ROMANZOSTORICO
in
tre parti
PRIMA
PARTE
(5)
L’
articolo si concludeva invocando l’arresto dei responsabili di quella
inutile strage.
Irene
ne fu commossa fino alle lacrime e papà Guglielmo dovette faticare non
poco per asciugare gli occhi di quella sua troppo sensibile figlia.
Ed
ora ella aveva altri rondinini, tutti suoi che crescevano a vista
d’occhio!
Il
più grande già portava i calzoni lunghi. Proprio da quando aveva messo i
calzoni lunghi, Andrea si era andato trasformando.
Da
piccino aveva risentito dei divieti e delle restrizioni che vigevano in
famiglia, ma crescendo istintivamente stava ricalcando lo stesso fare
spavaldo e prepotente del padre.
Gli
piaceva comandare e ci era provato con la sorella, ma non era stato
fortunato perché si era trovato a competere con un carattere volitivo e
deciso, molto diverso da quello che si aspettava.
Coi
compagni di scuola riusciva spesso a mettere a segno cattiverie e dispetti
al solo scopo di prevaricarli.
Marinava
sistematicamente la scuola e quando veniva scoperto si giustificava col
dire che essendo il maggiore dei figli doveva aiutare la madre per le
compere e il padre per la consegna dei pacchi a domicilio dei clienti.
Alcune
volte questo corrispondeva, ma non sempre.
Il
padre che se lo ritrovava spesso fra i piedi pure se non disposto a
concedergli molta confidenza, finì per l’apprezzare quel figliolo che
sembrava essere più interessato a rendersi utile che “ a perdere tempo
su libri e quaderni” preciso a lui stesso, quand’era ragazzo.
Quel
bricconcello,astutamente, sapeva mettersi in risalto ai suoi occhi
raccontandogli le sue prodezze scolastiche fatte di marachelle e di
canzonature a danno dei compagni che cominciavano ad essere intimoriti dal
suo fare prepotente.
Sapeva,
come suo padre, apprezzasse più la forza dei muscoli e la capacità di
riuscire a mettere nel sacco il prossimo e faceva in modo d’infiorare i
suoi racconti con particolari inventati al fine di strappargli qualche
consenso.
Seguitando
a mantenere quella distanza che aveva sempre imposto ai figli, esigendo il
voi, Massimo, abituato allo stesso modo, si metteva al riparo della troppa
familiarità la quale avrebbe scosso la sua autorità.
Sua
moglie non l’aveva accettata questa distanza per se stessa, quando
voleva imporla anche a lei, ma su questo unico punto almeno era riuscita a
spuntarla perché la considerava una usanza residuata dai tempi feudali
quando i figli erano trattati alla stregua degli altri dipendenti del
feudo, senza agevolazioni e trattamenti affettuosi.
A
Roma vigeva ancora, ma Irene capiva che coi figli bisogna darsi del tu,
per dare e ricevere amore e il modo più immediato e tenero è farlo a
tu…per tu.
Ella
oltre che madre intendeva essere amica dei figli!
D’altra
parte col carattere che si ritrovava Massimo neppure il cambio della
particella pronominale l’avrebbe portato alla tenerezza.
Negli
ultimi tempi però si stava accorgendo che verso Andrea stava diventando
più disponibile, possibile che non si accorgesse di quanto quel ragazzo
fosse negligente a scuola e disordinato a casa?
Stava
sempre in lite con Aurora dalla quale pretendeva di essere servito e da
scuola giungevano continuamente note di biasimo.
Non
si avviava certo su di una buona strada e la povera madre prevedeva che
gli avrebbe dato molto da fare perché era egoista ed egocentrico tale e
quale a suo padre.
Ne
ebbe conferma allorché venne espulso dalla scuola come indesiderato, per
la madre e per i nonni fu un grosso dispiacere, mentre il padre misurò il
fatto col suo solito metro: “Meglio un figlio somaro, ma pronto a
lavorare”.
Così
al ragazzo furono affidati due incarichi: la spesa quotidiana al mattino e
la spazzatura della bottega e le consegne a domicilio durante il
pomeriggio.
Nessuno
fu più contento dell’interessato giacché per tutte e due le mansioni
riusciva a farsi restare in tasca qualche spicciolo, imbrogliando un po’
i conti che pure il padre non tralasciava di ribattere.
Non
era stato mai possibile farla al sor Massimo eppure quella birba riusciva
a farci scappare qualche piccola delizia che consumava di nascosto durante
i suoi percorsi, caramelle, castagnaccio, le pere cotte profumate e
bollenti vendute lungo le strade ricoperte di zucchero.
Semplici
cose che il ragazzo non si faceva più mancare dopo averle desiderate per
tanto tempo.
Possibile
che il padre non si accorgesse di nulla ?
Irene
aveva il dubbio che Andrea facesse la “cresta “anche sulle mance
dovute per il servizio a domicilio alle sartorie.
Eppure
quello sbarazzino stava diventandone il beniamino !
Mamma
Irene, tacitamente, si accorgeva di tutto e per non creare invidie non ne
aveva mai fatto cenno con gli altri figli e compativa pure la golosità
del più grande quello che non sopportava però erano le lodi sperticate
che il marito dispensava a quel ragazzo, portandolo come esempio agli
altri due.
Ella
quando capitava l’occasione di essere solo a sola con Andrea era pronta
a propinargli delle belle ramanzine perché capisse che la madre non era
così stupida da non indovinare le sue “dritterie”, ma tanto non
riusciva a farlo desistere dal suo modo di fare tantopiù che era entrato
nelle grazie paterne.
Aurora
e Alfio avevano un’altra indole, andavano d’accordo e si volevano
veramente bene.
Anche loro avevano capito l’armeggiare di Andrea e si erano accorti che
sgranocchiava sempre qualcosa di dolce, ma pur commentandolo fra loro, non
ne avevano fatto cenno sapendo che non le avrebbe fatto piacere.
Così,
chi non sapeva indovinava e nessuno parlava per quieto vivere.
Ma
quell’uomo sembrava essere nato già vecchio e il sorriso non
rischiarava mai il suo volto sempre teso e non mostrava mai i segni di
emozioni.
Analfabeta
per non aver mai frequentato le scuole, era riuscito però sempre a far
quadrare il bilancio del suo piccolo commercio. avendo come base il numero
sette e aiutandosi con le dita e col ragionamento, questo metodo antico
gli era stato insegnato dai suoi genitori.
Questo
suo infallibile modo di far di conto, gli era valsa la considerazione di
tutti i bottegai che lo conoscevano perché sapevano bene che non si
sarebbe mai fatto imbrogliare da nessuno.
Lui,
personalmente, era orgoglioso di se stesso e di dove era arrivato e
neanche si accorgeva di quanti lati negativi avesse, tanto da considerarsi
l’uomo perfetto.
Malgrado
si ritenesse tanto furbo, non presentiva affatto che i suoi sistemi da
despota gli avrebbero alienato l’affetto dei familiari ai quali non dava
l’ opportunità d’instaurare un dialogo aperto e costruttivo.
Sempre
attaccato con fanatismo alla sua attività, da quando i negozi a Roma si
andavano moltiplicando, si sentiva insidiato e, specialmente la
concorrenza gli dava fastidio perché stava minando quel prestigio
commerciale che molta faticosa caparbietà si era conquistato e che lo
faceva primeggiare nel suo campo.
A
malincuore aveva preso nota della diversa struttura delle botteghe che si
mostravano scintillanti di luci e di slogan invitanti, con le ampie
vetrine spesso rinnovate e molto curate, queste osservazioni lo rendevano
di malumore e quando al mattino apriva il suo modesto” regno “ era già
corrucciato.
Si
rendeva conto che avrebbe dovuto rinnovare quella vecchia bottega, ma non
voleva cedere alla tentazione che, seppure utile, gli avrebbe fatto
rinnegare il concetto che fin dall’inizio aveva rispettato, pensando che
una volta avviata, l’attività, dovesse procedere sugli stessi binari
senza grandi spese di manutenzione.
Le
cose invece stavano cambiando e la persuasione occulta della pubblicità e
della eleganza cominciava a far presa sulla gente che voleva il nuovo e il
bello.
Il
settore commerciale in special modo stava subendo una evoluzione evidente
in ogni città e paese, figurarsi poi nella capitale e più precisamente
nel suo centro storico che attirava stranieri di ogni luogo e di ogni
ceto; per questo era necessario che prendesse qualche decisione in merito
se non voleva veder disertare i suoi numerosissimi clienti.
L’assillante
problema lo stava rendendo ancora più cupo e, imponendosi di non
dimostrarlo in pubblico, quando era fra le pareti domestiche, lo sfogava
in malo modo.
Dopo
aver consumato il frugale pasto meridiano in silenzio, ognuno si eclissava
tornando alle solite personali occupazioni: i ragazzi a fare i compiti
scolastici e la loro madre a rassettare la cucina.
Irene,
coscientemente, partecipava ai nuovi eventi, ma si asteneva da commenti e
consigli, ben sapendo che il marito rimuginava l’idea di affittare il
negozio per riprendere il commercio ambulante.
Avrebbe
collaborato volentieri, se lui glielo avesse concesso, perché stava
notando che la precisione degli orari per l’apertura e chiusura del
negozio cominciavano a far difetto e persino il rifornimento di tessuti,
che era sempre stato tempestivo col cambiare delle stagioni, sembrava non
avere più importanza, proprio nel momento in cui la concorrenza andava
combattuta col maggiore incremento e costante presenza.
Ella
trovò modo di far sentire il suo parere in modo indiretto, parlandone col
figlio più grande e fingendo di affrontare la questione del commercio in
generale, ben attenta però che quella conversazione fosse captata in modo
chiaro dalla mente ottusa del capofamiglia.
La conferma che i suoi consigli indiretti erano giunti a segno, la ebbe
allorché Massimo riprese l’abitudine di aprire bottega un’ora prima
sia al mattino che al pomeriggio, cosa questa che aveva sempre agevolato i
sarti che potevano rifornirsi prima della clientela spicciola che, sempre
indecisa negli acquisti da fare, faceva perdere del tempo prezioso.
La
venalità dell’uomo aveva vinto, non avrebbe mai acconsentito a perdere
i suoi guadagni a causa della sua indolenza.
L’accumulo
del denaro, per lui, equivaleva ad un piacere fisico e il godimento
intenso che provava nel contare le ”sue” banconote era indescrivibile.
Si
concedeva anche molto tempo per farlo, la sera da solo, con la serranda
semichiusa, al riparo da ogni sguardo: contava i fogli uno ad uno
lisciandolo, come una carezza, spianandone ogni eventuale spiegazzatura,
ammazzettandoli per valore nel giusto verso, con la manualità precisa di
un cassiere di banca.
Riserbava
al denaro quell’amore che non sapeva donare agli altri.
Che
il suo guadagno fosse cospicuo era opinione generale, che fosse avaro lo
dimostrava, che non si fidasse delle banche lo diceva esplicitamente, ma
dove tenesse conservata quella amata proprietà era un mistero per tutti.
A
casa, di sicuro non l’aveva mai portata.
Sua
moglie era convinta che il ripostiglio segreto si trovasse nello stesso
negozio e si era sempre ritenuta offesa per la malfidatezza e la poca
fiducia dimostratale.
Ne
conosceva il perché da sempre, anche se non lo aveva mai accettato!
Traspariva
chiaramente ogni volta che il discorso cadeva sulle donne giacché egli
attribuiva loro i peggiori difetti, soprattutto quello di essere
spendaccione e capaci solo di sperperare i soldi guadagnati dai mariti,
secondo lui ogni donna doveva essere capace di accrescere le rendite
familiari, limitando le spese al massimo.
Quanto
sarebbe stata orgogliosa, Irene, di potergli dimostrare la sua oculatezza
nell’ amministrazione domestica!
Solo
che si fosse fidato delle capacità della sua donna,,, avrebbe avuto la
possibilità di vivere meglio, senza tutti quei mugugni per ogni spesa
imprevista e, a volte, anche per quelle spese di routine che
nell’andamento di una famiglia sempre ci sono.
La
sua donna non aveva mai avuto denaro in casa, “Tanto- diceva lui – a
che serve che io lasci in casa dei soldi, se penso a tutto io !? Non ti
rendi conto di quanto sei fortunata a non doverti scervellare per la
spesa.
Però
lui, non voleva capire di quanto lei si dovesse arrabbattare per nutrire
convenientemente la famiglia con gl’ingredienti sempre limitati di cui
disponeva e che, se non fosse stato per il costante rifornimento che le
veniva dai suoi, di sicuro i loro figli avrebbero patito la fame.
Nell’ultima
visita, nonno Guglielmo aveva recato una luttuosa notizia che aveva
profondamente rattristata sua figlia: la morte della contessa Vittoria, la
cara sua benefattrice, avvenuta nella casa romana nei pressi di Piazza
Cola di Rienzo e quindi a poca distanza da lei poiché bastava traversare
il ponte di Ripetta per poterla raggiungere.
Lo
sconforto che prese Irene fu profondo, si rimproverava di non aver mai
potuto ottemperare il di lei desiderio che avrebbe gradita qualche sua
visita per poter conoscere anche gli altri due bambini.
Ricordò
con tenerezza che, alla nascita di Andrea, fu l’anziana signora a salire
le sue infinite scale per venirlo a conoscere, accompagnata da mamma
Renata che per l’occasione si era data da fare per organizzare un bel
pranzetto alla nobildonna che aveva recato in dono al neonato una bella
catenina d’oro.
In
quella occasione, come in altre, Irene si sentì mortificare da sua madre
perché non si dimostrava buona padrona di casa non tenendo pronti
dolcetti e bottiglie di liquore da offrire ad eventuali ospiti. Non era
così che era stata abituata,
La
giovane donna non ebbe coraggio di spiegarle tutto lo squallore del suo
menage, come dirle che la mentalità di suo marito era così asociale da
non permetterle nessuna amicizia e neppure rapporti di vicinato… altro
che visite!!!
Le
avrebbe dato un dispiacere inutile, tanto la sua esistenza era ormai
segnata da un matrimonio sbagliato e nessuno avrebbe potuto far nulla per
cambiare quello stato di cose; come dirle che quando, al momento delle
nozze, ella si stava rallegrando coi parenti, dicendo che sua figlia
avrebbe avuto l’opportunità di conoscere gente e fare vita di società,
stava completamente fuori strada?
Con
questa speranza aveva accettata meglio la lontananza da quell’unica
figlia che, in quel momento neppure sapeva quello che l’aspettava
nell’inserirsi nella città che tanto amava.
Queste,
le ragioni, che impedivano alla sua sfortunata figliola, di rivelarle come
stavano veramente le cose e tutta l’amarezza che le riempiva l’anima.
La
morte della contessa, aveva recata ad Irene una tristezza in più e,
ricordando l’affetto che le aveva legate, sentì più cocente il rimorso
di non averla potuta rivedere e ancora di più non averle dato la
soddisfazione di presentarle il ricettario di erboristeria terminato.
Irene
veramente dubitava di poterlo condurre a termine giacché non trovava più
il tempo per dedicarcisi.
Le
dispiaceva pure pensare che ella l’avesse considerata ingrata, ma era
sicura che non fosse mai stata sfiorata dal pensiero che la sua protetta
conducesse una vita da reclusa, isolata da amici e parenti.
Neppure
con le parentele del marito aveva mai avuto contatti, giacché egli aveva
da anni rotto i rapporti con tutti loro:
Vero
era che al momento che la “ Telarola “ era rimasta vedova non trovò
aiuto da nessuno e dovette arrangiarsi come meglio poté per risalire la
china in cui si era trovata dopo la malattia del marito; ce la fece con
l’aiuto del figlio, ancora minorenne e orgogliosamente, tolse il saluto
a tutti odiando il mondo intero.
Il
figlio che ne aveva seguito l’esempio si maturò con lo stesso astio per
l’umanità e continuava ad inculcare nei suoi ragazzi l’avversione per
il prossimo.
Quanto
male poteva germinare dai suoi discorsi distruttivi lo intuiva soltanto
Irene che, con la sua profonda sensibilità, cercava di bilanciare gli
esempi di lui con altri
Pieni
di morale e di solidarietà, rimanendo sempre nel timore che nei suoi
figli si potessero radicare cinismo ed egoismo.
Pregava
il cielo che così non fosse! Non sarebbe stato più positivo per
quell’uomo egoista vivere più fiducioso e con l’animo più disteso ?
Possibile che non lo capiva?
Anche
se veniva da un’infanzia travagliata perché non dare ai propri figli ciò
che lui non aveva avuto? Non sarebbe stato più soddisfatto e appagato
godere delle loro piccole gioie invece che vederli imbronciati per i suoi
continui rifiuti? Irene ne soffriva, ma non era mai riuscito a convincerlo
di questo; era un osso duro Massimo che, anche dopo lunghi ragionamenti,
rimaneva fisso nelle sue convinzioni. La poveretta aveva l’animo sempre
attanagliato da questi pensieri angosciosi e aggiornandosi nella lettura
dei quotidiani che suo padre si premurava di portarle, era al corrente dei
movimenti femminili che cominciavano a stravolgere i pregiudizi e i tabù
che avevano precluso loro, da sempre, i diritti per una esistenza civile.
Nell’ambito della famiglia e del lavoro la donna era stata sempre
considerata una nullità e soltanto i doveri le erano riconosciuti. Dai
resoconti dei congressi e dei comizi che si andavano tenendo, specialmente
all’estero Irene, apprendeva che nonostante le loro battaglie coraggiose
le donne venivano considerate suffragette scalmanate e ancor più
oltraggiate perché i tempi non erano ancora maturi per rimuovere le ben
radicate consuetudini maschiliste.
La
soluzione dei problemi femminili erano ancora molto lontane!
Secondo
Irene, esse pur coraggiose e combattive,non avevano ancora trovato la
maniera giusta per imporre le loro sacrosante ragioni. Gli uomini si
schieravano compatti contro i loro proclami, paventando che le iniziative
di poche, potessero inculcare nelle “loro” donne idee di ribellione
Altri
mezzi ed altri appoggi ci volevano per riuscire a rimuovere le posizioni
di supremazia maschile che gli uomini si ostinavano a definire diritti.
Ma
quali diritti? Se non erano mai stati decisi e scritti come leggi?
La
verità stava nel fatto che l’uomo aveva paura dell’avvento femminile
che poteva spodestarlo di molte sue belle prerogative!
Il
drammaturgo Ibsen, aveva suscitato enorme scalpore con la sua commedia:
“ Casa di bambola ”ove la protagonista Nora era presa a simbolo da
ogni donna che ambiva portare avanti problemi nuovi, mai posti in
discussione. Le vedute dei maschi erano in contrasto perché vedevano
barcollare le loro posizioni di predominio sulle donne che era un
privilegio da non concedere per non dare il via a quell’emancipazione
che già li disturbava con la sola richiesta fatta dalle femministe che la
sbandieravano come diritto, noncuranti della derisione e della umiliazione
a cui venivano fatte segno con l’accusa di fomentare la ribellione di
pacifiche mogli e figlie.
L’enunciazione
per la quale…” la vita di una donna non deve forzatamente restringersi
entro le sole pareti domestiche, accontentandosi dei ruoli subalterni che
per secoli le sono stati attribuiti dalle consuetudini” era ritenuta
scandalosa dalla maggioranza retrograda e, nel contempo, i benpensanti
invocavano leggi che avessero tenuto conto dei tempi che si stavano
diversificando in vari campi.
Molte
erano le intelligenze femminili che bramavano applicarsi in professioni
accaparrate da soli uomini. Urgevano modifiche e revisioni dei diritti
nella famiglia e nel lavoro sia femminile che minorili per far cessare
abusi e sfruttamenti; s’invocava il divorzio per rimediare situazioni
familiari impossibili e inumane ove la convivenza forzata, conduceva a
veri drammi, diventando anche un cattivo esempio per i figli.
Soprattutto
si esigeva l’abrogazione di una legge mai sancita che consentiva al
capofamiglia diritto di vita e di morte su mogli e figli: quel comando di
padre-padrone non doveva più sussistere perché inumano.
Eppure
fra tanto marasma, c’era l’amara constatazione, che da parte di tante
vittime di questo antiquato tribale sistema di vita, non c’era
compattezza ed entusiasmo per forzare queste revisioni a motivo della
paura delle ritorsioni alle quali potevano andare incontro e, purtroppo
queste idee erano inculcate proprio di generazione in generazione dalle
stesse donne – vittime, inconsciamente votate all’obbedienza verso il
sesso forte. La
guerra è più adatta agli uomini e la maggioranza delle donne non si
sentiva pronta a guerreggiare con loro.
Alla
fine delle sue letture, Irene accumulava nel suo pensiero i pro e i contro
e sospirando aspettava gli eventi.
I tumulti politici aizzati a Milano, culminarono col tragico attentato di
Monza che stroncò la vita al Re Umberto I il cui funerale che si svolse
nella capitale radunò i personaggi più importanti del secolo: teste
coronate ed esponenti politici, seguirono l’imponente corteo funebre
mentre il popolo tutto volle esserci per non perderne nessun particolare.
Quel 10 luglio 1900 fu sicuramente un giorno infuocatissimo
dal sole e dalle passioni e le migliaia di persone accalcate fin sopra i
monumenti più alti seguirono la cerimonia dal Quirinale al Pantheon con
infinita curiosità, ma anche con la soddisfazione di poter poi
raccontare: “ C’ero anch’io!”.
Il nuovo regnante, Vittorio Emanuele III, di piccola statura e
insicuro delle sue mansioni così impegnative, fu subito ricoperto di
critiche, dai romani soprattutto che col loro spirito arguto lo
chiamarono: Pippetto.
Come succedeva al tempo dei Papi, si ritrovarono epigrammi
ironici e irriverenti sulla statua di Pasquino che scatenavano ancora di
più l’ilarità e i commenti salaci del popolo e proprio in questo clima
si caratterizzò l’avvento del nuovo secolo che avrebbe portato dei
cambiamenti radicali in molte esistenze,
Malgrado le questioni politiche che rendevano insoddisfatti i
sudditi italiani che si sentivano impotenti, covando altresì,
risentimenti ed odi, le stagioni continuavano ad alternarsi secondo
natura, regalando alle genti parentesi di allegria dovute alle feste
tradizionali che immancabilmente trovava consenzienti popolo e nobiltà
giacché nel divertimento si scaricano gl’incubi e si cercano di
dimenticare i disagi correnti.
La differenza si riscontra solo nel modo di prendere il
divertimento, oggi come ieri, ma per i miseri restano sempre poche queste
parentesi che riescono a strapparli dalla quotidianità.
Di tradizioni da festeggiare a Roma ce ne erano parecchie ed alcune hanno
resistito al tempo e molte che sanno di leggenda era doveroso rispettarle
con puntigliosa precisione sia per l’intera città o per singolo Rione
che non accettava l’intromissione di Rioni antagonisti. Naturalmente
le gare e le rivalità generavano gazzarre e putiferi che a volte
degeneravano in risse cruente dando luogo ad ulteriori spettacoli per gli
spettatori.
Le date più ricordate e più solenni erano attese e preparate
e, annualmente, i medesimi riti e festeggiamenti richiedevano
addestramenti lunghi e minuziosi per non offrire il destro alle critiche
dei rivali.
Quelle che la storia riporta con dovizia di particolari sono
spesso le più cruente e drammatiche come la Corsa dei cavalli berberi
lungo il Corso Umberto che scatenava un orda di animali selvaggi aizzati
in precedenza e che metteva a repentaglio la vita di chi vi assisteva e,
sempre c’era poi la conta delle persone calpestate.
Tali e quali erano le finte battaglie dei Prati di Castello
con numerosi morti e feriti.
A maggio i vari Rioni, ognuno con un colore, andavano in
processione a Castel di Leva a pochi chilometri dal centro di Roma per
raggiungere il Santuario della Madonna del Divino Amore per ricordare il
miracolo colà avvenuto riguardante un pellegrino salvato in extremis dai
morsi di un nugolo di cani-lupo affamati.
Queste processioni davano modo alle matrone romane di
sfoggiare abiti sgargianti ed equipaggi di carrozze e cavalli ornati di
ricche gualdrappe e fiori di carta variopinti.
La finale di questi festeggiamenti erano abbuffate luculliane
e abbondanti libagioni come quelle della festa per S. Giovanni nella notte
delle Streghe dove fra schiamazzi, suoni di campanacci e stornellate a
dispetto erano di rigore le scorpacciate dei lumache.
Da ricordare ancora la festa de Noantri che per
l’ultima settimana di maggio teneva in festa Trastevere e che si apriva
e chiudeva con le due solenni processioni che prelevavano e riportavano la
statua sacra della Madonna benedicente chiudeva con la solenne processione
che trasportava la statua sacra della Madonna benedicente dalla Chiesa di
San Crisogono a quella di Santa Chiara e viceversa.
Le sassaiole dei rivali monticiani che cercavano in tal modo
di spegnere le fiammelle dei “moccoletti“della processione omonima,
sempre in Trastevere,era un altro avvenimento capace di elettrizzare i
romani che, al di fuori del raccoglimento dovuto alla funzione sacra,
avevano la possibilità di assistere alle zuffe fra partecipanti e “
disturbatori” che, accantonando la devozione, diventavano dei fuori
programma scontati.
L’estate romana si protrae fino a metà novembre ed invoglia
a scampagnate allegre, in quell’epoca specialmente, molte comitive si
davano convegno ai Prati di Testaccio, recando seco le vivande precotte
che avrebbero gustato in comunità sull’erba, innaffiate da generose
bevute col vino frizzante di Frascati, mantenuto fresco nelle botti e
“quartaroli “ entro le cantine del Monte dei Cocci.
Queste “ottobrate” davano luogo a veri e propri spettacoli
improvvisati che rendevano euforico il popolo, bisognoso di scaricarsi e
diventare protagonista nel momento adatto per dimostrare le eventuali doti
artistiche che aveva in serbo.
Si alternavano quindi, alle abbuffate, gare canore di
stornelli scanzonati e di “saltarello” al ritmo di “tamburelle”
adornate di nastri dai colori sgargianti come gli abiti delle donne e nei
giri di “tacchi e punte” frenetici, s’ incendiavano i cuori
esuberanti dei “bulli” e delle “minenti” e che davano anche luogo
a scontri al coltello per le gelosie che scatenavano.
Molto hanno contribuito al colore folcloristico i “ Ludus
Carnevalarii“ che si svolgevano a Roma in Agone e sul Monte Testaccio
detto pure Monte del Palio fin dal 1300, ai quali erano tenuti a
partecipare le Corporazioni artigiane di tutti i Rioni con i propri
stendardi e costumi, unitamente al clero e alla nobiltà.
Per Agone, la comunità giudea era quella obbligata a dare il
maggior contributo in denaro affinché tutto si svolgesse con sfarzo e
ricchezza, così pure tutti i territori dipendenti dalla Capitale dovevano
far pervenire le loro “pecunia” comprese le grandi famiglie artigiane
che preparavano per mesi gli atleti partecipanti facendo a gara per la
ricchezza degli equipaggi e dei costumi indossati.
La grande Parata di Testaccio si chiudeva con la corsa
sfrenata, lungo il pendio del Monte, di carrozze, rivestite di panno rosso
con attaccate due giumente e due maiali per ciascuna inseguite da tori e
altri animali silvestri che finiva con un rotolamento generale. Pur sempre una festa cruenta, ma fortunatamente le feste dei Santi
Patroni si continuano a festeggiare con un sentimento più devoto e
mistico e le preghiere innalzate dai fedeli sono inspirate alla speranza
di essere assistiti per il meglio dal loro Santo per la durata della loro
vita terrena ed oltre.
Intorno al 1900 però, non sembrava essere Roma una città
molto festaiola, poiché la maggior parte delle famiglie erano numerose ed
avevano scarse risorse economiche.
L’uso di trascorrere le serate estive fuori dei portoni di
casa o facendo circolo nelle piazzette più prossime era inveterato e ben
accetto dalla maggioranza che riteneva essere questa la loro
villeggiatura.
Se ne raccontavano di storie in quei circoli! Storie vere e
leggende!
L’uditorio veniva affascinato, in specie se erano gli
anziani a raccontare le loro infanzie misere e faticate e le loro
emigrazioni forzate che smorzavano le velleità dei più giovani e che in
cuor loro, si auguravano un avvenire migliore e più soddisfacente; nel
frattempo i fanciulli si scalmanavano nel rincorrersi o nel giocare a
rimpiattino.
Le madri, pur tenendoli d’occhio, erano ben contente di
starsene in riposo e, finalmente, accanto ai loro uomini che nelle sere
invernali, erano lasciate in casa a badare ai figli mentre gli uomini
concludevano la giornata di lavoro, al caldo dell’osteria fra una
partita a carte e un bicchiere di vino.
Le serate estive permettevano invece al vicinato di riunirsi e
di socializzare.
In
quelle comitive semplici e bonarie,mentre girava il fiasco del vino o
dell’acqua acetosa, si coniavano motti arguti e battute spiritose che
ben presto facevano il giro della città senza approfondire chi ne fosse
il vero autore, diventando quei proverbi pieni di saggezza e di esperienza
di dominio nazionale conosciuti da tutti.
Così pure stornelli e canti anonimi che fanno parte del
folclore e del repertorio classico non si sa come siano nati, ma
l’origine sta sempre nelle vene poetiche di ignoti Menestrelli
senza ambizioni di gloria.
Sono state proprio le succitate “usanze burine“ di Roma
che hanno conferito a questa città l’impronta bonaria,contadina e
artigiana, che attira e mette a proprio agio che viene a visitarla, giacché
tutta la sua gente sa sorridere con genuina spontaneità mentre
sdrammatizza con ironia gli eventi più seri e, soprattutto, sa
dimostrarsi veramente amica. La
Storia ha anche annotato biografie di personaggi romani singolari ed unici
che hanno aggiunto altro colore locale a questa città “pacioccona”
che, a somiglianza dei gatti, da cui è popolata, si porta dietro
l’appellativo di pigra che dai suoi Bulli e Paini ha assunto la parvenza
di fanfarona.
Le madri benpensanti però hanno sempre fatto una distinzione
fra questi due tipi, temuti entrambi perché, azzimati e dongiovanni i
primi, sempre a caccia di…prede femminili, facevano contrasto coi
secondi, impulsivi e focosi, sempre pronti a risse e duelli rusticani.
Alle loro figlie auguravano un marito meno eccentrico e più
amante del lavoro e della famiglia e rimproveravano le ragazze che
seguivano con sguardi desiderosi i ricchi equipaggi delle persone
facoltose che si recavano al Costanzi nelle serate di gala sfoggiando
abbigliamenti sontuosi, perché non volevano che esse inseguissero sogni
ambiziosi e irraggiungibili.
Il
primo settembre 1909 i romani furono testimoni di una eclisse di sole che
per venti minuti oscurò la terra.
Irene fu molto impressionata dal fenomeno che vedeva per la
prima volta e si rivolse alla sapienza di suo padre per una spiegazione
dettagliata; ne fu soddisfatta giacché egli poté fornirle dei dettagli
particolareggiati su quella giornata particolare.
Ella venne così a sapere che per meglio studiare le fasi del
fenomeno celeste in modo più ravvicinato era stata predisposta la
spedizione di un aerostato con a bordo due scienziati, ma a causa del
forte vento, levatosi d’ìmprovviso l’equipaggio prese la decisione di
ridiscendere senza portare a termine il compito che si era prefisso.
Malauguratamente la rapidità di questa manovra fece deviare
la rotta e il vento trasportò il grosso pallone a suo piacere, facendolo
precipitare proprio a Farfa e fu nella casa dell’amministratore che
furono ospitati e confortati i due sfortunati scienziati.
Sempre gentile e premuroso il suo buon papà, malgrado l’età
che avanzava, continuava sempre a fare le visite periodiche al quale era
abituato e ogni volta, nella casa di sua figlia era come una benedizione
per lei e per i nipoti che lo attendevano con ansia e ne ricevevano tanti
doni¸ egli infatti sapeva indovinare i loro desideri,
Oltre i regali per i bambini, i nonni non facevano mai mancare
i buoni prodotti della loro terra, ma intenzionalmente, Massimo faceva in
modo di non incontrarsi mai con suo suocero, per non doverlo ringraziare
per quelle provviste che gradiva molto, lo si vedeva da come le mangiava.
Mai però avesse pensato di offrire anche lui,ai suoceri,
qualcosa in cambio!
Da buon profittatore, considerava un diritto avere tutto
quello che da Farfa arrivava e Irene continuava a soffrire per la grande
taccagneria che egli dimostrava in ogni occasione e non poteva esimersi di
confrontarla con la generosità che molta gente di condizione inferiore,
dimostrava verso mogli e figli.
Aveva modo di vedere spesso il comportamento affettuoso di
alcuni uomini del vicinato che avevano la consuetudine di cenare insieme
alla famiglia nell’osteria sottostante che nella bella stagione metteva
i suoi tavoli lungo la via affinché i suoi avventori mentre mangiavano le
vivande portate da casa, godessero del piacevole ponentino.
Nelle serate in cui Massimo tardava a rientrare, Irene, dopo
aver messo a letto i figli, si attardava sulla loggia al buio e al riparo
delle piante li osservava e le loro affettuose premure la sbalordivano.
Rimboccavano il piatto a moglie e figli per tema che non
mangiassero a sufficienza, ordinavano vino e acqua gazzosa e spesso
qualche dolcetto per rallegrare il pasto già molto appetitoso e
profumato.
Riconosceva i famosi piatti romani dagli odori che giungevano
fino a lei: dai carciofi alla giudia dorati nell’olio, a quelli alla
romana, con aglio e mentuccia, dai pomodori ripieni di riso con basilico,
aglio e origano, alla coda alla vaccinara, cucinata con tanto sedano e
pomodoro, dai succosi rigatoni con pagliata al padellotto romano composto
di carni del quinto quarto cioè dalle frattaglie che, unite alla cipolla,
sono una squisitezza anche se chiamato “piatto povero”; nonché i
rituali e gioiosi piatti di fritto di ogni specie;
Gli effluvi che uscivano dai contenitori che da casa venivano
trasportati all’osteria lasciavano una scia così evidente, talvolta
anche sulle scale per qualche po’ di unto che ne traboccava, che
lasciava indovinare a tutti, ciò che si cucinava in ogni casa ed erano
cibi che si prestavano al trasporto e perché acquistavano più gusto
nell’essere lasciati riposare.
Irene non era molto attratta dal sistema di cucinare a casa
per poi andare a mangiare in pubblico, considerava miglior cosa cenare
entro le pareti domestiche e poi dopo uscire per una passeggiata, magari
con la meta di un caffè o di un gelato perché aveva notato che spesse
volte la promiscuità di quel mangiare gomito a gomito conduceva a
scambiarsi gli “assaggi” col risultato di una …”caciara”
generale, si limitava ad osservare e un’altra cosa che l’aveva colpita
era il grande luccichio degli “ori” che sfoggiavano le
donne,ostentandoli con orgoglio e, più modeste, erano le loro condizioni,
più se ne ricoprivano.
Pensando alle “sue” cose preziose, la povera donna non
poteva dire di averne ricevute da suo marito che rifuggiva da questi…
sprechi, come lui diceva e per le poche cose di valore che possedeva
doveva ringraziare solo i genitori e potevano essere contenute nel palmo
di una mano.
Non che tenesse ad averne, ma ancora una volta c’era in
questo la dimostrazione di quanto l’animo di suo marito fosse privo di
slanci generosi.
Cosa serve avere qualche disponibilità economica se la
grettezza dell’animo non permette di fare qualche dono alle persone
amate?
Più tempo passava più Irene si convinceva che nella sua casa
non ci fossero persone amate da quell’uomo cinico ed egoista.
Irene si sentiva ormai svuotata e senza desideri.
L’unico orgoglio che persisteva in lei era quello di
riuscire a provvedere da sola al guardaroba suo e dei ragazzi e,dopo anni
dalle nozze, riusciva ancora a pescare dal suo ricco corredo, qualcosa da
trasformare facendola apparire come nuova, disdegnando le stoffe che suo
marito vendeva :
I giovanissimi Sarducci che presenziavano a quei tanti
miracoli compiuti dalla loro madre, le erano riconoscenti perché
riuscivano sempre a fare la loro figura:
Massimo che aveva fra i suoi clienti i sarti più sofisticati
di Roma, annotava nell’intimo la bravura della moglie, giungendo persino
a imporle di confezionare anche il suo vestiario, ma non desisteva dalle
sue posizioni e se, talvolta, portava qualche scampolo a casa, c’era da
scommettere che doveva trattarsi di qualcosa di scolorito per essere stato
a lungo esposto nelle vetrine.
segue
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