglielmo era lieto di rispondere alle tante curiosità
di sua figlia con dovizia di particolari e con divertenti aneddoti
giacché egli era un uomo di vasta cultura, profonda umanità e buon
parlatore.
Renata
invece, modesta e semplice, si preoccupava per l’interessamento che la
ragazzina provava per quei mondi diversi, paventando che ciò
l’allontanasse dal loro quieto focolare e dalle loro modeste abitudini.
Certo era, che Irene fantasticava anche sui voli di farfalle
che suggevano il nettare dei fiori, così pure sulle descrizioni di città
lontane...si vedeva volare sui cirri rosati del cielo e di lassù scrutare
oltre il suo orizzonte.
Non aveva nulla da rimproverare ai suoi cari e poteva dire di
non essere oppressa, ma come tutte le sue coetanee sognava altre cose,
covando la segreta speranza di vedere altre genti ed altri orizzonti.
Era attirata in special modo dal fascino della capitale a soli
sessanta chilometri di distanza e non era poi cosa impossibile che un
giorno potesse viverci.
Come tutte le provinciali Irene credeva che nelle grandi
città le donne avessero il privilegio di maggiori concessioni che la sua
inesperienza non era ancora in grado di chiarire; ella non sapeva che il
modo di vivere era dettato dai principi più o meno rigidi del capo
famiglia e che quelli non erano tempi in cui sia alla donna di paese o di
città si concedevano molte soddisfazioni.
C’erano però i sentimenti che compensavano molte
manchevolezze e alcune donne potevano ritenersi felici anche in una
famiglia modesta, ma che avesse dato il rispetto e l’importanza che si
convenivano ai suoi ruoli di moglie e madre, facendola sentire veramente
la “Regina della casa”.
La figlia giovanetta, non era mai stata a Roma, ma la
conosceva così profondamente da amarne sia la storia che l’attualità,
era stato proprio suo padre, romano di origine, ad erudirla così bene,
sia a viva voce che provvedendola di libri storici, coi quali aveva
soddisfatto tutte le sue curiosità, sperando un giorno di poter visitare
insieme a lui, tutti i monumenti che già conosceva nei minimi
particolari, di quella favolosa sua città nativa che alla ragazza
sembrava tanto lontana.
Egli della sua città conosceva perfettamente la gloriosa
storia, passata e contemporanea, ma da quando si era trasferito in Sabina,
vi si recava solo saltuariamente per ragioni di affari.
Negli anni passati lo faceva con frequenza dovendo occuparsi
dei i suoi tre fratelli minori, colà residenti, essendo egli il
primogenito, ma dacché si erano formati le loro famiglie, non era più
necessaria la sua assidua presenza ed era più facile che fossero loro a
venire in visita in Sabina.
In quell’epoca, la figlia, era troppo piccola per seguire il
padre e quindi Roma era rimasta, per Irene, un miraggio,
Fin da bambina se ne stava lungo tempo nell’ufficio di suo
padre dinanzi ad una grande vetrina ove egli aveva disposto in
bell’ordine molte preziosità antiche e originali che illustravano le
bellezze di Roma: mini-sculture dei principali monumenti, in avorio, in
argento, stemmi gentilizi del patriziato romano, monete antiche e gessi di
grandi artisti; fra cui spiccavano i calchi di una importante “Via
Crucis” eseguita e donata. al Papa della sua epoca. dal grande scultore
che era stato il suo stesso nonno paterno.
Da quel Pontefice, l’artista, si ebbe in dono per questa sua
grande opera, una antichissima Bibbia con settanta incisioni originali ed
una collana d’oro con crocifisso tempestato di brillanti, queste ultime
cose sicuramente di gran valore reale oltre che affettivo.
In una fotografia, ormai sbiadita, Irene ritrovava le
sembianze di quel trisavolo accanto alla moglie in abito di gala, quella
foto era stata pubblicata dai giornali dell’epoca in occasione
dell’udienza papale e per la pronipote fantasiosa, era sempre motivo di
grande suggestione rimirarla.
Immaginava la bella ava, che era stata anche una acclamata
cantante lirica, baciare la mano santa che si offriva, in profonda
umiltà.
Ne sentiva quasi l’emozione, perché anch’essa era pervasa
di fede cristiana al punto che qualche anno prima, nel prepararsi alla
Prima Comunione, aveva accarezzato l’idea di farsi suora, estasiata
dalle funzioni religiose e dall’atmosfera mistica della sua bella
chiesa.
I Misteri della fede l’avevano affascinata per tutto il
periodo del catechismo al punto di sentire in se la vocazione dei santi;
mai educanda si era preparata al rito con tanto zelo, conservando
l’abitudine di recarsi al Tempio più di una volta al giorno.
Del resto lei abitava proprio di fronte alla chiesa, bastava
che oltrepassasse il Portale romanico, per ritrovarsi sul sacrato e la
contemplazione dei dipinti maestosi compiuti da mani prodigiose la
soggiogava; presumibilmente in quei momenti di abbandono nella solitudine
del luogo benedetto, si rinnovavano nel suo animo gli istinti atavici del
nonno paterno che aveva eseguito tanti capolavori di stile religioso che
ancora ornavano alcune chiese di Roma.
Per questo amava gironzolare fra le navate quando non c’era
nessuno e, alle preghiere, univa le sue osservazioni, col capo rovesciato
s’incantava a guardare il grande Giudizio Universale, affrescato sulla
volta, meditando che in vista di tale giudizio divino, ciascuno avrebbe
dovuto ben spendere la vita.
Avrebbe desiderato che anche il suo passaggio terreno non
fosse vano poiché si stava convincendo che uno dei fini per cui si nasce
sia proprio quello di ricercare in se stessi l’utilità dell’essere,
anche se tutto ciò che si vorrebbe non si riuscirà mai a compierlo, pure
il tentativo di realizzare qualcosa di degno, ognuno lo dovrebbe tentare,
piuttosto che rimanere una nullità.
Allorché giungeva sul retro dell’Altare maggiore, la sua
emozione aumentava giacché si trovava al centro di una scena solenne:
torno torno al Coro con al centro il Tabernacolo dell’Abside, spiccava
una processione di personaggi biblici affrescati in grandezza naturale che
gli erano diventati familiari come vecchi amici e dai quali si sentiva
protetta,.
Dopo le visite, doverose e soddisfacenti alla chiesa, ella si
recava in un altro luogo, preferito e amato: l’Agrumeto.
Era questa un’oasi di pace e di profumi alla quale sia
accedeva per una piccola porta a lato delle scuderie, nella piazzetta
rotonda con al centro l’antichissima fontana a due vasche sovrapposte
che serviva per abbeverare i cavalli.
Parlare dell’Agrumeto era un riassumere tutto il mondo
agreste poiché varcatone l’ingresso era come trovarsi in molte terre
diverse; vi erano coltivati infatti gli agrumi di ogni specie, facilitati
dal mite clima sabino e dall’esposizione, studiata e predisposta,
delimitata da un alto recinto in muratura che riparava le piante dai venti
nella stagione brulla similmente a una serra.
Attirate dai profumi inebrianti dei cedri del Libano, aranci,
mandarini di Sicilia, bergamotti di Calabria, limoni di Amalfi, ecc., le
farfalle variopinte vi svolazzavano a sciami e, Irene, fin da piccina ne
aveva gioito.
L’Agrumeto e le scuderie erano l’orgoglio dei proprietari
che oltre alle vigne, gli uliveti e le varie mezzadrie, ne ricavavano
anche un cospicuo utile economico.
Non a tutti era dato entrare nell’Agrumeto, ma alla famiglia
dell’amministratore era comunque permesso l’accesso in ogni sito, e
specialmente nei periodi che i Signori erano in viaggio, i Sottini
detenevano le chiavi del Castello per una sorta di sorveglianza.
Era quello il momento che Irene, perlustrando i saloni
solitari giungeva al “Solarium” che era una veranda a vetri di forma
esagonale che permetteva di spaziare lo sguardo circolarmente su ogni
punto dell’orizzonte e, per un certo speciale accorgimento
architettonico, vi si poteva ricevere in pieno la carezza del sole
dall’alba al tramonto.
L’ambiente era situato in cima a una torretta e oltre che
dall’ultimo piano del castello, vi si poteva accedere anche dallo stesso
Agrumeto, per una interminabile scala a chiocciola lunghissima .
Percorrendola, la ragazza, aveva l’impressione di salire
verso il Paradiso!
La
Contessa Vittoria invitava spesso Irene lassù a tenerle compagnia nella
bella stagione e proprio in quelle ore beate, sopra i grande dondolo in
paglia di Vienna o nelle varie poltroncine dello stesso stile, fra tappeti
e cuscini orientali, l’aristocratica donna, parlava alla giovane amica
della sua gioventù trascorsa fra gli agi della casa paterna e dei suoi
viaggi.
Irene
allargava la sua cultura, leggendo libri alla sua anziana amica o
ascoltando i suoi racconti che e erano vere e proprie lezioni.
Eppure,
quel Castello lussuoso ed elegante era spesso snobbato dalla proprietaria
che preferiva il minuscolo giardinetto di casa Sottini dicendo: “Il sole
mi è più gradito fra tutti questi vostri fiori e con voi due care amiche
accanto! “
A
Renata e a sua figlia la nobildonna aveva concesso la sua amicizia e
trovava mille pretesti per dimostraglielo.
segue
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