I tiranni - le vittime - i ribelli

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ROMANZOSTORICO
in tre parti

PRIMA PARTE
(5) 

 

 

L’ articolo si concludeva invocando l’arresto dei responsabili di quella inutile strage.

Irene ne fu commossa fino alle lacrime e papà Guglielmo dovette faticare non poco per asciugare gli occhi di quella sua troppo sensibile figlia.

Ed ora ella aveva altri rondinini, tutti suoi che crescevano a vista d’occhio!

Il più grande già portava i calzoni lunghi. Proprio da quando aveva messo i calzoni lunghi, Andrea si era andato trasformando.

Da piccino aveva risentito dei divieti e delle restrizioni che vigevano in famiglia, ma crescendo istintivamente stava ricalcando lo stesso fare spavaldo e prepotente del padre.

Gli piaceva comandare e ci era provato con la sorella, ma non era stato fortunato perché si era trovato a competere con un carattere volitivo e deciso, molto diverso da quello che si aspettava.

Coi compagni di scuola riusciva spesso a mettere a segno cattiverie e dispetti al solo scopo di prevaricarli.

Marinava sistematicamente la scuola e quando veniva scoperto si giustificava col dire che essendo il maggiore dei figli doveva aiutare la madre per le compere e il padre per la consegna dei pacchi a domicilio dei clienti.

Alcune volte questo corrispondeva, ma non sempre.

Il padre che se lo ritrovava spesso fra i piedi pure se non disposto a concedergli molta confidenza, finì per l’apprezzare quel figliolo che sembrava essere più interessato a rendersi utile che “ a perdere tempo su libri e quaderni” preciso a lui stesso, quand’era ragazzo.

Quel bricconcello,astutamente, sapeva mettersi in risalto ai suoi occhi raccontandogli le sue prodezze scolastiche fatte di marachelle e di canzonature a danno dei compagni che cominciavano ad essere intimoriti dal suo fare prepotente.

Sapeva, come suo padre, apprezzasse più la forza dei muscoli e la capacità di riuscire a mettere nel sacco il prossimo e faceva in modo d’infiorare i suoi racconti con particolari inventati al fine di strappargli qualche consenso.

Seguitando a mantenere quella distanza che aveva sempre imposto ai figli, esigendo il voi, Massimo, abituato allo stesso modo, si metteva al riparo della troppa familiarità la quale avrebbe scosso la sua autorità.

Sua moglie non l’aveva accettata questa distanza per se stessa, quando voleva imporla anche a lei, ma su questo unico punto almeno era riuscita a spuntarla perché la considerava una usanza residuata dai tempi feudali quando i figli erano trattati alla stregua degli altri dipendenti del feudo, senza agevolazioni e trattamenti affettuosi.

A Roma vigeva ancora, ma Irene capiva che coi figli bisogna darsi del tu, per dare e ricevere amore e il modo più immediato e tenero è farlo a tu…per tu.

Ella oltre che madre intendeva essere amica dei figli!

D’altra parte col carattere che si ritrovava Massimo neppure il cambio della particella pronominale l’avrebbe portato alla tenerezza.

Negli ultimi tempi però si stava accorgendo che verso Andrea stava diventando più disponibile, possibile che non si accorgesse di quanto quel ragazzo fosse negligente a scuola e disordinato a casa?

Stava sempre in lite con Aurora dalla quale pretendeva di essere servito e da scuola giungevano continuamente note di biasimo.

Non si avviava certo su di una buona strada e la povera madre prevedeva che gli avrebbe dato molto da fare perché era egoista ed egocentrico tale e quale a suo padre.

Ne ebbe conferma allorché venne espulso dalla scuola come indesiderato, per la madre e per i nonni fu un grosso dispiacere, mentre il padre misurò il fatto col suo solito metro: “Meglio un figlio somaro, ma pronto a lavorare”.

Così al ragazzo furono affidati due incarichi: la spesa quotidiana al mattino e la spazzatura della bottega e le consegne a domicilio durante il pomeriggio.

Nessuno fu più contento dell’interessato giacché per tutte e due le mansioni riusciva a farsi restare in tasca qualche spicciolo, imbrogliando un po’ i conti che pure il padre non tralasciava di ribattere.

Non era stato mai possibile farla al sor Massimo eppure quella birba riusciva a farci scappare qualche piccola delizia che consumava di nascosto durante i suoi percorsi, caramelle, castagnaccio, le pere cotte profumate e bollenti vendute lungo le strade ricoperte di zucchero.

Semplici cose che il ragazzo non si faceva più mancare dopo averle desiderate per tanto tempo.

Possibile che il padre non si accorgesse di nulla ?

Irene aveva il dubbio che Andrea facesse la “cresta “anche sulle mance dovute per il servizio a domicilio alle sartorie.

Eppure quello sbarazzino stava diventandone il beniamino !

Mamma Irene, tacitamente, si accorgeva di tutto e per non creare invidie non ne aveva mai fatto cenno con gli altri figli e compativa pure la golosità del più grande quello che non sopportava però erano le lodi sperticate che il marito dispensava a quel ragazzo, portandolo come esempio agli altri due.

Ella quando capitava l’occasione di essere solo a sola con Andrea era pronta a propinargli delle belle ramanzine perché capisse che la madre non era così stupida da non indovinare le sue “dritterie”, ma tanto non riusciva a farlo desistere dal suo modo di fare tantopiù che era entrato nelle grazie paterne.

Aurora e Alfio avevano un’altra indole, andavano d’accordo e si volevano veramente bene.
Anche loro avevano capito l’armeggiare di Andrea e si erano accorti che sgranocchiava sempre qualcosa di dolce, ma pur commentandolo fra loro, non ne avevano fatto cenno sapendo che non le avrebbe fatto piacere.

Così, chi non sapeva indovinava e nessuno parlava per quieto vivere.

Ma quell’uomo sembrava essere nato già vecchio e il sorriso non rischiarava mai il suo volto sempre teso e non mostrava mai i segni di emozioni.

Analfabeta per non aver mai frequentato le scuole, era riuscito però sempre a far quadrare il bilancio del suo piccolo commercio. avendo come base il numero sette e aiutandosi con le dita e col ragionamento, questo metodo antico gli era stato insegnato dai suoi genitori.

Questo suo infallibile modo di far di conto, gli era valsa la considerazione di tutti i bottegai che lo conoscevano perché sapevano bene che non si sarebbe mai fatto imbrogliare da nessuno.

Lui, personalmente, era orgoglioso di se stesso e di dove era arrivato e neanche si accorgeva di quanti lati negativi avesse, tanto da considerarsi l’uomo perfetto.

Malgrado si ritenesse tanto furbo, non presentiva affatto che i suoi sistemi da despota gli avrebbero alienato l’affetto dei familiari ai quali non dava l’ opportunità d’instaurare un dialogo aperto e costruttivo.

Sempre attaccato con fanatismo alla sua attività, da quando i negozi a Roma si andavano moltiplicando, si sentiva insidiato e, specialmente la concorrenza gli dava fastidio perché stava minando quel prestigio commerciale che molta faticosa caparbietà si era conquistato e che lo faceva primeggiare nel suo campo.

A malincuore aveva preso nota della diversa struttura delle botteghe che si mostravano scintillanti di luci e di slogan invitanti, con le ampie vetrine spesso rinnovate e molto curate, queste osservazioni lo rendevano di malumore e quando al mattino apriva il suo modesto” regno “ era già corrucciato.

Si rendeva conto che avrebbe dovuto rinnovare quella vecchia bottega, ma non voleva cedere alla tentazione che, seppure utile, gli avrebbe fatto rinnegare il concetto che fin dall’inizio aveva rispettato, pensando che una volta avviata, l’attività, dovesse procedere sugli stessi binari senza grandi spese di manutenzione.

Le cose invece stavano cambiando e la persuasione occulta della pubblicità e della eleganza cominciava a far presa sulla gente che voleva il nuovo e il bello.

Il settore commerciale in special modo stava subendo una evoluzione evidente in ogni città e paese, figurarsi poi nella capitale e più precisamente nel suo centro storico che attirava stranieri di ogni luogo e di ogni ceto; per questo era necessario che prendesse qualche decisione in merito se non voleva veder disertare i suoi numerosissimi clienti.

L’assillante problema lo stava rendendo ancora più cupo e, imponendosi di non dimostrarlo in pubblico, quando era fra le pareti domestiche, lo sfogava in malo modo.

Dopo aver consumato il frugale pasto meridiano in silenzio, ognuno si eclissava tornando alle solite personali occupazioni: i ragazzi a fare i compiti scolastici e la loro madre a rassettare la cucina.

Irene, coscientemente, partecipava ai nuovi eventi, ma si asteneva da commenti e consigli, ben sapendo che il marito rimuginava l’idea di affittare il negozio per riprendere il commercio ambulante.

Avrebbe collaborato volentieri, se lui glielo avesse concesso, perché stava notando che la precisione degli orari per l’apertura e chiusura del negozio cominciavano a far difetto e persino il rifornimento di tessuti, che era sempre stato tempestivo col cambiare delle stagioni, sembrava non avere più importanza, proprio nel momento in cui la concorrenza andava combattuta col maggiore incremento e costante presenza.

Ella trovò modo di far sentire il suo parere in modo indiretto, parlandone col figlio più grande e fingendo di affrontare la questione del commercio in generale, ben attenta però che quella conversazione fosse captata in modo chiaro dalla mente ottusa del capofamiglia.
La conferma che i suoi consigli indiretti erano giunti a segno, la ebbe allorché Massimo riprese l’abitudine di aprire bottega un’ora prima sia al mattino che al pomeriggio, cosa questa che aveva sempre agevolato i sarti che potevano rifornirsi prima della clientela spicciola che, sempre indecisa negli acquisti da fare, faceva perdere del tempo prezioso.

La venalità dell’uomo aveva vinto, non avrebbe mai acconsentito a perdere i suoi guadagni a causa della sua indolenza.

L’accumulo del denaro, per lui, equivaleva ad un piacere fisico e il godimento intenso che provava nel contare le ”sue” banconote era indescrivibile.

Si concedeva anche molto tempo per farlo, la sera da solo, con la serranda semichiusa, al riparo da ogni sguardo: contava i fogli uno ad uno lisciandolo, come una carezza, spianandone ogni eventuale spiegazzatura, ammazzettandoli per valore nel giusto verso, con la manualità precisa di un cassiere di banca.

Riserbava al denaro quell’amore che non sapeva donare agli altri.

Che il suo guadagno fosse cospicuo era opinione generale, che fosse avaro lo dimostrava, che non si fidasse delle banche lo diceva esplicitamente, ma dove tenesse conservata quella amata proprietà era un mistero per tutti.

A casa, di sicuro non l’aveva mai portata.

Sua moglie era convinta che il ripostiglio segreto si trovasse nello stesso negozio e si era sempre ritenuta offesa per la malfidatezza e la poca fiducia dimostratale.

Ne conosceva il perché da sempre, anche se non lo aveva mai accettato!

Traspariva chiaramente ogni volta che il discorso cadeva sulle donne giacché egli attribuiva loro i peggiori difetti, soprattutto quello di essere spendaccione e capaci solo di sperperare i soldi guadagnati dai mariti, secondo lui ogni donna doveva essere capace di accrescere le rendite familiari, limitando le spese al massimo.

Quanto sarebbe stata orgogliosa, Irene, di potergli dimostrare la sua oculatezza nell’ amministrazione domestica!

Solo che si fosse fidato delle capacità della sua donna,,, avrebbe avuto la possibilità di vivere meglio, senza tutti quei mugugni per ogni spesa imprevista e, a volte, anche per quelle spese di routine che nell’andamento di una famiglia sempre ci sono.

La sua donna non aveva mai avuto denaro in casa, “Tanto- diceva lui – a che serve che io lasci in casa dei soldi, se penso a tutto io !? Non ti rendi conto di quanto sei fortunata a non doverti scervellare per la spesa.

Però lui, non voleva capire di quanto lei si dovesse arrabbattare per nutrire convenientemente la famiglia con gl’ingredienti sempre limitati di cui disponeva e che, se non fosse stato per il costante rifornimento che le veniva dai suoi, di sicuro i loro figli avrebbero patito la fame.

Nell’ultima visita, nonno Guglielmo aveva recato una luttuosa notizia che aveva profondamente rattristata sua figlia: la morte della contessa Vittoria, la cara sua benefattrice, avvenuta nella casa romana nei pressi di Piazza Cola di Rienzo e quindi a poca distanza da lei poiché bastava traversare il ponte di Ripetta per poterla raggiungere.

Lo sconforto che prese Irene fu profondo, si rimproverava di non aver mai potuto ottemperare il di lei desiderio che avrebbe gradita qualche sua visita per poter conoscere anche gli altri due bambini.

Ricordò con tenerezza che, alla nascita di Andrea, fu l’anziana signora a salire le sue infinite scale per venirlo a conoscere, accompagnata da mamma Renata che per l’occasione si era data da fare per organizzare un bel pranzetto alla nobildonna che aveva recato in dono al neonato una bella catenina d’oro.

In quella occasione, come in altre, Irene si sentì mortificare da sua madre perché non si dimostrava buona padrona di casa non tenendo pronti dolcetti e bottiglie di liquore da offrire ad eventuali ospiti. Non era così che era stata abituata,

La giovane donna non ebbe coraggio di spiegarle tutto lo squallore del suo menage, come dirle che la mentalità di suo marito era così asociale da non permetterle nessuna amicizia e neppure rapporti di vicinato… altro che visite!!!

Le avrebbe dato un dispiacere inutile, tanto la sua esistenza era ormai segnata da un matrimonio sbagliato e nessuno avrebbe potuto far nulla per cambiare quello stato di cose; come dirle che quando, al momento delle nozze, ella si stava rallegrando coi parenti, dicendo che sua figlia avrebbe avuto l’opportunità di conoscere gente e fare vita di società, stava completamente fuori strada?

Con questa speranza aveva accettata meglio la lontananza da quell’unica figlia che, in quel momento neppure sapeva quello che l’aspettava nell’inserirsi nella città che tanto amava.

Queste, le ragioni, che impedivano alla sua sfortunata figliola, di rivelarle come stavano veramente le cose e tutta l’amarezza che le riempiva l’anima.

La morte della contessa, aveva recata ad Irene una tristezza in più e, ricordando l’affetto che le aveva legate, sentì più cocente il rimorso di non averla potuta rivedere e ancora di più non averle dato la soddisfazione di presentarle il ricettario di erboristeria terminato.

Irene veramente dubitava di poterlo condurre a termine giacché non trovava più il tempo per dedicarcisi.

Le dispiaceva pure pensare che ella l’avesse considerata ingrata, ma era sicura che non fosse mai stata sfiorata dal pensiero che la sua protetta conducesse una vita da reclusa, isolata da amici e parenti.

Neppure con le parentele del marito aveva mai avuto contatti, giacché egli aveva da anni rotto i rapporti con tutti loro:

Vero era che al momento che la “ Telarola “ era rimasta vedova non trovò aiuto da nessuno e dovette arrangiarsi come meglio poté per risalire la china in cui si era trovata dopo la malattia del marito; ce la fece con l’aiuto del figlio, ancora minorenne e orgogliosamente, tolse il saluto a tutti odiando il mondo intero.

Il figlio che ne aveva seguito l’esempio si maturò con lo stesso astio per l’umanità e continuava ad inculcare nei suoi ragazzi l’avversione per il prossimo.

Quanto male poteva germinare dai suoi discorsi distruttivi lo intuiva soltanto Irene che, con la sua profonda sensibilità, cercava di bilanciare gli esempi di lui con altri

Pieni di morale e di solidarietà, rimanendo sempre nel timore che nei suoi figli si potessero radicare cinismo ed egoismo.

Pregava il cielo che così non fosse! Non sarebbe stato più positivo per quell’uomo egoista vivere più fiducioso e con l’animo più disteso ? Possibile che non lo capiva?

Anche se veniva da un’infanzia travagliata perché non dare ai propri figli ciò che lui non aveva avuto? Non sarebbe stato più soddisfatto e appagato godere delle loro piccole gioie invece che vederli imbronciati per i suoi continui rifiuti? Irene ne soffriva, ma non era mai riuscito a convincerlo di questo; era un osso duro Massimo che, anche dopo lunghi ragionamenti, rimaneva fisso nelle sue convinzioni. La poveretta aveva l’animo sempre attanagliato da questi pensieri angosciosi e aggiornandosi nella lettura dei quotidiani che suo padre si premurava di portarle, era al corrente dei movimenti femminili che cominciavano a stravolgere i pregiudizi e i tabù che avevano precluso loro, da sempre, i diritti per una esistenza civile. Nell’ambito della famiglia e del lavoro la donna era stata sempre considerata una nullità e soltanto i doveri le erano riconosciuti. Dai resoconti dei congressi e dei comizi che si andavano tenendo, specialmente all’estero Irene, apprendeva che nonostante le loro battaglie coraggiose le donne venivano considerate suffragette scalmanate e ancor più oltraggiate perché i tempi non erano ancora maturi per rimuovere le ben radicate consuetudini maschiliste.

La soluzione dei problemi femminili erano ancora molto lontane!

Secondo Irene, esse pur coraggiose e combattive,non avevano ancora trovato la maniera giusta per imporre le loro sacrosante ragioni. Gli uomini si schieravano compatti contro i loro proclami, paventando che le iniziative di poche, potessero inculcare nelle “loro” donne idee di ribellione

Altri mezzi ed altri appoggi ci volevano per riuscire a rimuovere le posizioni di supremazia maschile che gli uomini si ostinavano a definire diritti.

Ma quali diritti? Se non erano mai stati decisi e scritti come leggi?

La verità stava nel fatto che l’uomo aveva paura dell’avvento femminile che poteva spodestarlo di molte sue belle prerogative!

Il drammaturgo Ibsen, aveva suscitato enorme scalpore con la sua commedia: “ Casa di bambola ”ove la protagonista Nora era presa a simbolo da ogni donna che ambiva portare avanti problemi nuovi, mai posti in discussione. Le vedute dei maschi erano in contrasto perché vedevano barcollare le loro posizioni di predominio sulle donne che era un privilegio da non concedere per non dare il via a quell’emancipazione che già li disturbava con la sola richiesta fatta dalle femministe che la sbandieravano come diritto, noncuranti della derisione e della umiliazione a cui venivano fatte segno con l’accusa di fomentare la ribellione di pacifiche mogli e figlie.

L’enunciazione per la quale…” la vita di una donna non deve forzatamente restringersi entro le sole pareti domestiche, accontentandosi dei ruoli subalterni che per secoli le sono stati attribuiti dalle consuetudini” era ritenuta scandalosa dalla maggioranza retrograda e, nel contempo, i benpensanti invocavano leggi che avessero tenuto conto dei tempi che si stavano diversificando in vari campi.

Molte erano le intelligenze femminili che bramavano applicarsi in professioni accaparrate da soli uomini. Urgevano modifiche e revisioni dei diritti nella famiglia e nel lavoro sia femminile che minorili per far cessare abusi e sfruttamenti; s’invocava il divorzio per rimediare situazioni familiari impossibili e inumane ove la convivenza forzata, conduceva a veri drammi, diventando anche un cattivo esempio per i figli.

Soprattutto si esigeva l’abrogazione di una legge mai sancita che consentiva al capofamiglia diritto di vita e di morte su mogli e figli: quel comando di padre-padrone non doveva più sussistere perché inumano.

Eppure fra tanto marasma, c’era l’amara constatazione, che da parte di tante vittime di questo antiquato tribale sistema di vita, non c’era compattezza ed entusiasmo per forzare queste revisioni a motivo della paura delle ritorsioni alle quali potevano andare incontro e, purtroppo queste idee erano inculcate proprio di generazione in generazione dalle stesse donne – vittime, inconsciamente votate all’obbedienza verso il sesso forte. La guerra è più adatta agli uomini e la maggioranza delle donne non si sentiva pronta a guerreggiare con loro.

Alla fine delle sue letture, Irene accumulava nel suo pensiero i pro e i contro e sospirando aspettava gli eventi. 
I tumulti politici aizzati a Milano, culminarono col tragico attentato di Monza che stroncò la vita al Re Umberto I il cui funerale che si svolse nella capitale radunò i personaggi più importanti del secolo: teste coronate ed esponenti politici, seguirono l’imponente corteo funebre mentre il popolo tutto volle esserci per non perderne nessun particolare.

Quel 10 luglio 1900 fu sicuramente un giorno infuocatissimo dal sole e dalle passioni e le migliaia di persone accalcate fin sopra i monumenti più alti seguirono la cerimonia dal Quirinale al Pantheon con infinita curiosità, ma anche con la soddisfazione di poter poi raccontare: “ C’ero anch’io!”.

Il nuovo regnante, Vittorio Emanuele III, di piccola statura e insicuro delle sue mansioni così impegnative, fu subito ricoperto di critiche, dai romani soprattutto che col loro spirito arguto lo chiamarono: Pippetto.

Come succedeva al tempo dei Papi, si ritrovarono epigrammi ironici e irriverenti sulla statua di Pasquino che scatenavano ancora di più l’ilarità e i commenti salaci del popolo e proprio in questo clima si caratterizzò l’avvento del nuovo secolo che avrebbe portato dei cambiamenti radicali in molte esistenze,

Malgrado le questioni politiche che rendevano insoddisfatti i sudditi italiani che si sentivano impotenti, covando altresì, risentimenti ed odi, le stagioni continuavano ad alternarsi secondo natura, regalando alle genti parentesi di allegria dovute alle feste tradizionali che immancabilmente trovava consenzienti popolo e nobiltà giacché nel divertimento si scaricano gl’incubi e si cercano di dimenticare i disagi correnti.

La differenza si riscontra solo nel modo di prendere il divertimento, oggi come ieri, ma per i miseri restano sempre poche queste parentesi che riescono a strapparli dalla quotidianità.
Di tradizioni da festeggiare a Roma ce ne erano parecchie ed alcune hanno resistito al tempo e molte che sanno di leggenda era doveroso rispettarle con puntigliosa precisione sia per l’intera città o per singolo Rione che non accettava l’intromissione di Rioni antagonisti.
Naturalmente le gare e le rivalità generavano gazzarre e putiferi che a volte degeneravano in risse cruente dando luogo ad ulteriori spettacoli per gli spettatori.

Le date più ricordate e più solenni erano attese e preparate e, annualmente, i medesimi riti e festeggiamenti richiedevano addestramenti lunghi e minuziosi per non offrire il destro alle critiche dei rivali.

Quelle che la storia riporta con dovizia di particolari sono spesso le più cruente e drammatiche come la Corsa dei cavalli berberi lungo il Corso Umberto che scatenava un orda di animali selvaggi aizzati in precedenza e che metteva a repentaglio la vita di chi vi assisteva e, sempre c’era poi la conta delle persone calpestate.

Tali e quali erano le finte battaglie dei Prati di Castello con numerosi morti e feriti.

A maggio i vari Rioni, ognuno con un colore, andavano in processione a Castel di Leva a pochi chilometri dal centro di Roma per raggiungere il Santuario della Madonna del Divino Amore per ricordare il miracolo colà avvenuto riguardante un pellegrino salvato in extremis dai morsi di un nugolo di cani-lupo affamati.

Queste processioni davano modo alle matrone romane di sfoggiare abiti sgargianti ed equipaggi di carrozze e cavalli ornati di ricche gualdrappe e fiori di carta variopinti.

La finale di questi festeggiamenti erano abbuffate luculliane e abbondanti libagioni come quelle della festa per S. Giovanni nella notte delle Streghe dove fra schiamazzi, suoni di campanacci e stornellate a dispetto erano di rigore le scorpacciate dei lumache.

Da ricordare ancora la festa de Noantri che per l’ultima settimana di maggio teneva in festa Trastevere e che si apriva e chiudeva con le due solenni processioni che prelevavano e riportavano la statua sacra della Madonna benedicente chiudeva con la solenne processione che trasportava la statua sacra della Madonna benedicente dalla Chiesa di San Crisogono a quella di Santa Chiara e viceversa.

Le sassaiole dei rivali monticiani che cercavano in tal modo di spegnere le fiammelle dei “moccoletti“della processione omonima, sempre in Trastevere,era un altro avvenimento capace di elettrizzare i romani che, al di fuori del raccoglimento dovuto alla funzione sacra, avevano la possibilità di assistere alle zuffe fra partecipanti e “ disturbatori” che, accantonando la devozione, diventavano dei fuori programma scontati.

L’estate romana si protrae fino a metà novembre ed invoglia a scampagnate allegre, in quell’epoca specialmente, molte comitive si davano convegno ai Prati di Testaccio, recando seco le vivande precotte che avrebbero gustato in comunità sull’erba, innaffiate da generose bevute col vino frizzante di Frascati, mantenuto fresco nelle botti e “quartaroli “ entro le cantine del Monte dei Cocci. 

Queste “ottobrate” davano luogo a veri e propri spettacoli improvvisati che rendevano euforico il popolo, bisognoso di scaricarsi e diventare protagonista nel momento adatto per dimostrare le eventuali doti artistiche che aveva in serbo.

Si alternavano quindi, alle abbuffate, gare canore di stornelli scanzonati e di “saltarello” al ritmo di “tamburelle” adornate di nastri dai colori sgargianti come gli abiti delle donne e nei giri di “tacchi e punte” frenetici, s’ incendiavano i cuori esuberanti dei “bulli” e delle “minenti” e che davano anche luogo a scontri al coltello per le gelosie che scatenavano.

Molto hanno contribuito al colore folcloristico i “ Ludus Carnevalarii“ che si svolgevano a Roma in Agone e sul Monte Testaccio detto pure Monte del Palio fin dal 1300, ai quali erano tenuti a partecipare le Corporazioni artigiane di tutti i Rioni con i propri stendardi e costumi, unitamente al clero e alla nobiltà.

Per Agone, la comunità giudea era quella obbligata a dare il maggior contributo in denaro affinché tutto si svolgesse con sfarzo e ricchezza, così pure tutti i territori dipendenti dalla Capitale dovevano far pervenire le loro “pecunia” comprese le grandi famiglie artigiane che preparavano per mesi gli atleti partecipanti facendo a gara per la ricchezza degli equipaggi e dei costumi indossati.

La grande Parata di Testaccio si chiudeva con la corsa sfrenata, lungo il pendio del Monte, di carrozze, rivestite di panno rosso con attaccate due giumente e due maiali per ciascuna inseguite da tori e altri animali silvestri che finiva con un rotolamento generale. Pur sempre una festa cruenta, ma fortunatamente le feste dei Santi Patroni si continuano a festeggiare con un sentimento più devoto e mistico e le preghiere innalzate dai fedeli sono inspirate alla speranza di essere assistiti per il meglio dal loro Santo per la durata della loro vita terrena ed oltre.

Intorno al 1900 però, non sembrava essere Roma una città molto festaiola, poiché la maggior parte delle famiglie erano numerose ed avevano scarse risorse economiche.

L’uso di trascorrere le serate estive fuori dei portoni di casa o facendo circolo nelle piazzette più prossime era inveterato e ben accetto dalla maggioranza che riteneva essere questa la loro villeggiatura.

Se ne raccontavano di storie in quei circoli! Storie vere e leggende!

L’uditorio veniva affascinato, in specie se erano gli anziani a raccontare le loro infanzie misere e faticate e le loro emigrazioni forzate che smorzavano le velleità dei più giovani e che in cuor loro, si auguravano un avvenire migliore e più soddisfacente; nel frattempo i fanciulli si scalmanavano nel rincorrersi o nel giocare a rimpiattino.

Le madri, pur tenendoli d’occhio, erano ben contente di starsene in riposo e, finalmente, accanto ai loro uomini che nelle sere invernali, erano lasciate in casa a badare ai figli mentre gli uomini concludevano la giornata di lavoro, al caldo dell’osteria fra una partita a carte e un bicchiere di vino.

Le serate estive permettevano invece al vicinato di riunirsi e di socializzare.

In quelle comitive semplici e bonarie,mentre girava il fiasco del vino o dell’acqua acetosa, si coniavano motti arguti e battute spiritose che ben presto facevano il giro della città senza approfondire chi ne fosse il vero autore, diventando quei proverbi pieni di saggezza e di esperienza di dominio nazionale conosciuti da tutti.

Così pure stornelli e canti anonimi che fanno parte del folclore e del repertorio classico non si sa come siano nati, ma l’origine sta sempre nelle vene poetiche di ignoti Menestrelli senza ambizioni di gloria.

Sono state proprio le succitate “usanze burine“ di Roma che hanno conferito a questa città l’impronta bonaria,contadina e artigiana, che attira e mette a proprio agio che viene a visitarla, giacché tutta la sua gente sa sorridere con genuina spontaneità mentre sdrammatizza con ironia gli eventi più seri e, soprattutto, sa dimostrarsi veramente amica. La Storia ha anche annotato biografie di personaggi romani singolari ed unici che hanno aggiunto altro colore locale a questa città “pacioccona” che, a somiglianza dei gatti, da cui è popolata, si porta dietro l’appellativo di pigra che dai suoi Bulli e Paini ha assunto la parvenza di fanfarona.

Le madri benpensanti però hanno sempre fatto una distinzione fra questi due tipi, temuti entrambi perché, azzimati e dongiovanni i primi, sempre a caccia di…prede femminili, facevano contrasto coi secondi, impulsivi e focosi, sempre pronti a risse e duelli rusticani.

Alle loro figlie auguravano un marito meno eccentrico e più amante del lavoro e della famiglia e rimproveravano le ragazze che seguivano con sguardi desiderosi i ricchi equipaggi delle persone facoltose che si recavano al Costanzi nelle serate di gala sfoggiando abbigliamenti sontuosi, perché non volevano che esse inseguissero sogni ambiziosi e irraggiungibili.

Il primo settembre 1909 i romani furono testimoni di una eclisse di sole che per venti minuti oscurò la terra.

Irene fu molto impressionata dal fenomeno che vedeva per la prima volta e si rivolse alla sapienza di suo padre per una spiegazione dettagliata; ne fu soddisfatta giacché egli poté fornirle dei dettagli particolareggiati su quella giornata particolare.

Ella venne così a sapere che per meglio studiare le fasi del fenomeno celeste in modo più ravvicinato era stata predisposta la spedizione di un aerostato con a bordo due scienziati, ma a causa del forte vento, levatosi d’ìmprovviso l’equipaggio prese la decisione di ridiscendere senza portare a termine il compito che si era prefisso.

Malauguratamente la rapidità di questa manovra fece deviare la rotta e il vento trasportò il grosso pallone a suo piacere, facendolo precipitare proprio a Farfa e fu nella casa dell’amministratore che furono ospitati e confortati i due sfortunati scienziati.

Sempre gentile e premuroso il suo buon papà, malgrado l’età che avanzava, continuava sempre a fare le visite periodiche al quale era abituato e ogni volta, nella casa di sua figlia era come una benedizione per lei e per i nipoti che lo attendevano con ansia e ne ricevevano tanti doni¸ egli infatti sapeva indovinare i loro desideri,

Oltre i regali per i bambini, i nonni non facevano mai mancare i buoni prodotti della loro terra, ma intenzionalmente, Massimo faceva in modo di non incontrarsi mai con suo suocero, per non doverlo ringraziare per quelle provviste che gradiva molto, lo si vedeva da come le mangiava.

Mai però avesse pensato di offrire anche lui,ai suoceri, qualcosa in cambio!

Da buon profittatore, considerava un diritto avere tutto quello che da Farfa arrivava e Irene continuava a soffrire per la grande taccagneria che egli dimostrava in ogni occasione e non poteva esimersi di confrontarla con la generosità che molta gente di condizione inferiore, dimostrava verso mogli e figli.

Aveva modo di vedere spesso il comportamento affettuoso di alcuni uomini del vicinato che avevano la consuetudine di cenare insieme alla famiglia nell’osteria sottostante che nella bella stagione metteva i suoi tavoli lungo la via affinché i suoi avventori mentre mangiavano le vivande portate da casa, godessero del piacevole ponentino.

Nelle serate in cui Massimo tardava a rientrare, Irene, dopo aver messo a letto i figli, si attardava sulla loggia al buio e al riparo delle piante li osservava e le loro affettuose premure la sbalordivano.

Rimboccavano il piatto a moglie e figli per tema che non mangiassero a sufficienza, ordinavano vino e acqua gazzosa e spesso qualche dolcetto per rallegrare il pasto già molto appetitoso e profumato. Riconosceva i famosi piatti romani dagli odori che giungevano fino a lei: dai carciofi alla giudia dorati nell’olio, a quelli alla romana, con aglio e mentuccia, dai pomodori ripieni di riso con basilico, aglio e origano, alla coda alla vaccinara, cucinata con tanto sedano e pomodoro, dai succosi rigatoni con pagliata al padellotto romano composto di carni del quinto quarto cioè dalle frattaglie che, unite alla cipolla, sono una squisitezza anche se chiamato “piatto povero”; nonché i rituali e gioiosi piatti di fritto di ogni specie;

Gli effluvi che uscivano dai contenitori che da casa venivano trasportati all’osteria lasciavano una scia così evidente, talvolta anche sulle scale per qualche po’ di unto che ne traboccava, che lasciava indovinare a tutti, ciò che si cucinava in ogni casa ed erano cibi che si prestavano al trasporto e perché acquistavano più gusto nell’essere lasciati riposare.

Irene non era molto attratta dal sistema di cucinare a casa per poi andare a mangiare in pubblico, considerava miglior cosa cenare entro le pareti domestiche e poi dopo uscire per una passeggiata, magari con la meta di un caffè o di un gelato perché aveva notato che spesse volte la promiscuità di quel mangiare gomito a gomito conduceva a scambiarsi gli “assaggi” col risultato di una …”caciara” generale, si limitava ad osservare e un’altra cosa che l’aveva colpita era il grande luccichio degli “ori” che sfoggiavano le donne,ostentandoli con orgoglio e, più modeste, erano le loro condizioni, più se ne ricoprivano. Pensando alle “sue” cose preziose, la povera donna non poteva dire di averne ricevute da suo marito che rifuggiva da questi… sprechi, come lui diceva e per le poche cose di valore che possedeva doveva ringraziare solo i genitori e potevano essere contenute nel palmo di una mano.

Non che tenesse ad averne, ma ancora una volta c’era in questo la dimostrazione di quanto l’animo di suo marito fosse privo di slanci generosi.

Cosa serve avere qualche disponibilità economica se la grettezza dell’animo non permette di fare qualche dono alle persone amate?

Più tempo passava più Irene si convinceva che nella sua casa non ci fossero persone amate da quell’uomo cinico ed egoista.

Irene si sentiva ormai svuotata e senza desideri.

L’unico orgoglio che persisteva in lei era quello di riuscire a provvedere da sola al guardaroba suo e dei ragazzi e,dopo anni dalle nozze, riusciva ancora a pescare dal suo ricco corredo, qualcosa da trasformare facendola apparire come nuova, disdegnando le stoffe che suo marito vendeva :

I giovanissimi Sarducci che presenziavano a quei tanti miracoli compiuti dalla loro madre, le erano riconoscenti perché riuscivano sempre a fare la loro figura:

Massimo che aveva fra i suoi clienti i sarti più sofisticati di Roma, annotava nell’intimo la bravura della moglie, giungendo persino a imporle di confezionare anche il suo vestiario, ma non desisteva dalle sue posizioni e se, talvolta, portava qualche scampolo a casa, c’era da scommettere che doveva trattarsi di qualcosa di scolorito per essere stato a lungo esposto nelle vetrine.

 

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